martedì 19 dicembre 2006

IN FIDUCIOSA ATTESA DELLA NOTA PASTORALE DEI NOSTRI VESCOVI

Cinque nodi
del dopo-Verona


Cara Settimana,
a suo tempo, i nostri vescovi ci scriveranno del dopo Verona. Nel frattempo è iniziata un’opera importante di auscultazione di ciò che lo Spirito ha detto alle chiese. Queste note senza pretesa si inseriscono in questo tempo di sedimentazione e di contemplazione.
C’è qualcosa nell’aria che non riusciamo adeguatamente a captare. E sarebbe così salutare ammettere che di questo si tratta. Da anni si dice che l’idea centrale della visione di chiesa è la comunione. Ma poi, se osserviamo con umile realismo prima di tutto la nostra esperienza personale, dobbiamo ammettere varie forme e livelli di distanza tra la parola e il vissuto. Tanto più se interroghiamo la prassi pastorale. Ci accorgiamo che nessuna parola è più contesa di questa.
Non possiamo attenderci una ripresa della speranza nella nostra missione di chiesa, se non passiamo attraverso “la via angusta e stretta” del vivere la comunione che diciamo e del dire la comunione che viviamo. Mistica e pastorale si coesigono: «L’atto di fede non termina sull’enunciato, ma sulla cosa», insegna san Tommaso.
C’è una serie di nodi critici da sciogliere per dare visibilità storica a un modello o immagine di chiesa-comunione testimone di speranza. Ed è solo “sciogliendo” questi nodi che potremo edificare delle chiese che siano “segno e fermento” di speranza nella complessa e affaticata storia di oggi.

Un primo nodo ecclesiale: una visione condivisa di chiesa riconducibile alla comunione: corale, organica e dinamica. Che renda plausibile e possibile non separare, ma unire – esaltandoli e integrandoli – i gruppi più vivi e i fedeli che danno il famoso volto popolare (ma lo riteniamo un talento o un peso…?). Da qui dovrebbe derivare una legge non discutibile: “ogni battezzato una voce”! Senza stile sinodale, dialogale, colloquiale, senza spazio e strumenti per la pluralità delle opinioni, senza la nostalgia del… “dis-senso” come via per il discernimento, non si rende possibile una chiesa comunione, testimone di speranza.

Un secondo nodo culturale: una valutazione condivisa del mondo e della nostra situazione culturale, che sia espressione di una coscienza profetica. Se il nostro ragionamento sul mondo – offeso dalla forbice crescente della disparità tra pochissimi e i più, dal dramma degli impoveriti – non si fa interpretazione cristiana della realtà, se lo stesso non avviene nella nostra visione dell’Europa e della sua razionalità post-illuministica, se la stessa lettura non si fa – nel quadro del dialogo interreligioso in un mondo carico di tensioni – delle cause del neo-terrorismo tecnologico e internazionale, come potremmo dar ragione ai nostri contemporanei e alle folle degli impoveriti della nostra speranza?

Un terzo nodo ministeriale: una visione condivisa del nuovo posto che spetta al ministero del vescovo e del suo presbiterio come soggetto collegiale del discernimento e della conferma nella fede. In una visione di chiesa comunione si tratta di un atto finale: per essere tale, deve decidere il percorso che lo precede. Deve esaltare – vincendo immagini e precomprensioni ataviche – l’“organizzazione dell’ascolto”, con il sussidio delle competenze interdisciplinari, umane e teologiche: ascolto della fede narrata dalla chiesa e nella chiesa (si inserisce qui la titolarità secolare dei laici!).
Sulla scia dei cinque ministeri fondanti di Ef 4,16 ss. e alla luce della magistrale lezione del dialogo vissuto in concilio tra teologi e vescovi, occorre un’alleanza tra il dono globale del teologo e il dono globale dell’apostolo, in ordine alla conduzione episcopale/presbiterale. Solo nel silenzio – esercitato come corpo collegiale – emerge la voce della Tradizione. Solo nel silenzio, il vescovo con i suoi presbiteri può discernere le forme per una “leadership” sacramentale. Superata la psicologia dell’assedio dei problemi, essa potrà esprimere la guida di Cristo buon pastore che abilita la chiesa a “governare il futuro”.

Un quarto nodo pastorale: una visione condivisa della missione evangelizzatrice. Per fare della pastorale un’epifania progettuale della speranza, una pastorale escatologica, ci sono almeno due basi!
Il primo pilastro è antropologico: ogni essere umano è/ha un germe divino! Lo enuncia con una luminosità abbagliante la Gaudium et spes al n. 3: «Il concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione». Questa è la scelta di campo del concilio. È anche la nostra scelta?
Il secondo pilastro è teologico: ogni battezzato è integrato per via sacramentale nel corpo di Cristo! Su questa roccia si fonda la vera profezia della chiesa nel suo farsi dialogo, azione, organizzazione. La profezia fiorisce nel passaggio (pasquale) dall’avere “tutti come destinatari” all’avere “tutti come soggetto e soggetti”. È qui la conversione che rende profetica la chiesa ed esperimentabile la sua speranza.

Un quinto nodo spirituale: una visione condivisa della spiritualità. Per sciogliere quei quattro nodi occorre un “potere” che Dio ha in serbo per noi: il suo Spirito. Ci occorre una nuova esperienza del Dio-Trinità. Personale e comunitaria. Siamo pure noi un microcosmo ecclesiale che rimanda alla condizione comune e globale della chiesa, nel suo faticoso lasciarsi tras-formare. È la “passio ecclesiae”. Ne portiamo le stimmate nel nostro corpo. Sappiamo che ci è stata indicata dallo Spirito una strada nel deserto, ma le nostre mappe non sono state ancora disegnate adeguatamente. Sarebbe decisivo riconoscerlo: la comunione non è ancora diventata operativamente, in maniera diffusa e convinta, la misura – scossa, pigiata, traboccante – della nostra spiritualità.
Così non è agile il nostro «correre con perseveranza nella corsa che ci sta dinanzi» (Eb 12,1). È affaticato il nostro esodo corale dalla non-fede alla fede, dalla pratica devozionale alla fede pensosa, dal non-popolo al popolo-di-Dio. Se questo approccio fosse vero, non disporremmo di un criterio chiave per capire il nostro momento di chiesa? E, conseguentemente, per delineare il suo futuro? Il documento che i nostri vescovi ci doneranno, entrerà nel vivo di tali questioni?

Prima che diventare e per diventare “casa”, la chiesa deve decidersi di diventare “scuola” di comunione. Passa di qui non solo la speranza del futuro, ma soprattutto il futuro della speranza.

don Gino Moro

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