giovedì 13 dicembre 2007

SULL'ENCICLICA "SPE SALVI" DI PAPA BENEDETTO XVI

Cara Settimana,
leggendo la seconda enciclica di Benedetto XVI pubblicata nei giorni scorsi, mi sembra che il papa si muova tra la certezza della dottrina e le sfide concrete della storia della civilizzazione.
In questo paradosso rimane difficile un pronostico sull’impatto sociopolitico (e anche ecclesiale) dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, la seconda del suo pontificato. A questo proposito mi sorge un interrogativo: si tratta solo di una dotta (e ripetitiva) dissertazione sulle sorti della speranza cristiana in un mondo contemporaneo che volta le spalle alla trascendenza, oppure di un tentativo di mettersi in rapporto con esso partendo dalla ricerca di risposte alle questioni più gravi sulla giustizia, la sofferenza, la vita dopo la morte?
Le reazioni dell’opinione pubblica, anche a livello internazionale, oscillano tra questi due poli e ciò conferma che non è agevole entrare nella mente e nel metodo del magistero di Benedetto XVI. Dove infatti le encicliche dei predecessori si agganciavano ad un fatto, ad una situazione, ad un problema e ad esso rapportavano Vangelo e dottrina delle chiesa, spesso confermando e talora innovando, papa Ratzinger si attiene ad un criterio univoco di rigore espositivo non necessariamente agganciato (almeno in apparenza) al vissuto contemporaneo.
Anche per questo è possibile leggere a Madrid (“El Pais”) che il papa «non propone una teocrazia nella forma ma nella sostanza» e che i suoi concetti recuperano “l’integrismo preconciliare”, mentre a Parigi (“Le Monde”) ammonisce sul rischio di interpretare quel testo come «l’ennesimo attacco di un papa al progresso, la scienza, l’ateismo», ignorando la logica propositiva che esso contiene e che ruota attorno ad un enunciato fondamentale redatto con una formula davvero essenziale: «L'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza». L’uomo come individuo e la società degli uomini nel suo insieme.

Quali segni dei tempi? È un «argumento… del arsenal del integrismo decimononico», come sentenzia “El Pais”, o c’è un’altra prospettiva? Di certo la Spe salvi, che non contiene richiami espliciti al concilio, si distanzia, nel suo procedimento logico, dalla costituzione pastorale Gaudium et spes che identificava il sentire degli uomini d’oggi – “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” – con quelle dei discepoli di Cristo, sicché «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». In quel contesto alla chiesa veniva chiesto di sforzarsi di «conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole, spesso drammatiche».
Era il criterio induttivo insito nella lettura dei “segni dei tempi”, rispetto al quale, dal concilio in poi, si è sviluppata una densa critica nel timore che la sociologia potesse prendere il sopravvento sulla dottrina e si giungesse a giustificare tutte le tendenze di ogni momento storico, con gli inevitabili esiti del relativismo etico.
Un rischio al quale si può far fronte – come ben si trova nel Catechismo della chiesa cattolica – se il tema è declinato sul modulo evangelico delle beatitudini, che «elevano la nostra speranza verso il cielo come verso la nuova terra promessa» e «ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù». Parametri assai poco morbidi posti a misura della coerenza dei credenti.
In realtà, con questa enciclica sulla speranza Benedetto XVI mostra di voler sviluppare il ragionamento teologico-sistematico iniziato con la Deus caritas est. È infatti la fede in un Dio che è carità a conferire significato, consistenza e verità ad ogni autentica speranza umana. Mantenendosi a questo livello, che oltrepassa l’analisi storico-politica, il testo ricapitola, spesso in modo affascinante e con dovizia di riferimenti biblici, patristici e filosofici – oltre che con evocazioni esemplari – la dottrina della speranza cristiana.

Da Bacone in poi… L’uomo è descritto come un grande coltivatore di attese, da quelle minori a quelle maggiori; ma resta sempre inappagato perché «ha bisogno di una speranza che vada oltre» e perché «può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere». In tale diuturna ricerca è intervenuta una rottura da quando l’umanità ha potuto progressivamente dotarsi di risorse e di strumenti sempre più efficaci di dominio sulla natura.
Seguendo il messaggio del filosofo Bacone, ciò li ha indotti a rimpiazzare lo scenario biblico del “regno di Dio” con quello di un “regno dell’uomo”, imperniato attorno ad un progresso a sua volta centrato su una visione autosufficiente di “ragione e libertà”.
Illuminismo e marxismo sono indicati dal papa come le “icone esemplificative” (ma certo non esclusive) di questa deriva illusoriamente umanistica: il primo con la pretesa kantiana di soppiantare la “fede ecclesiastica” con una “fede religiosa” derivata dalla sola ragione; l’altro con l’errore di ritenere che il cambiamento sociale delle strutture avrebbe, da solo, eliminato le cause dell’ingiustizia e, in qualche modo, pacificato le relazioni civili.
La critica investe l’intero tempo moderno che ha creduto alla fattibilità di un mondo perfetto grazie alle conoscenze della scienza e ad una “politica scientificamente fondata”.
Anche una certa visione individualistica della ricerca della felicità viene imputata, in modo autocritico, ad una concezione cristiana, lungamente e largamente alimentata, che ha badato più alla salvezza dei singoli che alla necessità di occuparsi del “noi” comunitario, come pure prescrive il comandamento della carità. Un accenno quest’ultimo che vorrebbe essere esplicitato anche nel confronto di alcune tendenze dottrinali esistenti in ambito cattolico che fanno concessioni sempre più ampie alla funzione… “salvifica” del mercato e dei suoi meccanismi automatici, come a suggello del trionfo definitivo del capitalismo sulle ideologie che lo hanno ostacolato nel secolo scorso.
Sarà forse uno dei temi della annunciata enciclica sociale di papa Benedetto XVI?

Quel Dio dal volto umano. Le argomentazioni della Spe salvi portano a concludere che le speranze che ogni giorno ci mantengono in cammino non bastano se viene meno la «grande speranza che deve superare tutto il resto» e che «può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere», a confutazione di un’accusa tradizionale, che non si tratta di un qualsiasi dio, ma di «quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme», il cui regno non è un immaginario aldilà di salvezza ma «è presente là dove egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge».
Attorno a questo nucleo essenziale ruota una galassia di spunti, di riferimenti e di esemplificazioni che compongono una vera rapsodia della speranza cristiana, che rifiuta con decisione l’argomento usato per rifiutarla: l’esistenza della morte, della sofferenza, della malattia e della violenza sopraffattrice.
L’ateismo non è che un “moralismo”: come protesta contro «un mondo nel quale esiste una tale quantità di ingiustizie, di sofferenze… e di cinismo del potere» e che per questo non può essere «l’opera di un Dio buono». Viceversa, se si coniuga la speranza con l’opera di un Dio che ama l’uomo, lo stesso “giudizio finale” perde la sua immagine “terrificante” e si presenta come l’“immagine decisiva della speranza”.

Se il mondo aiuta la chiesa. Letta l’enciclica, e scontate le polemiche, vale ora la pena di indugiare su un aspetto che si presenta ormai come una costante consolidata del magistero di papa Ratzinger.
Nel suo magistero, egli è portato a confrontare il cristianesimo con le “essenze” delle “entità altre”: religioni, dottrine e ideologie. C’è da chiedersi se in tale tendenza di comparazione necessariamente astratta non sia insita l’incognita di appiattire il messaggio evangelico sulla categoria degli “ismi” dell’arena intellettuale, con esiti inevitabili di inconciliabilità se non di scontro. Viceversa, l’esperienza storica permette di constatare come, incarnandosi nelle vicende umane, anche le teorie più rigide e ed esclusive siano state costrette a modularsi sul denominatore della tolleranza, della convivenza e del reciproco riconoscimento.
Si tratta di un fenomeno che ha portato ciascuno ad apprendere qualcosa dall’altro e a donargli qualcosa, in un meccanismo di reciprocità che, in ultima analisi, è la cifra più affidabile del processo di civilizzazione. È da qui che può venire quell’aiuto alla chiesa da parte del mondo contemporaneo di cui parlava il concilio Vaticano II.
Una più puntuale cognizione del valore dei movimenti storici consentirebbe tra l’altro di verificare – come suggerisce Edgar Morin – che «il messaggio di fraternità delle religioni si è trovato laicizzato e indossato dalla rivoluzione francese, poi amplificato e universalizzato dal socialismo e che la fraternità e la compassione sono state di continuo smentite dalle azioni commesse in nome di queste religioni e in nome del socialismo, ma esse rimangono lo strato sottostante dal quale possiamo scegliere le nostre finalità».
Impastandosi nelle vicende della storia, dottrine e religioni non restano mai allo stato puro ma si influenzano reciprocamente, si modificano e si evolvono nella prassi. Accompagnando al confronto delle dottrine una più attenta percezione della storia dell’umanità – come del resto invitava a fare il concilio – si ottiene una decantazione critica che identifica un patrimonio e un tessuto comune di umanità, a partire dal quale cooperare all’offerta di “ragioni di vita e di speranza”. Non i cristiani da soli per gli altri, ma “con” tutti e “per” tutti.

Domenico Rosati

UN PAESE "SENZA SOCIETÀ" E UNA CHIESA "SENZA COMUNITÀ"?

Cara Settimana,
stiamo diventando un paese “senza società” e una chiesa “senza comunità”. Questa è la verità. Il modello di parrocchia che tende ad imporsi è ancora quello della “stazione di servizi”. La minoranza dei praticanti tende a vivere una dinamica devozionale e morale, solo nell’osservanza del “dovere cristiano” della messa domenicale. Ma la chiesa non dovrebbe avere nel suo “dna” il tema generatore “comunitario”? Siamo invitati a prendere coscienza ancora di più di essere “popolo di Dio”, per essere segno della comunità degli “ultimi tempi”. La religione è, per se stessa, un fatto comunitario, un evento che crea relazioni, genera legami e origina vincoli.
La stessa parola “chiesa” ha perso ogni contatto con la verità che il termine significava: nel gergo comune oggi indica “un dove”, un “luogo” o un “edificio”, uno “spazio geometrico”. Ma di per sé significa precisamente “gente strappata alla solitudine e messa insieme da Dio”.
La formula “città senza società” è la chiave dell’analisi e della diagnosi che mi è capitato di fare della situazione socio-culturale e socio-pastorale della diocesi brasiliana di San Paolo nel 2006. Se non si reagisce a questo problema, la chiesa può diventare una realtà decorativa.
Per sé lo Spirito Santo ha già fatto la sua mossa decisiva 40 anni fa con il Vaticano II (1962-1965) e ha messo al centro della teologia, della spiritualità e della pastorale non più la concezione e l’ispirazione di un Dio onnipotente ed eterno quasi solo e solitario che si rifletteva nel ruolo egemone del clero, ma la Trinità! Da questo cambiamento si può affermare che tutto resta uguale e, allo stesso tempo, tutto cambia; anzi, tutto resta uguale solo se tutto cambia! Continuità e novità e non conservazione o rottura vuol dire partecipare alla “Tradizione vivente” della chiesa.
Quindi, alla fonte e all’origine di tutto c’è il “noi divino”. In questo modo siamo chiamati a diventare il “noi ecclesiale”, dove tutti hanno un nome, un posto, un ruolo e una voce. Tutti soggetti e tutti autori, nello Spirito di Gesù, della vita e della missione della comunità cristiana. Questo rivoluziona l’immagine e la figura di tutti: quella dei laici, dei religiosi e dei preti. Certo quarant’anni di postconcilio – pur essendo un tempo biblico e simbolico completo e unitario – sono ben poca cosa per mettere mano alla creazione di una nuova immagine comunitaria di chiesa. È in questione il passaggio dal modello di “chiesa-società” a quello di “chiesa-comunità”. Ma è pur sempre qui che occorre tornare ed è da qui che occorre ripartire.
La perdita delle piazze, la crisi di società e dei valori… Tutto giusto, ma a nulla serve un’operazione nostalgica. Qualcuno dice: “Come si stava bene una volta...”. Chi si piange addosso, non risolve i problemi, ma li aumenta e, soprattutto, li aggrava. Con la retorica degli “amarcord” non si crea società, ma solo deformazioni e omissioni. La vecchia socialità dell’epoca rurale, con le sue luci e le sue ombre, è finita. Oggi sta nascendo a fatica, e nella disattenzione dei più, la “socialità globale”. I terzomondiali, che sono gli unici a fare ancora un uso simbolico delle piazza, come facevamo noi fino a 20-30 anni fa, indicano un germe di nuova socialità che sia allo stesso tempo globale e locale e di una nuova cittadinanza dei diritti umani universali.
Non si può tornare indietro dove ormai non c’è più niente. Occorre osare di più e andare avanti. Le promesse e le potenzialità vanno però tradotte in progetti, in laboratori, in sperimentazioni e in gemellaggi attivi. Non è bene abbandonare il paese alla deriva, lasciando che crescano – in modo selvaggio – solo due componenti: lavoro-impresa e affetti-famiglia. È la tirannia “economicistica”: essa aggredisce e snatura anche il privato e il personale della coppia e della famiglia. Non possiamo diventare noi stessi se rinunciamo a diventare in modo nuovo paese, comunità, società e città.
La funzione della chiesa è quella di caricarsi sulle spalle questa eclissi di socialità globale e di cittadinanza attiva, di relazioni e di interazioni multiculturali, per favorire nuovi processi generativi. Ecco la risorsa multietnica dei residui praticanti della nostra piazza! Se nel passato la chiesa ha svolto una funzione di “supplenza solida” come “chiesa-società”, con l’egemonia del potere ecclesiastico, oggi essa è chiamata a svolgere una funzione di “supplenza leggera” come chiesa-comunità, con l’egemonia della spiritualità, una spiritualità di comunione, che offre spazio all’informazione, all’ascolto, al dialogo e alla comunicazione. Una spiritualità che fa della chiesa la “casa” e la “scuola” di relazioni gratuite e creative, nell’uguaglianza e nella reciprocità. Una spiritualità realistica che fa delle dinamiche di riconciliazione e di offerta di perdono la sua palestra abituale: altrimenti tutto muore prima di iniziare.
Ad esempio, in un’ora di incontro ci possono capitare alcuni equivoci. Essi possono paralizzare l’incontro se non chiuderlo per sempre, come anche rilanciare la possibilità a parlarsi e ad ascoltarsi. A nessuno tutto questo è connaturale: va conquistato umilmente, con lunghi e generosi apprendimenti. Ci dobbiamo accogliere e abbracciare con il “bacio della pace” non sette volte, ma settanta volte sette! Abbiamo bisogno di una spiritualità organica che ci educhi gradualmente a pensare, a decidere, ad agire e a valutare insieme la vita e l’azione pastorale. Con metodi e pedagogie adeguate ai laici, che cominciano sempre più spesso a prendere parola come soggetti di chiesa. E adatte anche – perché no? – a noi preti che non siamo i soli e gli unici ad avere la parola decisiva. Si tratta di tener conto della diversità dei ruoli e dell’inevitabile distanza tra le competenze del prete e quelle dei laici.
Si sta profilando uno scenario nuovo che risulta molto più esaltante di quello tramontato del cristianesimo costantiniano e tridentino. Con i riferimenti e le luci che lo Spirito ha offerto grazie al Vaticano II, possiamo dedicarci con rinnovato entusiasmo a portare avanti il rinnovamento della chiesa, sposando il tema generatore della comunione. Potremo così diventare più esperti in comunione, mettendo a frutto il “genio trinitario” del cristianesimo delle origini e delle fonti, dal momento che «le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della chiesa, affinché tutti gli uomini e donne, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (LG 1).

don Gino Moro
Fondazione Mondo Migliore Onlus

PER VIVERE LO SPIRITO DEL VATICANO II

Direttore carissimo,
innanzitutto un grazie di cuore perché Settimana mi ha sempre fatto buona compagnia per tutto il tempo del mio sacerdozio, soprattutto da quando, partecipando ad un corso di esercizi spirituali predicati dal card. Pellegrino presso il santuario di Sant'Ignazio a Pessinetto (TO), l'eminente predicatore ci ha detto: «L'abbonarsi a Settimana del clero per un prete, vuol dire rimanere sufficientemente aggiornato».
Permettimi, ora, di dir la mia sul motu proprio di Benedetto XVI. Sono un prete oramai vicino al traguardo finale, ho avuto la fortuna di vivere tutta la straordinaria evoluzione nella chiesa “dal prima al dopo” e il veramente provvidenziale concilio. Penso ora, alla mia età, a quanto sarà costato ai preti anziani dover osservare tutte le minuziose rubriche della liturgia pre-conciliare, soprattutto con quelle frequenti genuflessioni doppie e semplici... Meno male che il buon papa Giovanni XXIII si è lasciato guidare dallo Spirito Santo e ha avuto il coraggio di aprire un concilio per un necessario aggiornamento nella vita della chiesa.
Purtroppo noi preti, presi dalla fretta di introdurre le modifiche, non ne abbiamo spiegato a sufficienza il significato, limitandoci a dire: «Prima si faceva così, ora invece si fa in questo modo!». L'auspicio, quindi, dei padri conciliari non è stato raggiunto, per cui noi abbiamo avuto dei cristiani che hanno visto in queste modifiche più un tentativo di "abbassare" troppo il Signore, mancandogli di rispetto, che di rendere noi più partecipi e consapevoli.
Che dire ora del motu proprio? L'emerito vescovo di Ivrea, scrivendo su Settimana a proposito del funerale di Welby e di Pavarotti, ha avanzato un tipo di valutazione che mi sembrerebbe applicabile anche al motu proprio. Egli dice: Giovanni XXIII ha voluto il concilio non come "dogmatico", bensì "pastorale". Ebbene, il tipo di chiesa che ha escluso Welby dal funerale religioso... risponde all'atteggiamento "dogmatico"..., mentre la chiesa che ha concesso il funerale religioso a Pavarotti ha scelto la dimensione "pastorale". Non so se questo sdoppiamento sia possibile.
Papa Benedetto XVI è pienamente consapevole di avere una missione di salvare tutte le anime "ricapitolandole" in Cristo, quindi ha riunito le due dimensioni, ambedue valide – almeno così spero – per salvare, creando comunione tra i nostalgici del latino (della messa pre-conciliare) e quelli che preferiscono la lingua parlata.
Personalmente sono convinto che se noi preti ci sforziamo di attuare il concilio, non dando nulla per scontato, molti cristiani, soprattutto giovani, si convinceranno sempre più del suo innegabile valore in ordine a farci vivere, nel quotidiano, la nostra fede e il nostro battesimo.
Direttore, le ho scritto, soprattutto, perché spero che gli operatori pastorali laici che leggono la nostra Settimana possano essere aiutati a pensare che sempre, quindi anche questa volta, il papa parla e insegna per "mantenere" la comunione tra i fedeli, non per creare divisioni.
Con l'augurio di ogni bene.

don Marco, Segugnago (LO)

lunedì 3 dicembre 2007

UN PARROCO, UN VISITATORE E OTTO COMUNITÀ NEOCATECUMENALI

Cara Settimana,
chiedo gentilmente, se possibile, un parere d'un vostro esperto a riguardo della lettera sottoesposta e dei relativi problemi in particolare. L'autore della lettera è il visitatore straordinario che visita, a nome del superiore generale, la comunità religiosa pastoralmente responsabile della parrocchia. La lettera (sono state tolte le indicazioni di nomi, luoghi, diocesi, ordine-congregazione) è indirizzata al parroco della parrocchia interessata, ai responsabili delle comunità del Cammino neocatecumenale esistenti in parrocchia, e – per conoscenza – all'ordinario diocesano e al superiore provinciale della congregazione-ordine interessati.

«Carissimi fratelli e sorelle,
vi porgo un cordiale saluto nella pace di Cristo risorto... Dal... al... ho fatto la visita canonica straordinaria, a nome del superiore generale... Durante la visita, ho dedicato tempo all'ascolto delle persone e alla visione delle situazioni. Ho parlato con la comunità religiosa, con i responsabili delle comunità del Cammino, con i rappresentanti dei gruppi parrocchiali. Ho incontrato s.e. mons. vescovo, il vicario episcopale per la pastorale della città, il superiore provinciale. Ho letto la documentazione che si trova nell'archivio della comunità religiosa riguardante le visite canoniche...; tra l'altro, ho notato come alcune delle indicazioni offerte a riguardo del "Cammino" siano state disattese. Ho meditato sugli ultimi pronunciamenti del magistero del papa e dei vescovi.
A fine della visita, così scrivevo: "Nella comunità parrocchiale ci sono otto comunità del Cammino neocatecumenale. In questo momento c'è tensione soprattutto tra la comunità religiosa e tali comunità". Inoltre aggiungevo: "La comunità religiosa continui con la sua proposta, relativa al nostro carisma, di animazione della parrocchia, secondo i nostri documenti ufficiali; le linee di pastorale per la parrocchia vengono date dalla comunità religiosa e dal consiglio pastorale". Infine, parlavo di una "lettera di orientamento", che avrei fatto giungere, dopo ulteriori approfondimenti, alla comunità religiosa e ai responsabili delle comunità neocatecumenali.
Dopo discernimento e preghiera, sono giunto a queste conclusioni, che vi indico in vista di un cammino di comunione.
"Al di sopra di tutto vi sia la carità". Ciò che si deve salvaguardare è la carità, ciò che si deve edificare è la comunità, ciò che si deve vivere è la comunione.
Nella situazione dell'attuale tensione e in vista dell'edificazione della comunità parrocchiale, vi indico i seguenti passi da realizzare progressivamente. Essi vi offrono concreti cammini di comunione.
1. Per favorire la crescita armonica della comunità parrocchiale e del nostro carisma, constato che la presenza di otto "comunità del Cammino" sia troppo numerosa. Invito perciò i responsabili delle comunità del Cammino neocatecumenale a trovare soluzioni alternative, come la fusione di alcune comunità o il loro trasferimento in altre sedi, in modo che nella parrocchia non vi siano più di tre comunità. Inoltre, invito i responsabili a non iniziare altre catechesi; se sorgerà l'esigenza di altre catechesi, queste non siano svolte nella parrocchia.
2. Per realizzare la comunione visibile e per evitare sovrapposizione di orario, le celebrazioni eucaristiche del sabato sera per le "comunità del Cammino" presenti in parrocchia, il sabato sera negli ambienti parrocchiali non ci saranno più di tre celebrazioni eucaristiche. In particolare poi nel momento culminante dell'anno liturgico, a partire dall'anno 2008 nella chiesa parrocchiale o negli ambienti dell'Oratorio[1] non sia tenuta la celebrazione della veglia pasquale.
3. Per concretizzare l'indicazione della lettera della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti del 1° dicembre 2005, indirizzata ai responsabili del Cammino, in cui si chiede che "almeno una domenica al mese le comunità del Cammino neocatecumenale devono partecipare alla santa messa della comunità parrocchiale", chiedo che una volta al mese, al sabato sera, in tutte le sale dell'Oratorio non vi sia nessuna celebrazione eucaristica.
4. Per potenziare la comunità pastorale e l'espressione del nostro carisma nella parrocchia, che è stata affidata dal vescovo alla congregazione, si trovino orientamenti convergenti all'interno del consiglio pastorale e si sviluppi una proposta esplicitamente nostra di animazione della parrocchia, secondo i nostri documenti ufficiali.
Sono consapevole che la via proposta è ardua; i passi non sono facili da realizzare. "È la carità di Cristo che mi spinge". L'edificazione della comunità parrocchiale chiede scelte coraggiose. Il Cammino neocatecumenale sta facendo un grande bene nella chiesa, creando però alcune tensioni, soprattutto nell'inserimento pastorale parrocchiale (Benedetto XVI, incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 22 febbraio 2007). In questi anni scorsi, non si è riflettuto sufficientemente da parte della nostra comunità e della comunità parrocchiale su che cosa significhi che una parrocchia sia animata da un carisma di vita consacrata.
Lo Spirito Santo, che è Spirito di verità e di amore, vi suggerirà come realizzare questi orientamenti. Lascio al superiore provinciale, in dialogo con il vescovo, di vederne i tempi di concretizzazione fin dall'inizio del nuovo anno pastorale. La Vergine Maria...
Con sincera stima e affetto fraterno».

Domando gentilmente (e ringrazio delle risposte eventuali):
1. Può il superiore generale d'un ordine-congregazione giungere a queste conclusioni, senza previo e pieno accordo col vescovo diocesano? Senza coinvolgere direttamente i fedeli laici della parrocchia (con i componenti delle comunità del Cammino)?
2. Il Cammino è stato chiamato in parrocchia 30 anni fa (e seguito in questi anni) dai parroci (e sacerdoti della comunità religiosa) della stessa congregazione-ordine che si sono succeduti. Hanno sbagliato tutto?

lettera firmata

La risposta alla seconda domanda è semplice: il Cammino è «un itinerario di formazione cattolica, valida per la società e per i tempi odierni» (St 1). Dunque, non si sono persi trent’anni.
Invece, la risposta alla prima domanda è più difficile, poiché manca la conoscenza del contenzioso e siamo di fronte a casi-limite per i quali non si possono che ribadire le leggi, la cui osservanza è la misura dell’agire e avvia alla soluzione dei conflitti.
Il caso è comunque complesso poiché richiede di armonizzare più soggetti:
1) il vescovo e la sua autorità pastorale, cui i religiosi sono sottoposti in ciò che riguarda «la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le altre opere di apostolato» (can. 678,1 e 681,1);
2) il Cammino, con uno Statuto approvato dalla Santa Sede;
3) l’ordinario religioso (il visitatore) che, a differenza del vescovo, è “ordinario” solo per i confratelli (can. 134,1), i quali nell’apostolato «sono soggetti anche ai propri superiori e devono mantenersi fedeli alla disciplina dell’istituto» (can. 678,2);
4) la comunità religiosa che collabora all’apostolato parrocchiale (can. 519) ma che, come persona giuridica, non è parroco (can. 520,1);
5) il parroco, che esercita l’azione pastorale «sotto l’autorità del vescovo diocesano» (can. 519) e che è ben distinto dalla comunità religiosa, prospettiva mal digerita da molti religiosi che continuano a sognare la parrocchia “affidata alla comunità”, ma così non è.
Tenendo conto di quanto sopra, alla domanda: «Poteva il visitatore scrivere quello che ha scritto?», la risposta è: «Sì, lo poteva». E per tre ragioni, poiché il visitatore:
a) rispetta lo Statuto del Cammino quanto all’eucaristia in comunità e alle non determinazioni circa la veglia pasquale (St 13,3; 12,3 e Lettera del 1.12.2005, n. 1);
b) rispetta i suoi limiti di essere “non ordinario” verso i fedeli del Cammino, ai quali, dopo aver parlato con il vescovo, si rivolge non dando ordini, ma usando i termini “invito / chiedo” (qui non siamo di fronte a una lettera d’amore e ogni parola va assunta in senso tecnico);
c) interviene come “ordinario” presso i religiosi spronandoli a far emergere il carisma proprio e, dopo aver parlato con il vescovo (è la reciproca intesa di cui al can. 678,3), delimita un loro apostolato che nella parrocchia non risulta essere necessario né in senso assoluto né in quanto richiesto dal vescovo.
Queste le leggi e le dinamiche, ma è chiaro che in se stesse sono vuote e il risolutivo è una valutazione del Cammino e dell’apostolato cristiano e parrocchiale.
Comunque, a mio fallibile parere, c’è anche qualche ombra. Mentre emerge la comunità dei religiosi, è troppo assente la funzione del parroco: invece, è a lui che è affidata la parrocchia ed è lui che deve prendere o eseguire delle decisioni – tra l’altro il Cammino «comincia nella parrocchia su invito del parroco» (St 9) –; è vero che si precisa che la lettera è indirizzata anche al parroco, ma nel testo non è molto presente.
Sarebbe anche stato auspicabile che le determinazioni del visitatore – valide per la comunità religiosa – fossero rivolte direttamente a quest’ultima (ad esempio, non accogliere più di tre comunità) con l’invito al Cammino a tenerne conto e contestualmente confermate dal vescovo, il vero “ordinario” del Cammino, con un deciso “ordino” o “dispongo”.
Infine, il visitatore dice di aver parlato con i responsabili del Cammino, mentre la domanda posta a Settimana lamenta un non coinvolgimento degli stessi: forse sono vere entrambe le asserzioni, nel senso che forse i contatti sono avvenuti prima della definizione delle misure in oggetto. Sarebbe stato auspicabile un incontro con a fronte il testo (bozza) delle misure messe a punto e prima dell’invio della lettera: è un metodo che in genere funziona e che già Sparafucile proponeva a Rigoletto per la consegna della somma in vista di uccidere il duca: «Una metà s’anticipa, il resto si dà poi».
Sia concesso concludere con una malizia del mestiere. Abbiamo scomodato due “ordinari”, uno Statuto, un parroco e una comunità religiosa. Se un altro “gruppo stabile” – come lo è il Cammino – avesse chiesto di celebrare la messa e gli altri sacramenti come al 1962, il parroco avrebbe potuto decidere tutto da solo e senza complicazioni. Siamo di fronte a una saggezza superiore, oppure si fanno figli e figliastri? (Riccardo Barile)


[1] In realtà la costruzione è sorta ed è usata come Centro parrocchiale (ndr).

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA: DOVE SONO I LAICI?

Cara Settimana,
vorrei ringraziare per lo sforzo della rivista nello stimolare, pur nella prospettiva che le è propria, la formazione di un tipo di cittadino cristiano sempre più adulto e pensante.
In particolare, alcuni recenti articoli mi hanno sollecitato a meglio individuare alcuni punti nevralgici su cui chiedo, se possibile, una vostra attenzione. Mi riferisco agli interventi apparsi sui numeri 38/07 (Rosati: Come essere cittadini cristiani e Pizzighini: lettera pastorale dell’arcivescovo di Lecce, Ruppi dal titolo Nel solco del concilio. Un laicato più adulto), 39/07 (Dalla Zuanna: Un bene comune da costruire) e 41/07 (Valentini: Pietro Scoppola cristiano a modo suo).
Sono scritti che, proprio perché nati da sensibilità e ambiti diversi tra loro, a me pare riflettano bene una stagione “liquida” e alquanto “depressa”: un tempo delicato di stallo evidente per un cattolicesimo italiano confuso e balbettante nel prendere la parola sui temi della cittadinanza e del sociale. Dico subito che il dato che accomuna questi “articoli-finestre” di pastorale sociale mi sembra frutto di un clima culturale irrigidito e poco propenso a dare spazio e slancio a laici cristiani capaci di far fronte alla post-modernità e di rischiare nella complessità sociale.

Il primo motivo mi sembra da ricercarsi nella debolezza intrinseca alla pur nobile e doverosa operazione di recupero del concilio Vaticano II. Tale debolezza mi sembra data dal fatto che proprio i preti e i laici, che dovrebbero guidare le comunità in questa operazione di ricognizione, non hanno loro per primi assimilato da protagonisti, se non a livello astratto o di rimbalzo, le grandi intuizioni conciliari e quindi possono mostrare solo opachi modelli di una sua attuazione. Negli Atti degli apostoli vediamo che la trasmissione degli eventi di Gesù di Nazaret diventano veri e propri annunci nello Spirito, offerti da testimoni impegnati a dare la vita nella sequela: in genere, non mi sembrano esistere questi presupposti nelle attuali riflessioni che spesso si esauriscono nell’esposizione di slogan quali “chiesa tra le case degli uomini”, “anima del mondo”, “santità laicale”, “corresponsabilità”, “vocazione secolare”, “unità di fede e vita”. I battezzati, per credere, necessitano di testimoni del Cristo totale e non di divulgatori di eventi ecclesiali. Si assiste così all’utilizzazione passiva di un metodo gratificante e consolatorio di ripetizione, che fa circolare un patrimonio di idee ma che si condanna da solo alla sterilità per mancanza di vera mediazione.

Un secondo motivo di blocco del laicato credente mi pare sia frutto dell’eccesso di supplenza magisteriale in tema di dottrina sociale. Dobbiamo essere grati ai pontefici per le spinte date alla politica alta dalle grandi encicliche sui temi cruciali della convivenza, come dobbiamo valutare positivamente gli sforzi della Conferenza episcopale italiana, in questi anni, per orientare e svegliare la coscienza del popolo cristiano. Ora, però, c’è bisogno attivare una stagione popolare di evangelizzazione e di crescita dei christifideles laici nella teologia morale, con lo scopo di creare un vivaio da cui emergano giovani adulti credibili e pronti a spendersi nell’agone politico. Il protagonismo dei cattolici mi sembra si sia infilato nella logica del gruppo di pressione e degli esperti capaci di argomentare razionalmente enunciati e valori non negoziabili: un livello che rischia di avallare un volto di chiesa istituzionale invadente, perché noi laici viviamo di rendita col metodo della traduzione dei principi. I fedeli più zelanti cercano così un consenso ecclesiastico preventivo e la dottrina sociale finisce per diventare una specie di fondo perduto dal quale cercare soluzioni: una prassi che sta generando una pigrizia intellettuale proprio dei laici ai quali spetta la ricerca di soluzioni creative sulle contingenze della politica.

Un ultimo motivo di preoccupazione è, a mio avviso, l’evidente immaturità culturale delle nostre attuali comunità cristiane. In questi anni c’è stata senz’altro un’evoluzione delle offerte formative, ma per lo più con logiche auto-referenziali e di corto respiro. Non ha certo aiutato l’evoluzione culturale dei credenti, soprattutto i più giovani, quell’improvvido attestarsi, anche di gruppi e movimenti, su un vero e proprio “bipolarismo” dei valori (il partito dei cattolici per la vita contro il partito dei cattolici per la pace), che finalmente si è iniziato a mettere in discussione durante la recente Settimana Sociale di Pisa.
Diversi operatori pastorali ormai intuiscono la necessità di un salto di qualità per attivare percorsi comunitari più concreti e coraggiosi (e quindi, per necessità, più conflittuali), nella direzione della formazione della coscienza socio-politica dei praticanti e al fine di rendere tutti (a iniziare dai preti!) più capaci di analisi e di discernimento.
Una cultura che si riduce all’esposizione della dottrina difficilmente imbocca la strada del metodo dell’attualizzazione, il più difficile e impegnativo. Oltre che, giustamente, impegnato a non farsi togliere il diritto di parola e a trovare spazi dove poter esprimere forte e democratica contestazione, il cittadino cristiano del futuro deve essere meglio attrezzato nelle proprie capacità di distinzione, mediazione e comprensione delle posizioni e quindi delle ipotesi praticabili in campo sociale e politico, a tutti i livelli.
Come dice il noto studioso Giorgio Campanini, il magistero sociale della chiesa «non ha bisogno di ripetitori e diffida istintivamente dei traduttori; ha bisogno di cristiani creativi che sappiano “obbedire in piedi” e assumere fino in fondo il rischio della decisione. La nuova stagione della dottrina sociale della chiesa non sarà né quella dei professori né quella dei “manovali del sociale”, ma quella dei grandi mediatori fra parola di Dio e storia dell’uomo» (La dottrina sociale della chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, EDB 2007, pag. 16).

Proprio sul versante di parola di Dio e lettura profetica della storia mi appare urgente suscitare nuovi luoghi in cui i semplici laici credenti si formino una competenza specifica e sappiano dire qualcosa di sensato: forse così si può uscire dal tunnel di un’esegesi biblica, e quindi di una lettura comunitaria della Bibbia, asettica e spiritualista. Mi sembra, ormai, che le persone affollino soprattutto quegli incontri in cui testimoni sanno illuminare le domande della vita con le sacre Scritture.
Mi pare, allora, un segno di debolezza che, proprio sui nodi più delicati della convivenza (inizio e fine della vita, welfare, guerra e pace, famiglia, educazione, accoglienza dello straniero, lotta alle povertà), il vangelo finisca nei nostri ambienti per essere affidato a specialisti e usato come pezza d’appoggio del dibattito sui principi-valori, mentre dovrebbe essere il grembo in cui far continuamente rinascere e crescere il sogno di Dio per un mondo più giusto e fraterno.
Il concilio Vaticano II è stata una pentecoste moderna, perché la centralità della Parola e di Gesù luce dei popoli (Dei Verbum e Lumen gentium), ha fatto rifiorire un’attenzione all’umanesimo integrale e al personalismo comunitario (Gaudium et spes).
Confesso che mi spaventa un pensiero sociale cristiano, dal linguaggio cattedratico, che finisce per attestarsi sulla difesa di interessi borghesi e neo-corporativi, remando suo malgrado nella direzione di quella antipolitica che sta corrodendo la democrazia e sta spegnendo la speranza delle generazioni più giovani. Abbiamo ricevuto per grazia i segnali indicatori che ci consentono di dirigerci verso il Regno: a noi sta il dovere di offrirli a tutte le persone di buona volontà per costruire insieme le tappe del cammino.

lettera firmata (BO)

LE DIFFICILI STRADE DELL'INTEGRAZIONE

Caro direttore,
mi permetto di scrivere queste riflessioni dopo alcuni avvenimenti che, ampiamente supportati dai mass media, hanno creato all’arme in molte persone.
È chiaro che ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio, è sempre un episodio sconvolgente, che fa inorridire la coscienza di ciascuno ma, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro esecrabile da sbattere in prima pagina.
I recenti fatti di Roma sono lì a dimostrare come ogni qualvolta succede un gesto efferato come la violenza e l’uccisione di una giovane donna indifesa, perpetrato da un cittadino rom, scateni una reazione violenta che si ripercuote su altri cittadini innocenti, colpevoli solo, in quanto rumeni, di provenire dalla stessa nazione dell’assassino.
Gli zingari, siano essi rom, sinti ecc., da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri, rapitori di bambini, per non dire di peggio Ma quello che sconcerta ancora di più, è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto a danno dei più deboli o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando sempre più un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società.
Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando; Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti: con teutonica obbedienza e determinazione le SS si diedero da fare per rastrellarli da tutta Europa e infilarli nelle camere a gas. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, e lascia l’amaro in bocca a chi oggi, visitando i vari campi di stermino, scopre che ci sono lapidi e cippi che ricordano tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge, ma lasciare che un corpo estraneo viva perennemente senza un minimo di contatto vitale con altre persone è ancora più deleterio. In una società multietnica e multiculturale come quella che si va delineando in Europa, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma dev’essere un punto centrale delle istituzioni costruire ponti che favoriscano la conoscenza e il dialogo reciproco.
La comunità cristiana, sotto questo profilo (proprio perché il mondo celtico-pagano circostante invoca “soluzioni forti” nei confronti dei rom), ha il dovere di percorrere tutte le strade che instaurino rapporti non solo di tolleranza, ma di rispetto e, perché no?, d’amicizia.
Diverso il discorso relativo rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione Europea, pone i rumeni nella privilegiata condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati.
Il fatto che il presidente rumeno si sia affrettato a venire in Italia dopo i fatti di Roma a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga su come la posta in gioco dal punto di vista economico sia altissima. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre ventimila le imprese italiane operanti in Romania. Ci sono, quindi, tutte le premesse per tentare di smorzare sul nascere una pericolosa escalation razzista che sarebbe causa di crescenti disagi per tutti.
Il cammino dell’integrazione è un cammino difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceaucescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi inique che l’opprimevano, e questo ha portato ad una “forma mentis” collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque ma per comprendere che, alla base di tutto, c’è il bisogno immenso di costruire non solo una cortese tolleranza da parte nostra, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati, in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo. È il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, né tantomeno sul rifiuto dell’altro. Ricordarcene in questi tempi può contribuire a costruire una società più consona al rispetto dei diritti dell’uomo, chiunque esso sia.

Mario Bandera (NO)