mercoledì 28 marzo 2007

PER UN MATRIMONIO VERO E SOBRIO

Cara Settimana,
la celebrazione del sacramento del matrimonio in forma “classica” attualmente è parecchio costosa. Alcuni si accontentano di convivere, altri ricorrono al matrimonio civile.
Se c’è qualche credente che vorrebbe il sacramento, ma è tentato di ricorrere ai surrogati per motivi economici, si propone la celebrazione semplice: in una santa messa di orario, feriale o festivo, i fidanzati che si trovano in mezzo ai fedeli nella navata della chiesa, escono dopo l’omelia con i testimoni. Si mettono davanti all’altare in piedi. Pronunciano la formula sacramentale, si danno la mano, si mettono gli anelli e tornano in mezzo alla navata. Dopo la messa vanno in sacrestia a firmare e quindi si leggono gli articoli del Codice civile. È ammesso al massimo un amico che scatti qualche foto. Così c’è il risparmio degli inviti e delle bomboniere, delle corsie e dei fiori, dei canti e dei musicanti, per non parlare di abiti bianchi, pranzi e viaggi di nozze.

don Pietro Mozzato
Vetrego di Mirano (VE)

Se il matrimonio diventa una spesa non indifferente, non è certo a causa del rito cristiano. Il rituale del matrimonio cattolico, infatti, non prevede tutte quelle cose che costituiscono un peso finanziario tale da diventare veramente un ostacolo alla forma… “classica” delle nozze cristiane. Non prevede neppure le cosiddette “tariffe” ecclesiastiche. Anzi, uno spirito veramente evangelico suggerirebbe le scelta di comportamenti assai più liberi e controcorrente da ambo le parti. «Il mistero di salvezza che si comunica nella povertà dei segni umani e il carattere propriamente religioso del rito, esigono una celebrazione del matrimonio che si caratterizzi ad un tempo per la sua solennità e per la sua semplicità, l’una e l’altra rivelazione e annuncio della gioia cristiana di fronte al dono di Dio» (Cei, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, 88).
Semplicità e solennità non sono in contraddizione; basta chiarirci sui termini. «Si tenga presente che la vera solennità di un’azione liturgica dipende non tanto dalla forma più ricca del canto e dall’apparato più fastoso delle cerimonie, quanto piuttosto dal modo degno e religioso della celebrazione, che tiene conto dell’integrità dell’azione liturgica, dell’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura». Così si legge nell’istruzione Musicam sacram n. 11, pubblicata nel 1967).
La semplicità non è sciatteria. La festa ha un ruolo importantissimo nella vita dell’uomo ed essa si manifesta e si esprime anche attraverso il rito, un’azione abitualmente connessa a certi eventi e che pertanto diventa un segnale: l’abito, i fiori, il pranzo con i familiari e gli amici, la musica, ecc… Del resto, nei vangeli la gioia dell’incontro con Cristo e l’accoglienza del regno di Dio sfociano sempre in una festa che in genere si esprime con un banchetto (basti ricordare l’incontro con Zaccheo e la parabola del padre misericordioso).
Non solo gli orientamenti pastorali della chiesa italiana per questo primo decennio del XXI secolo affermano che è «assolutamente centrale approfondire il senso della festa e della liturgia» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49), ma anche il recente convegno ecclesiale di Verona ha affrontato il tema del lavoro e della festa come ambito dell’evangelizzazione. Si tratta di ritrovare il vero senso della festa che «non è qualcosa che si consuma», ma una questione di relazioni. Non si tratta di ostracizzare i segni della festa, ma quelle esagerazioni che ne oscurano l’autentico significato, specie quando la festa intende essere espressione della fede evangelica.
Nel caso specifico si tratta di dare verità e significatività ai segni del matrimonio cristiano. «La comune e gratuita partecipazione alla salvezza di Dio chiede che, nel suo svolgimento esteriore, il rito sia dignitoso ed eguale per tutte le copie di sposi, perché maggiormente appaia il carattere comunitario della celebrazione e sia affermata la medesima dignità di tutti i fedeli» Cei, doc. cit., 88).
Un corretto itinerario di preparazione al matrimonio cristiano non dovrebbe esaurirsi semplicemente in problematiche psicologiche, morali e giuridiche, come purtroppo capita sovente, ma dovrebbe anche condurre i futuri sposi ad una gestione più coerente del rito liturgico come pure delle tradizioni che lo circondano e condizionano, senza per questo rinunciare alla festa che ri-crea la vita e dà senso alla ferialità.
Tanto per cominciare, si dovrebbe convincere gli sposi che non è lecito addobbare la chiesa con fiori o altro per ostentare la propria condizione sociale umiliando le coppie meno abbienti (cf. Rito del matrimonio (RM) 31). Pur rispettando i gusti personali, l’addobbo floreale dovrebbe essere contenuto in una misura uguale per tutti e possibile a tutti.
È vero poi che il rituale non prevede una precisa collocazione per gli sposi, tuttavia non mi pare giusto che siano confusi nell’assemblea. Non è così per nessun altro sacramento. Lo stesso rito prevede un’accoglienza che immediatamente e giustamente pone i nubendi in una posizione di rilievo (cf. RM 45). Nel rito attuale inoltre è prevista la memoria battesimale che sostituisce l’atto penitenziale e coinvolge tutta l’assemblea (cf. RM 51-58). Con tutto ciò non è detto che gli sposi, con relativi testimoni, debbano essere collocati nella posizione “classica”, con poltrone e inginocchiatoio al centro, davanti all’altare. Né si può dire che questa sia la collocazione migliore, anzi… Tuttavia un posto di rilievo in testa all’assemblea o altrove, secondo la disposizione del luogo, è più che opportuno. Certamente trovo significativo e conforme alle norme che il consenso abbia luogo davanti all’altare e all’assemblea, dove gli sposi in piedi si pongono l’uno di fronte all’altro (cf. RM 70) e dove, in ginocchio, ricevono la solenne benedizione nuziale (cf. RM 79 e 84).
Sebbene abbia suscitato qualche perplessità, il nuovo rito colloca la lettura degli articoli del Codice civile prima della benedizione e del congedo (cf. RM 91).
Anche le foto sono una “memoria” importante da non ostracizzare (in certi riti di ordinazione se ne fanno anche di più). Da qualche anno esiste un regolamento preparato dall’Ufficio liturgico nazionale e proposto alle diocesi quale modello per redigere una convenzione con i fotografi che, dopo un corso di preparazione, vengono autorizzati per il servizio durante i matrimoni nel rispetto della celebrazione liturgica e per evitare la confusione causata da amici e parenti improvvisati fotografi.
L’inserimento del rito nuziale nell’assemblea eucaristica domenicale e festiva sarebbe l’ideale perché, oltre ad esprimere chiaramente non solo il matrimonio in chiesa ma anche e soprattutto nella chiesa, risolverebbe alla radice il problema di cantanti e musicanti (cf. RM 28 e 30). Sarebbe l’assemblea che canta, come di norma. Purtroppo, nello stato attuale di cose, in molti casi questa prassi susciterebbe più problemi di quanti non ne risolverebbe. Si tratta di salvaguardare la dignità dell’assemblea dei credenti!
Lasciamo agli sposi di decidere sull’abito, il pranzo, le bomboniere, il viaggio di nozze… Sono faccende private che esulano dalla liturgia. Tuttavia, una buona preparazione dovrebbe aiutare gli sposi ad essere anche liberi da tutti questi condizionamenti e senza complessi; capaci di cogliere il messaggio e lo spirito che sta alla radice degli orientamenti pastorali della Cei: «La celebrazione del sacramento non può essere scambiata in cerimonia folcloristica o trasformata, più o meno gravemente, in uno spettacolo profano. La rinuncia ad un lusso che contraddice alla povertà di tanti fratelli, deve fare del momento delle nozze un’occasione di carità più largamente diffusa per i fratelli poveri e più abbandonati. Alla responsabile valutazione e decisione degli sposi deve essere affidato il compito di limitare le esteriorità delle nozze e di andare incontro alle varie necessità della comunità ecclesiale» (Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, 89).
Sono sempre in numero maggiore gli sposi che hanno compreso e preso sul serio questa dimensione della festa cristiana che si esprime nella condivisione. Le bomboniere sono sostituite da un semplice annuncio e invito dove si dice che la somma corrispondente sarà destinata ad una precisa attività caritativa. C’è anche chi ha sostituito la solita lista-regali con una lista di doni, a costi diversificati, a favore di concreti progetti di solidarietà nei paesi del terzo mondo. (Silvano Sirboni)

giovedì 22 marzo 2007

LA CHIESA DI OGGI NON È DA "ROTTAMARE"....

Cara Settimana,
sono un “giovane prete” di quelli di cui parla don Averardo Dini in una recente sua lettera alla vostra rivista. Una duplice impressione dopo la lettura delle sue parole, un senso frammisto di gioia e di tristezza:
– la gioia di sentire che un sacerdote che ama definirsi “rottamato” possa ancora sognare e immaginare una chiesa diversa da quella che sperimenta ogni giorno. Il gap, la distanza fra il sogno e quella che lui descrive come la triste realtà, infatti, può essere il motore che porta ad un suo sviluppo, ad una crescita;
– la tristezza, perché le sue parole esprimono un profondo disagio interiore, l’esperienza della disgregazione di un mondo, il crollo e la fine di un’identità che – come un ciclone – portano don Averardo a smarrire persino la strada evangelica della carità rispetto ad una chiesa a cui egli stesso appartiene.
Anche a me piace sognare e immaginare la chiesa, ma il sogno di cui voglio parlare è un sogno che vedo realizzarsi ogni giorno e non certo sfaldarsi poco a poco.
La chiesa che io sogno i nostri vescovi la definirebbero “comunità missionaria ed evangelizzatrice”, “oratorio di famiglie”, “carità vissuta in un mondo che cambia”, (non mancano coloro che invitano a riscoprire come fondanti certe dimensioni)…: non è chiusa in se stessa ma capace di uscire, comprende gli strumenti moderni quale il computer e i telefonini cellulari ma non è compresa da essi, è santa e peccatrice, capace di parlare quando si vorrebbe tacesse e di tacere quando invece vorremmo che parlasse…
La chiesa dei miei sogni, la chiesa che vedo, fa anche “volantinaggio” prima e dopo la santa messa, avvisa cioè di una presenza, si fa incontro perché vuole guardare più in là rispetto alla punta delle sue scarpe, vuole guardare oltre la punta del suo campanile.
Questa chiesa la incontro nello sguardo di ogni malato visitato (e sono tanti, ma – fortunatamente – le tante mani sinistre non sanno cosa fanno le tante mani destre!) e in questo nostro mondo sono molti i malati (forse anche più dei “sani”): questa chiesa si trova su ogni volto lacerato, su ogni volto mascherato, oppure su ogni volto nascosto che cerca di essere rivelato. Questa chiesa è anche il malato di aids che mi è morto fra le braccia un giorno di qualche anno fa: eppure questa chiesa non fa rumore! Protagonista sembra essere sempre la sagra, la cena, la gita. Eppure dietro a quella tavola imbandita, dietro quel sentiero aperto a tutti, dietro a quella musica o a quell’atmosfera giocosa, ci sono sempre tanti volti e c’è sempre un Volto.
C’è anche la chiesa raccontata da tanti come padre Turoldo, don Milani, un amico come don Emilio Gandolfo, don Vacca Mauri, don Serafino Ceri, ma anche tanti laici che, nella loro semplicità e con le loro storie, ne hanno scritto le pagine! Questa chiesa la narrano anche i più moderni predicatori internauti che parlano la voce moderna del computer come la racconta pure il buon “don Ave” – così lo chiamano i suoi ex parrocchiani –; questa chiesa si trova in film come quelli di don Camillo e di Peppone, ma anche nei più moderni film di registi dell’Uzbekistan, perché è una chiesa che non vuole avere confini di spazio e di tempo; è la chiesa parlata dal vernacolo fiorentino ma è anche cantata dal sorriso amaro di un clown all’oratorio.
È la chiesa che si ispira al vangelo e al volto di Cristo: insieme a quello di Gesù, vede il volto tumefatto e insieme radioso di gente povera e ricca, e in mezzo a questi volti vive.
È la chiesa che vuole incontrare, oltre al 10% della gente che va alla messa – praticanti e forse anche fedeli –, pure il 90% che non frequenta la celebrazione domenicale. Questa chiesa è la chiesa delle gite attentamente preparate per fare del volto di un bambino un sacramento e di una passeggiata un rito capace di indurre il passaggio dalla solitudine alla solidarietà. Forse questa chiesa canterà anche nei concerti, anche con note stonate, ma comunque canta la gioia e il dolore di questa nostra creazione che geme e soffre nelle doglie del parto.
C’è una chiesa che parla molte lingue e fra queste anche il DOS e gli altri linguaggi dell’informatica, ma in queste lingue cerca di dare espressione alla Parola: cerca di comunicare non solo col prossimo vicino ma cerca di farsi prossima ai lontani.
Questa chiesa non può accontentarsi dell’immagine raccontata di una montagna nella storia di chi, quella montagna, l’ha scalata o ha immaginato di scalarla; il suo racconto dovrebbe essere veramente carico di una tensione e di una passione indicibili e incontenibili: la chiesa, quella montagna la deve e la vuole scalare essa stessa con le sue gambe, la deve amare col suo cuore, la deve contemplare con i suoi occhi. Questa chiesa – dice Leonardo Boff – da quella montagna si deve far contemplare, si deve lasciar provocare. Questa sarà la montagna in cui individuare sentieri, tracce di Dio e dell’uomo… e non sarà mai tempo perso tracciare il sentiero!
Questa chiesa, che io immagino, vive nel mondo ma non gli appartiene (l’hanno già detto tanti anni or sono): non corre dietro al denaro, perché deve fidarsi della Provvidenza, eppure deve fare i conti anche con il denaro che può essere mezzo da condividere e strumento di partecipazione alla cosa di tutti; anche il denaro le sarà compagno nella navigazione fra i marosi di questa vita: è evidente che i problemi economici, e specie il loro accumulo negli anni, non dovranno mai assorbirla, appesantirla e renderla incapace di viaggiare…
Questa chiesa ama “viaggiare”. Nella nostra comunità parrocchiale c’è una donna anziana che, anziché definirsi “rottamata”, si è chiamata “madrina dei morti”: mi accompagna in tutti i funerali che celebro (circa cento ogni anno) e soprattutto “accompagna” loro, gli amici che vogliamo salutare. Una specie di Caronte che vince ogni solitudine e racconta tutta la solidarietà. La chiesa è anche questo nel 2007, silenziosa e insieme eloquente sposa di Cristo.
Questa è anche la chiesa che, nella “beata confusione” di un’affollatissima festa, in mezzo a tante solitudini, trova il coraggio di piangere senza vergogna ora lacrime di gioia e ora lacrime di dolore: lo può fare in quanto non è una chiesa di facciate ma di volti e di Volto.
La chiesa compie il suo viaggio sospinta dai venti dello Spirito di Dio ed è spesso sbatacchiata non poco e sicuramente anche a ragione, dal “Dio delle bastonate” che, come un padre, corregge il figlio monello; una chiesa che passa attraverso tempeste e crisi verso il porto sospirato.
Questa chiesa riconosce a tutti il diritto di cittadinanza, dà a tutti un permesso di soggiorno, anche a chi in essa non vorrebbe riconoscersi: c’è chi smarrisce la strada che ad essa porta ma il suo portone d’ingresso resterà sempre spalancato se essa, sposa di Cristo, non vuole rinnegare il suo partner.
Una chiesa così io la vedo ogni giorno: il volto di Cristo almeno in qualche occasione, in qualche suo “forse” lo manifesta, e Dio Padre di questi “forse” si accontenta: sono germi che niente hanno della noia perché parlano di un movimento e di un cammino da compiere che si rinnova e che mai puzza di sorpassato. In questa chiesa trova spazio il volto sorridente e paffuto di un bambino come quello pieno di rughe di colui che si affaccia all’altra riva; trova significato il volto sudato come quello che piange lacrime di sangue: in ognuno di questi volti io vedo la pasqua e vedo Cristo, nostra pasqua.
Per questa chiesa io e tanti abbiamo scommesso la vita e io la amerò anche quando la vedrò lacerata (tanto la mia vita quanto la chiesa, come vorrei fossero un’unità inscindibile!): è la chiesa fatta di preti e di laici che mi hanno preceduto, tutors sulla via della vita, vivi o defunti, sempre e comunque sguardi luminosi e illuminanti che non hanno mai smesso di essere bagliori o riflessi del volto di Dio che fa brillare il sole sui giusti e sugli ingiusti.
Questi tutors e, insieme, compagni di viaggio, ad oggi mi hanno fornito gli scalini e consentito di salire non su di un podio per essere protagonista, campione o premiato nella storia degli uomini, quanto invece di arrampicarmi su una piccola collina dall’alto della quale si assapora la vetta della montagna, ora più vicina: dall’alto di quella rampa io posso allungare la mia mano da mendicante che chiede aiuto e che anela ad essere stretta ad un’altra mano, ben più grande, quella di Dio. Vorrei che questa fiducia nella mano di Dio, che quasi ci avvolge, fosse trasmessa a tutti coloro che vogliono sognare, immaginare, credere e sperare – nella certezza – che, in questa chiesa, non esiste e mai esisterà “rottamazione” perché essa non può smarrirsi nell’“usa e getta” del mondo.
Grazie ad Andrea, a Daniele, a padre Saverio Corradino, a Maria Giovanna, al piccolo Emilio Gandolfo, ai tanti nomi che hanno segnato il mio cammino, e grazie anche a “don Ave”.

don Vittorio Menestrina

lunedì 19 marzo 2007

NON LA POSSO ASSOLVERE, MA....

Gentile direttore.
anche se non sono un esperto in materia e non ho nulla da insegnare o di nuovo e di originale da dire, pure io mi inserisco nel discorso/dibattito della pastorale di frontiera nei confronti di coloro che stanno vivendo una situazione coniugale non secondo Dio, ma alla maniera degli uomini (cf. Mc 8,33).
Prendo semplicemente le mosse da un fatto che mi ha ulteriormente illuminato e fatto riflettere.
Mi si presenta una persona che non conosco direttamente e mi chiede se mi può parlare privatamente. Ci vediamo. «Padre, avrà notato che, quando celebra la santa messa, io non faccio mai la comunione; sono divorziata e quindi ne sono esclusa». Mi affretto a dirle che questa situazione non è di per sé un impedimento all’esperienza sacramentale. Mi interrompe. «Mi lasci finire: io ho un compagno».
E così mi racconta la sua storia di moglie tradita dal marito il quale ha avuto un figlio con un’altra donna. Per questo lei non si è più sentita di stare con lui e lui neppure.
Poi continua: «Quando è morta mia mamma e ha fatto la prima comunione mia figlia, ho chiesto al mio prete se potevo comunicarmi perché non potevo dire alla mia bambina le cose come stavano. Il prete, dopo aver sentito la mia vicenda, mi ha detto di sì. E così è avvenuto con mia soddisfazione e senza imbarazzo di mia figlia, ignara di tutto; se non mi fossi comunicata con lei e come lei, certamente mi avrebbe chiesto il perché con grande mio disagio a doverle svelare, di punto in bianco, la mia situazione. Ora vorrei regolarizzare il tutto con una assoluzione e riprendere a comunicarmi perché ne sento un grande bisogno e piacere».
Mi si sono raggelate le vene al pensare di non poterla accontentare e farle sfumare forse la speranza di aver trovato un prete “comprensibile” e “accondiscendente”!
A scanso di equivoci, mi sono buttato a parlare liberamente e, senza mezzi termini, le ho detto che non ero sulla stessa linea del confratello; non per questo lo giudicavo male in quanto lui, essendo esperto in morale, avrà certamente avuto le sue “brave” motivazioni per dire quanto aveva detto e avallato.
Come conclusione di questa prima parte della conversazione, le ho confermato quanto lei aveva già intuito e cioè che in coscienza non potevo e non mi sentivo di assolverla.
Ne è convenuta anche lei perché anche altri preti le avevano espresso la stessa cosa, ossia che le condizioni per risolvere la questione erano due: avviare la causa di verifica della validità o meno del matrimonio ed essere disposta, nel frattempo, a vivere da fratello e sorella col proprio compagno non potendolo lasciare.
La signora mi dice che esclude ambedue le cose per non rivangare il passato coinvolgendo e facendo star male i propri congiunti e perché il proprio compagno non ci starebbe in quanto non è praticante ed è lontano da un discorso religioso e di chiesa.
Allora le faccio un altro discorso: quello sulle varie presenze di Cristo. La invito a prendere atto che la comunione eucaristica è, in realtà, il vertice della fede; tuttavia ci sono altre “comunioni”, non alternative beninteso, che nel frattempo si possono fare abitualmente con Cristo dovunque lui ha rivelato e indicato la sua presenza come, ad esempio:
– ogni volta che avete fatto un gesto di amore verso un prossimo in situazione di povertà e di bisogno, l’avete fatto a me (cf. Mt 25);
– dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (cf. Mt18,15);
– chi avrà dato un solo bicchiere d’acqua ad un discepolo di Cristo non perderà la sua ricompensa perché è come averlo dato a lui (cf. Mc 9,41)…
Aggiungo che il concilio Vaticano II (cf. SC n. 7) ha messo a fuoco sette presenze vere di Gesù; non le chiama reali, e riserva questo aggettivo solo alla presenza di Gesù nelle sacre specie eucaristiche “per antonomasia”, ma ciò non le destituisce del loro valore di presenza di Cristo.
Provo ad elencargliene alcune:
* quando nella chiesa viene proclamata la parola di Dio, è Dio stesso che, qui e ora, parla al suo popolo,
* quando vengono celebrati i sacramenti, è Cristo stesso che battezza, assolve, consacra ecc.,
* quando si sta o si prega insieme, è ancora Cristo il centro e l’agente dell’unità e della comunione (cf. Mt 18,20),
* quando si vive l’amore vicendevole e fraterno, è sempre Cristo, presente e operante, il dono e la ragione di questa relazione (cf. Gv 13,35),
* lo stesso ministro celebrante è segno vivo di Cristo per cui, quando il sacerdote va all’altare per la santa messa, è Gesù che, nel segno di una persona fisica e visibile come il prete, entra nell’assemblea liturgica e vi ripresenta la sua offerta sacrificale per la nuova ed eterna alleanza con tutti i fedeli compartecipanti,
* Gesù si ritiene maltrattato in chi è perseguitato e combattuto a motivo della propria fede (cf. At 9,4-5).
Man mano che dicevo queste cose, osservavo che gli occhi della donna, inumiditi dalle lacrime per la mancata assoluzione sacramentale, diventavano radiosi nel sorriso per la finestra che si era andata dischiudendo.
La persona in questione, ad un certo punto, ha rotto il silenzio e ha commentato: «Anche se non posso vivere la pienezza della comunione mediante l’eucaristia, posso fare tante comunioni che mi avvicineranno al vertice; anche se la mia condizione, per ora, non mi consente di muovermi al livello, mettiamo, del “dieci”, però anche l’uno, il due, il tre… hanno il loro significato e valore; uno più uno più uno può diventare dieci!».
Mi sono reso conto ancora una volta che la questione dei separati risposati non è solo un problema scabroso di ordine morale e giuridico, ma di fede.
A volte ho l’impressione che si tenga di più ad essere autorizzati a fare la comunione mediante il poter “prendere l’ostia” – come a volte sento dire – che essere una sola cosa con Cristo per se stesso come Persona, morto e risorto per noi, considerato come il collaboratore della nostra libertà, della nostra gioia, del nostro vero e definitivo bene, che avere il suo pensiero (cf. 1Cor 2,16), che condividere il suo progetto-uomo, la sua volontà di amore benevolente.
Le amnistie, gli indulti, le concessioni compassionevoli e benevolenti attutiscono il dolore ma non guariscono.
Gesù, a chi gli chiedeva quali opere erano da fare, ha risposto, senza tergiversare: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,26). Queste parole rivelano che il servizio (azione/opera) fondamentale di Dio è che noi, suoi beneamati figli, siamo capaci di fidarci lui e affidarci a lui, che «è buono e fa il bene» (Salmo 119,68).
Alla samaritana che aveva avuto cinque mariti e quello che aveva non era il suo (cf. Gv 4,19), Gesù ha detto: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). E la samaritana, avendo incontrato e conosciuto il dono di Dio, ossia il Messia Salvatore, ha dato una svolta alla sua vita (cf. Gv 4,28-29).
Gesù dice che chi ha trovato un tesoro, non esita a vendere tutto quello che ha e a procurarselo (cf. Matteo 13,44-46); chi guarda a chi e a cosa “guadagna”, ha la ragione e la forza di liberarsi (non di rinunciare!) da ciò che impedisce di concludere l’affare.
Sono sempre validi e attuali, anche se sembrano duri e autodistruttivi, i criteri di gestione della propria vita dati da Cristo: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te… conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna» (Mt 5,28-30).
È altrettanto significativa l’ingiunzione imperativa di Gesù alla donna adultera: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).
Si comincia a fare la comunione quando si arriva a dire: il mio bene sei tu (Gesù): non c’è felicità per me senza di te! Chi trova Cristo, trova il più bello e il meglio senza eguali!
Occorre potenziare e intensificare il desiderio e soprattutto la voglia di Gesù per se stesso come l’amato del proprio cuore perché «chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra… Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73,25.28).
Le comunioni di desiderio scavano e predispongono alla comunione reale con Cristo, via, verità e vita. La Verità (Gesù stesso), insieme alla verità della propria ricerca di lui, libera, fa liberi, rende possibile quello che umanamente sembra impossibile, a condizione che si creda in lui come Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68) e, come lui, dicessimo: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5).
Fanno impressione e fanno pensare e sono provocanti le parole di Gesù: «Voi non volete venire a me per avere la vita» (Gv 5,40) e la domanda che ha posto ai primi discepoli: «Che cercate?» (Gv 1,38).
L’esperienza delle molteplici forme di comunione con Gesù secondo i suoi vari “modi” e “luoghi” di presenza, senza concentrarsi esclusivamente su quella eucaristica, pur non arrivando all’eccesso di non considerarla più o eguagliarla a tutte le altre presenze, mi pare che possa essere una pista percorribile da tutti la quale può sfociare nel «fons et culmen» del sacramento eucaristico.

don Guido Oliveri

giovedì 8 marzo 2007

IL CELIBATO E LA SOLITUDINE DEL PRETE

Cara Settimana,
mi sembra importante riconoscere che, nella scelta celibataria del prete, c’è un inevitabile, conseguente “senso di solitudine” che va accettato, sofferto e offerto. Un senso di solitudine che consegue, di tutta logica, alla rinuncia a quel “adiutorium simile sibi” che la stessa natura umana – così come era uscita dalle mani del Creatore – “naturalmente” esigeva, anche dentro i succedanei di un paradiso terrestre. E lui, il Creatore – come ricorda la Genesi – riconosce e afferma che «non è bene che l’uomo sia solo». Trovo quindi senz’altro utile e necessario valorizzare – come giustamente si raccomanda – i preziosi aiuti che una vita comunitaria, l’amicizia fra preti, il legame sacramentale con il presbiterio ecc… possono offrire per sostenere questa inevitabile “solitudine” del prete. A condizione che sia chiaro che la nostra scelta celibataria ci fa mancare quel rapporto profondo di vita che fa dei due “quasi una sola carne” – e non mi riferisco primariamente alle fatiche conseguenti ad una vita casta – consentendo ai due di non affrontare da soli la vita.
Ritengo, cioè, che una certa sofferta “solitudine” rientra nella condizione celibataria in quanto ogni prete – come ogni altro normale essere umano – sentirebbe anche il bisogno di un tipo di relazione che solo la vita di coppia può offrire e di cui probabilmente avvertirà sempre la mancanza. Soprattutto in qualche momento della vita.
Ritengo che né il carisma celibatario con la sua grazia propria, né l’amore sponsale con Dio cancellino questo bisogno e questa umanissima nostalgia. Se mai, costituisce un motivo aggiunto per una spiritualità di relazione delicata e forte con Dio e l’accettazione di condividere nella propria carne le tante sofferte solitudini che ci sono oggi nella società. Anche all’interno della coppia.

don Fernando Pavanello
Breda di Piave (TV)

SULLA CONFESSIONE E SUI CONFESSORI

Caro direttore,
mi permetto di inviarti qualche riflessione sulla sgradevole vicenda delle false confessioni di cui si è reso protagonista il settimanale L’espresso. Sulla vicenda sono apparsi tempestivamente autorevoli interventi (cf. L. Lorenzetti su Famiglia Cristiana n. 5/2007, p. 31, e l’editoriale di Civiltà Cattolica del 17.2.2007, quaderno n. 3760) e anche Settimana n. 7/2007 del 18.2.2007 ha ospitato una lettera sulla questione. Ecco quanto mi sembra di poter scrivere, partendo dal discorso del papa riportato dall’Osservatore Romano del 19-20 febbraio scorso: «Quante persone in difficoltà cercano il conforto e la consolazione di Cristo! Quanti penitenti trovano nella confessione la pace e la gioia che rincorrevano da tempo! Come non riconoscere che anche in questa nostra epoca, segnata da tante sfide religiose e sociali, vada riscoperto e riproposto questo sacramento?».[1]
Non per cercare conforto e consolazione, né per riscoprire e riproporre al nostro tempo e alla nostra cultura in larga misura secolarizzata il profilo salvifico e misterioso di questo sacramento – al presente in notevole crisi – ma per la curiosità, debitamente stipendiata, di sapere cosa pensa il “grande esercito” dei preti italiani, alcuni inviati de L’espresso[2] sono entrati con identità fittizie nei confessionali di 24 chiese italiane da Torino a Palermo, da Milano a Napoli e Roma, accusando peccati o colpe che toccano l’arco delle questioni più dibattute e scomode dell’oggi e le conseguenti registrazioni delle risposte dei confessori.
I lettori ne sono a conoscenza, perché tutti gli organi di informazione hanno riferito di tale vicenda, che ha un precedente di pochi anni or sono, deplorevole e detestabile violazione della santità del sacramento, nonché della deontologia professionale giornalistica che interdice inganno e frode a fini conoscitivi.

Non tutto il male vien per nuocere. Male c’è stato: è necessario riaffermarlo senza esitazioni e senza sconti. Dissacrazione di un sacramento della chiesa e trappola tesa al confessore con accusa fittizia del tutto priva di dolore e di volontà di conversione e con domande non finalizzate alla richiesta di perdono, ma alla conferma dei propri pregiudizi ideologici, violazione della privacy, cui oggi si presta tanta attenzione.[3] E tuttavia qualcosa di positivo è possibile ricavare da questa triste vicenda.
Le risposte e gli atteggiamenti dei confessori presi alla sprovvista, incapaci di identificare la realtà delle persone sotto la maschera del finto penitente, e quindi da non condannare senza discernimento, inducono a riflettere sulla loro preparazione in campo di etica della vita, di morale sessuale e sociale. Riesce infatti abbastanza facile evidenziare nei loro responsi approssimazioni, superficialità e ambiguità e, in particolare, notevoli divergenze sul fatto di concedere o meno l’assoluzione.
I falsi penitenti tentatori – forse non del tutto consapevoli della malizia del loro gesto – dimostrano di ignorare lo spessore teologico e la realtà complessa del peccato che, oltre al profilo personale riveste anche una dimensione sociale e collettiva,[4] e in particolare la bipolarità della morale: riferimento non obliabile a valori e norme (aspetto oggettivo) e alla soggettività della coscienza della persona in situazione, sempre da rispettare come norma ultima di comportamento (aspetto soggettivo).
A motivo di tale ignoranza dimostrano stupore e scandalo a fronte dei verdetti, ora di assoluta condanna, motivata dalla violazione oggettiva di norme evangeliche o ecclesiali, ora tradizionali e largamente assolutorie, spesso inadeguate alla gravità dei problemi proposti. Questi vertono su temi ardui: aids e uso dei preservativi, liceità o meno del ricorso a cellule staminali embrionali, droghe, fecondazione assistita, aborto e frequentazione di prostitute, omosessualità e comportamenti in linea con tale condizione, sesso con minori, divorzio e convivenze de facto, truffe ed evasioni fiscali.
Che i confessori abbiano dimostrato perplessità e inadeguatezze nei loro responsi non sorprende più di tanto: stupisce però l’impreparazione e l’approssimazione di alcuni, rivelatrice di una scarsa familiarità sia con i documenti della chiesa, sia con le più recenti elaborazioni teologico-morali in queste delicate e complesse questioni. Ovviamente sulla validità di tali inchieste ottenute per la via dell’inganno è necessario fare la dovuta tara e avanzare tutte le opportune riserve.

Saggezza e attualità del messaggio pontificio. Nel discorso da cui abbiamo preso le mosse, papa Benedetto non fa alcun riferimento al doloroso fatto di cronaca che abbiamo brevemente richiamato, ma offre una messe ricca e feconda di riflessioni che aiutano a riproporre in maniera altamente valida e veritiera il sacramento della penitenza e della conversione sia ai confessori che ne sono ministri (persona dramatis) sia alla nostra cultura inetta a percepire il significato dei simboli e lo spessore salvifico del sacramento: rinascita spirituale e trasformazione del penitente in una nuova creatura, non come risultato di un gesto magico, ma attraverso l’incontro della grazia con l’atteggiamento serio di dolore e di conversione del penitente.
Questi, afferma il pontefice, è strumento della misericordia divina: «Pertanto è necessario che egli unisca ad una buona sensibilità spirituale e pastorale una seria preparazione teologica, morale e pedagogica che lo renda capace di comprendere il vissuto della persona. Gli è poi assai utile conoscere gli ambiti sociali, culturali e professionali di quanti si accostano al confessionale per poter offrire idonei consigli e orientamenti spirituali e pratici. Non dimentichi il sacerdote che in questo sacramento egli è chiamato a svolgere il compito di padre, di giudice spirituale, di maestro e di educatore». Ma ciò esige un costante aggiornamento.

Giuseppe Mattai SDB, Alassio

[1] Discorso di Benedetto XVI ai penitenzieri delle quattro basiliche pontificie romane e ai prelati e officiali della Penitenzieria Apostolica, in Osservatore Romano, 19-20 febbraio 2007, p. 9, che, oltre a riferire il testo integrale dell’intervento pontificio, ne evidenzia i passi più significativi.
[2] Vedi il servizio di Riccardo Bocca su L’espresso, n. 4 del 1°febbraio 2007.
[3] Si veda in proposito la lettera a Settimana del 18 febbraio 2007, di don Onerio Manduca.
[4] Cf. Ignazio Schinella, Il peccato, realtà pluridimensionale, in RTM, 153, 2007, pp. 95-106.

giovedì 1 marzo 2007

Si può auspicare un clima e un dibattito più sereno?

Cara Settimana,
il disegno di legge sui diritti civili delle persone implicate in convivenze anomale, offre l’occasione per qualche riflessione che vorrei né acritica né polemica (di polemica ce n’è già troppa in giro!).
Così come sono fatto – ed è la fede con l’età e l’esperienza che “fa” le persone –, non vedo male per principio ciò che potrebbe contribuire a rendere un po’ più sicura e meno triste la vita (soprattutto la vecchiaia) delle persone, di qualunque persona, perché ogni persona è preziosa agli occhi di Dio. «La gloria di Dio è l’uomo vivente», dice la Parola e Gesù è morto e risorto per ogni donna, uomo, bambino, giovane che vive su questa terra.
D’altro lato, non mi nascondo i pericolosi riflessi psicologici di talune leggi sulle scelte di vita dei cittadini. Si pensi alla facile tentazione di abortire, dopo l’approvazione dell’aborto in Italia (1981) e a quella – ancor più facile e non raramente capricciosa – del divorzio dopo la sua legalizzazione (1974). Si sa che la legge crea un costume, “legalizza” appunto, e rende più accessibile una scelta su temi spesso terribilmente importanti come l’origine della vita e la stabilità della famiglia.
Ma non è questo il problema che ora mi preoccupa maggiormente. È piuttosto una serie di rischi non soltanto ipotetici, ma purtroppo già inquietanti realtà circa il clima che si sta vivendo in Italia. Ne sottolineo alcuni.
1. L’incomprensione dell’atteggiamento severo e degli interventi insistenti della chiesa su una materia che riguarda sì la delicata questione della natura della famiglia – così come esce dalla parola di Dio – ma coinvolge anche l’autonomia dei politici, specie di quei cattolici che – per le mediazioni cui sono costretti oggi in un clima di innegabile pluralismo – sono letteralmente vessati da rimproveri e da parole che non vorremmo mai leggere. Vedasi, ad esempio, come Il Giorno di venerdì 16 febbraio ha maltrattato il ministro per la famiglia Rosi Bindi, persona consacrata, ex presidente nazionale dell’Azione cattolica, donna di fede.
2. La strumentalizzazione politica della voce della chiesa che diventa quasi piedistallo per gli esponenti dello schieramento opposto, che si presentano come strenui difensori della fede, denigrando i cattolici dell’altra coalizione, la cui fede pure è indiscutibile.
3. Il rischio di dividere ulteriormente i cattolici collocati nei due schieramenti. Se ne vedono gli effetti in certi titoli giornalistici che danno la misura di una divisione sempre più profonda, mentre sarebbe auspicabile tornare – anche nella prassi politica dei cattolici – a quel detto famoso di papa Giovanni: «Ciò che ci unisce è immensamente più grande di quello che ci divide». Ma se i cristiani alzano la voce sempre e solo su ciò che divide, come potranno riconoscersi in ciò che invece dovrebbe unirli?
4. Da ultimo – non perché rischio minore – il pericolo (purtroppo non ipotetico, basta leggere certe dichiarazioni) di un anticlericalismo sempre più aspro, denigratorio e velenoso, che può mettere a repentaglio la pace sociale descrivendo la chiesa come nemica dell’uomo.
Concludo ribadendo il mio pensiero. L’intervento non è sul contenuto della legge – sul cui giudizio mi sento pienamente allineato a quello della chiesa – ma sul clima che si è acceso in questi ultimi giorni. Non mi ritrovo in questa asprezza dei toni, in un rincorrersi e ribattere con dichiarazioni a dichiarazioni, in questa specie di ping-pong che fa male e fa star male tanti cristiani. È peccato sognare una chiesa che contribuisca a calmare gli animi?

don Giancarlo Conte (PC)

Chiesa: non avere paura di comunicare!

Cara Settimana,
prendo spunto per le mie riflessioni dalla lettera firmata “Politica, questioni etiche e implicazioni pastorali” pubblicata sul vostro settimanale l’11.2.2007. Sono d’accordo e sottoscrivo, escluse poche particolarità. Ma aggiungo una nota che non riguarda solo un dettaglio secondario ma che, a mio parere, è sintomo di una situazione generale di importanza notevole.
Il fatto che si tratti di una “lettera firmata” mi sembra il sintomo di una malattia.

a) Il sintomo. A mio parere la cosa mette in evidenza il “nicodemismo” imperante nella situazione ecclesiale non solo italiana. Non importa sapere chi sia il firmatario non firmante, ma si ripete troppe volte che all’interno della chiesa, in alto e in basso, spesso si dissenta a voce bassa, in privato, mentre non si ha il coraggio di prendere la parola in pubblico, in consigli pastorali, presbiterali o episcopali, in convegni o in assemblee. Credo che ognuno debba assumersi la propria responsabilità all’interno della chiesa.

b) La malattia. La cosa mette in luce la condizione di non comunicazione nella chiesa. Nel 1991 su Il Regno si parlava di uno scisma strisciante fra il magistero e la base della chiesa (diversi anni dopo ne avrebbe parlato anche il prof. Prini). Più recentemente si è parlato del processo di “liofilizzazione della fede” invalso con il pontificato di Giovanni Paolo II. Di fatto l’autorità ha avocato a sé la soluzione di molte situazioni, chiudendosi alla comunione ecclesiale. Con – tra l’altro – il risultato che il muro di incenso degli “uomini del sì” (un episcopato preso in larga maggioranza tra vicari episcopali e rettori), senza il coraggio dell’“oltre” come intus-legentia di quanto sta avvenendo (ad es., il problema delle convivenze era rilevante già dieci anni fa), ha impedito una visione chiara e realistica e ha mortificato il senso di corresponsabilità. L’“episkopein” nel vangelo di Luca indica la “visita di Dio” prima ancora del ruolo di supervisione.
L’atteggiamento sopra ricordato ha portato a non valorizzare i laici e, se lo si è fatto, talora sono stati cooptati quelli più clericali dei preti. Da qui viene anche il senso di non rispetto degli uomini politici nella loro pesante e difficile responsabilità, che andrebbe aiutata e non appesantita ulteriormente, anche ripensando al valore della riflessione di Todorov sulla “tentazione del bene”, cioè sul fatto che, tendendo al massimo, si possono costruire mostri storici. In verità, la situazione cristiana non è utopica (ciò porterebbe a dire “bello, impossibile”), ma è escatologica, cioè crede nella pienezza della storia e perciò va avanti con la tenacia faticosa della “prolessi”, cioè della volontà di atti parziali e poveri, che però sono reali anticipazioni della pienezza finale.
Inoltre ora è possibile constatare i danni del “ricentraggio”, che ha diminuito la presa di responsabilità dei diversi ordini nella chiesa.
Infine, va detto che tutto questo sistema ha portato anche una censura parziale. Infatti, mentre si sono fatti ponti d’oro per il lefebvriani, sono state fatte tacere la teologia della liberazione e la teologia delle religioni. Si è avuta anche una autocensura che ha portato a uno svuotamento della presenza della teologia, che è uno dei modi nei quali scorre il sangue vivo della chiesa, per fare memoriale non solo con la fede che vive la liturgia, ma anche con la fede che vive in condizione di scienza.

Per puntualizzare la situazione attuale, vista dal mio punto di osservazione, vorrei aggiungere qualche altra nota:
1) Rimanendo vero quello che è scritto nella lettera apparsa su Settimana, è anche vero che occorre fare attenzione a quanti, pur non essendo praticanti, sentono il beneficio della presenza etica della chiesa (non risolviamo le cose con le battute facili tipo “teodem” o “atei devoti”; lasciamoli alla volgarità degli “spettacoli di chiacchiera”). Giungono, infatti, alla comunità voci di persone sofferenti e preoccupate, che nella loro laicità smagata guardano ai valori annunziati dalla chiesa spesso in solitudine.
2) Non si può dimenticare che oggi i problemi vengono anche da e in una cultura di tipo secolaristico, per cui rispondere con immediatezza può portare a dei cortocircuiti logici e teologico-pastorali. Di questo a volte forse non c’è coscienza adeguata, non solo negli integralisti, ma anche in coloro che vivono l’accoglienza. Occorre, infatti, tener di conto il confine tra accoglienza e complicità (è una grossa fatica, ma bisogna portare insieme il peso della debolezza e del peccato, perché il caso umano è serio e serio è il caso umano-divino ).
3) I comandamenti sono “dieci parole”, senza selezione. Noi abbiamo da portare il peso e la gloria, la luce e la fedeltà della Scrittura e della tradizione (= consegna dell’esperienza spirituale), nella loro verità. Diversamente si segue un metodo incongruente, come il non fare parola su una proposta di legge che prevedeva l’introduzione della tortura nelle inchieste giudiziarie (era cosa non attinente alla morale?); o come il non alzare la voce sulla legge del falso in bilancio e, al contrario, appoggiare la presenza italiana in Iraq (chi è più morale: un governo che porta a casa le truppe dall’Iraq o un vescovo che dice “noi resteremo”?).
E i poveri? Chi ha messo a tema lucido ed esplicito l’esistenza in Italia di due milioni di anziani con 400 euro al mese di pensione?
Con la volontà di camminare insieme.

Paolo Giannoni,
eremo di Mosciano (FI)