giovedì 22 marzo 2007

LA CHIESA DI OGGI NON È DA "ROTTAMARE"....

Cara Settimana,
sono un “giovane prete” di quelli di cui parla don Averardo Dini in una recente sua lettera alla vostra rivista. Una duplice impressione dopo la lettura delle sue parole, un senso frammisto di gioia e di tristezza:
– la gioia di sentire che un sacerdote che ama definirsi “rottamato” possa ancora sognare e immaginare una chiesa diversa da quella che sperimenta ogni giorno. Il gap, la distanza fra il sogno e quella che lui descrive come la triste realtà, infatti, può essere il motore che porta ad un suo sviluppo, ad una crescita;
– la tristezza, perché le sue parole esprimono un profondo disagio interiore, l’esperienza della disgregazione di un mondo, il crollo e la fine di un’identità che – come un ciclone – portano don Averardo a smarrire persino la strada evangelica della carità rispetto ad una chiesa a cui egli stesso appartiene.
Anche a me piace sognare e immaginare la chiesa, ma il sogno di cui voglio parlare è un sogno che vedo realizzarsi ogni giorno e non certo sfaldarsi poco a poco.
La chiesa che io sogno i nostri vescovi la definirebbero “comunità missionaria ed evangelizzatrice”, “oratorio di famiglie”, “carità vissuta in un mondo che cambia”, (non mancano coloro che invitano a riscoprire come fondanti certe dimensioni)…: non è chiusa in se stessa ma capace di uscire, comprende gli strumenti moderni quale il computer e i telefonini cellulari ma non è compresa da essi, è santa e peccatrice, capace di parlare quando si vorrebbe tacesse e di tacere quando invece vorremmo che parlasse…
La chiesa dei miei sogni, la chiesa che vedo, fa anche “volantinaggio” prima e dopo la santa messa, avvisa cioè di una presenza, si fa incontro perché vuole guardare più in là rispetto alla punta delle sue scarpe, vuole guardare oltre la punta del suo campanile.
Questa chiesa la incontro nello sguardo di ogni malato visitato (e sono tanti, ma – fortunatamente – le tante mani sinistre non sanno cosa fanno le tante mani destre!) e in questo nostro mondo sono molti i malati (forse anche più dei “sani”): questa chiesa si trova su ogni volto lacerato, su ogni volto mascherato, oppure su ogni volto nascosto che cerca di essere rivelato. Questa chiesa è anche il malato di aids che mi è morto fra le braccia un giorno di qualche anno fa: eppure questa chiesa non fa rumore! Protagonista sembra essere sempre la sagra, la cena, la gita. Eppure dietro a quella tavola imbandita, dietro quel sentiero aperto a tutti, dietro a quella musica o a quell’atmosfera giocosa, ci sono sempre tanti volti e c’è sempre un Volto.
C’è anche la chiesa raccontata da tanti come padre Turoldo, don Milani, un amico come don Emilio Gandolfo, don Vacca Mauri, don Serafino Ceri, ma anche tanti laici che, nella loro semplicità e con le loro storie, ne hanno scritto le pagine! Questa chiesa la narrano anche i più moderni predicatori internauti che parlano la voce moderna del computer come la racconta pure il buon “don Ave” – così lo chiamano i suoi ex parrocchiani –; questa chiesa si trova in film come quelli di don Camillo e di Peppone, ma anche nei più moderni film di registi dell’Uzbekistan, perché è una chiesa che non vuole avere confini di spazio e di tempo; è la chiesa parlata dal vernacolo fiorentino ma è anche cantata dal sorriso amaro di un clown all’oratorio.
È la chiesa che si ispira al vangelo e al volto di Cristo: insieme a quello di Gesù, vede il volto tumefatto e insieme radioso di gente povera e ricca, e in mezzo a questi volti vive.
È la chiesa che vuole incontrare, oltre al 10% della gente che va alla messa – praticanti e forse anche fedeli –, pure il 90% che non frequenta la celebrazione domenicale. Questa chiesa è la chiesa delle gite attentamente preparate per fare del volto di un bambino un sacramento e di una passeggiata un rito capace di indurre il passaggio dalla solitudine alla solidarietà. Forse questa chiesa canterà anche nei concerti, anche con note stonate, ma comunque canta la gioia e il dolore di questa nostra creazione che geme e soffre nelle doglie del parto.
C’è una chiesa che parla molte lingue e fra queste anche il DOS e gli altri linguaggi dell’informatica, ma in queste lingue cerca di dare espressione alla Parola: cerca di comunicare non solo col prossimo vicino ma cerca di farsi prossima ai lontani.
Questa chiesa non può accontentarsi dell’immagine raccontata di una montagna nella storia di chi, quella montagna, l’ha scalata o ha immaginato di scalarla; il suo racconto dovrebbe essere veramente carico di una tensione e di una passione indicibili e incontenibili: la chiesa, quella montagna la deve e la vuole scalare essa stessa con le sue gambe, la deve amare col suo cuore, la deve contemplare con i suoi occhi. Questa chiesa – dice Leonardo Boff – da quella montagna si deve far contemplare, si deve lasciar provocare. Questa sarà la montagna in cui individuare sentieri, tracce di Dio e dell’uomo… e non sarà mai tempo perso tracciare il sentiero!
Questa chiesa, che io immagino, vive nel mondo ma non gli appartiene (l’hanno già detto tanti anni or sono): non corre dietro al denaro, perché deve fidarsi della Provvidenza, eppure deve fare i conti anche con il denaro che può essere mezzo da condividere e strumento di partecipazione alla cosa di tutti; anche il denaro le sarà compagno nella navigazione fra i marosi di questa vita: è evidente che i problemi economici, e specie il loro accumulo negli anni, non dovranno mai assorbirla, appesantirla e renderla incapace di viaggiare…
Questa chiesa ama “viaggiare”. Nella nostra comunità parrocchiale c’è una donna anziana che, anziché definirsi “rottamata”, si è chiamata “madrina dei morti”: mi accompagna in tutti i funerali che celebro (circa cento ogni anno) e soprattutto “accompagna” loro, gli amici che vogliamo salutare. Una specie di Caronte che vince ogni solitudine e racconta tutta la solidarietà. La chiesa è anche questo nel 2007, silenziosa e insieme eloquente sposa di Cristo.
Questa è anche la chiesa che, nella “beata confusione” di un’affollatissima festa, in mezzo a tante solitudini, trova il coraggio di piangere senza vergogna ora lacrime di gioia e ora lacrime di dolore: lo può fare in quanto non è una chiesa di facciate ma di volti e di Volto.
La chiesa compie il suo viaggio sospinta dai venti dello Spirito di Dio ed è spesso sbatacchiata non poco e sicuramente anche a ragione, dal “Dio delle bastonate” che, come un padre, corregge il figlio monello; una chiesa che passa attraverso tempeste e crisi verso il porto sospirato.
Questa chiesa riconosce a tutti il diritto di cittadinanza, dà a tutti un permesso di soggiorno, anche a chi in essa non vorrebbe riconoscersi: c’è chi smarrisce la strada che ad essa porta ma il suo portone d’ingresso resterà sempre spalancato se essa, sposa di Cristo, non vuole rinnegare il suo partner.
Una chiesa così io la vedo ogni giorno: il volto di Cristo almeno in qualche occasione, in qualche suo “forse” lo manifesta, e Dio Padre di questi “forse” si accontenta: sono germi che niente hanno della noia perché parlano di un movimento e di un cammino da compiere che si rinnova e che mai puzza di sorpassato. In questa chiesa trova spazio il volto sorridente e paffuto di un bambino come quello pieno di rughe di colui che si affaccia all’altra riva; trova significato il volto sudato come quello che piange lacrime di sangue: in ognuno di questi volti io vedo la pasqua e vedo Cristo, nostra pasqua.
Per questa chiesa io e tanti abbiamo scommesso la vita e io la amerò anche quando la vedrò lacerata (tanto la mia vita quanto la chiesa, come vorrei fossero un’unità inscindibile!): è la chiesa fatta di preti e di laici che mi hanno preceduto, tutors sulla via della vita, vivi o defunti, sempre e comunque sguardi luminosi e illuminanti che non hanno mai smesso di essere bagliori o riflessi del volto di Dio che fa brillare il sole sui giusti e sugli ingiusti.
Questi tutors e, insieme, compagni di viaggio, ad oggi mi hanno fornito gli scalini e consentito di salire non su di un podio per essere protagonista, campione o premiato nella storia degli uomini, quanto invece di arrampicarmi su una piccola collina dall’alto della quale si assapora la vetta della montagna, ora più vicina: dall’alto di quella rampa io posso allungare la mia mano da mendicante che chiede aiuto e che anela ad essere stretta ad un’altra mano, ben più grande, quella di Dio. Vorrei che questa fiducia nella mano di Dio, che quasi ci avvolge, fosse trasmessa a tutti coloro che vogliono sognare, immaginare, credere e sperare – nella certezza – che, in questa chiesa, non esiste e mai esisterà “rottamazione” perché essa non può smarrirsi nell’“usa e getta” del mondo.
Grazie ad Andrea, a Daniele, a padre Saverio Corradino, a Maria Giovanna, al piccolo Emilio Gandolfo, ai tanti nomi che hanno segnato il mio cammino, e grazie anche a “don Ave”.

don Vittorio Menestrina

1 commento:

athiey ha detto...

finalmente un prete si ricorda in modo giusto di qul piccolo grande uomp che fu don Emilio Gandolfo