Cara Settimana,
leggendo la seconda enciclica di Benedetto XVI pubblicata nei giorni scorsi, mi sembra che il papa si muova tra la certezza della dottrina e le sfide concrete della storia della civilizzazione.
In questo paradosso rimane difficile un pronostico sull’impatto sociopolitico (e anche ecclesiale) dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, la seconda del suo pontificato. A questo proposito mi sorge un interrogativo: si tratta solo di una dotta (e ripetitiva) dissertazione sulle sorti della speranza cristiana in un mondo contemporaneo che volta le spalle alla trascendenza, oppure di un tentativo di mettersi in rapporto con esso partendo dalla ricerca di risposte alle questioni più gravi sulla giustizia, la sofferenza, la vita dopo la morte?
Le reazioni dell’opinione pubblica, anche a livello internazionale, oscillano tra questi due poli e ciò conferma che non è agevole entrare nella mente e nel metodo del magistero di Benedetto XVI. Dove infatti le encicliche dei predecessori si agganciavano ad un fatto, ad una situazione, ad un problema e ad esso rapportavano Vangelo e dottrina delle chiesa, spesso confermando e talora innovando, papa Ratzinger si attiene ad un criterio univoco di rigore espositivo non necessariamente agganciato (almeno in apparenza) al vissuto contemporaneo.
Anche per questo è possibile leggere a Madrid (“El Pais”) che il papa «non propone una teocrazia nella forma ma nella sostanza» e che i suoi concetti recuperano “l’integrismo preconciliare”, mentre a Parigi (“Le Monde”) ammonisce sul rischio di interpretare quel testo come «l’ennesimo attacco di un papa al progresso, la scienza, l’ateismo», ignorando la logica propositiva che esso contiene e che ruota attorno ad un enunciato fondamentale redatto con una formula davvero essenziale: «L'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza». L’uomo come individuo e la società degli uomini nel suo insieme.
Quali segni dei tempi? È un «argumento… del arsenal del integrismo decimononico», come sentenzia “El Pais”, o c’è un’altra prospettiva? Di certo la Spe salvi, che non contiene richiami espliciti al concilio, si distanzia, nel suo procedimento logico, dalla costituzione pastorale Gaudium et spes che identificava il sentire degli uomini d’oggi – “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” – con quelle dei discepoli di Cristo, sicché «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». In quel contesto alla chiesa veniva chiesto di sforzarsi di «conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole, spesso drammatiche».
Era il criterio induttivo insito nella lettura dei “segni dei tempi”, rispetto al quale, dal concilio in poi, si è sviluppata una densa critica nel timore che la sociologia potesse prendere il sopravvento sulla dottrina e si giungesse a giustificare tutte le tendenze di ogni momento storico, con gli inevitabili esiti del relativismo etico.
Un rischio al quale si può far fronte – come ben si trova nel Catechismo della chiesa cattolica – se il tema è declinato sul modulo evangelico delle beatitudini, che «elevano la nostra speranza verso il cielo come verso la nuova terra promessa» e «ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù». Parametri assai poco morbidi posti a misura della coerenza dei credenti.
In realtà, con questa enciclica sulla speranza Benedetto XVI mostra di voler sviluppare il ragionamento teologico-sistematico iniziato con la Deus caritas est. È infatti la fede in un Dio che è carità a conferire significato, consistenza e verità ad ogni autentica speranza umana. Mantenendosi a questo livello, che oltrepassa l’analisi storico-politica, il testo ricapitola, spesso in modo affascinante e con dovizia di riferimenti biblici, patristici e filosofici – oltre che con evocazioni esemplari – la dottrina della speranza cristiana.
Da Bacone in poi… L’uomo è descritto come un grande coltivatore di attese, da quelle minori a quelle maggiori; ma resta sempre inappagato perché «ha bisogno di una speranza che vada oltre» e perché «può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere». In tale diuturna ricerca è intervenuta una rottura da quando l’umanità ha potuto progressivamente dotarsi di risorse e di strumenti sempre più efficaci di dominio sulla natura.
Seguendo il messaggio del filosofo Bacone, ciò li ha indotti a rimpiazzare lo scenario biblico del “regno di Dio” con quello di un “regno dell’uomo”, imperniato attorno ad un progresso a sua volta centrato su una visione autosufficiente di “ragione e libertà”.
Illuminismo e marxismo sono indicati dal papa come le “icone esemplificative” (ma certo non esclusive) di questa deriva illusoriamente umanistica: il primo con la pretesa kantiana di soppiantare la “fede ecclesiastica” con una “fede religiosa” derivata dalla sola ragione; l’altro con l’errore di ritenere che il cambiamento sociale delle strutture avrebbe, da solo, eliminato le cause dell’ingiustizia e, in qualche modo, pacificato le relazioni civili.
La critica investe l’intero tempo moderno che ha creduto alla fattibilità di un mondo perfetto grazie alle conoscenze della scienza e ad una “politica scientificamente fondata”.
Anche una certa visione individualistica della ricerca della felicità viene imputata, in modo autocritico, ad una concezione cristiana, lungamente e largamente alimentata, che ha badato più alla salvezza dei singoli che alla necessità di occuparsi del “noi” comunitario, come pure prescrive il comandamento della carità. Un accenno quest’ultimo che vorrebbe essere esplicitato anche nel confronto di alcune tendenze dottrinali esistenti in ambito cattolico che fanno concessioni sempre più ampie alla funzione… “salvifica” del mercato e dei suoi meccanismi automatici, come a suggello del trionfo definitivo del capitalismo sulle ideologie che lo hanno ostacolato nel secolo scorso.
Sarà forse uno dei temi della annunciata enciclica sociale di papa Benedetto XVI?
Quel Dio dal volto umano. Le argomentazioni della Spe salvi portano a concludere che le speranze che ogni giorno ci mantengono in cammino non bastano se viene meno la «grande speranza che deve superare tutto il resto» e che «può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere», a confutazione di un’accusa tradizionale, che non si tratta di un qualsiasi dio, ma di «quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme», il cui regno non è un immaginario aldilà di salvezza ma «è presente là dove egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge».
Attorno a questo nucleo essenziale ruota una galassia di spunti, di riferimenti e di esemplificazioni che compongono una vera rapsodia della speranza cristiana, che rifiuta con decisione l’argomento usato per rifiutarla: l’esistenza della morte, della sofferenza, della malattia e della violenza sopraffattrice.
L’ateismo non è che un “moralismo”: come protesta contro «un mondo nel quale esiste una tale quantità di ingiustizie, di sofferenze… e di cinismo del potere» e che per questo non può essere «l’opera di un Dio buono». Viceversa, se si coniuga la speranza con l’opera di un Dio che ama l’uomo, lo stesso “giudizio finale” perde la sua immagine “terrificante” e si presenta come l’“immagine decisiva della speranza”.
Se il mondo aiuta la chiesa. Letta l’enciclica, e scontate le polemiche, vale ora la pena di indugiare su un aspetto che si presenta ormai come una costante consolidata del magistero di papa Ratzinger.
Nel suo magistero, egli è portato a confrontare il cristianesimo con le “essenze” delle “entità altre”: religioni, dottrine e ideologie. C’è da chiedersi se in tale tendenza di comparazione necessariamente astratta non sia insita l’incognita di appiattire il messaggio evangelico sulla categoria degli “ismi” dell’arena intellettuale, con esiti inevitabili di inconciliabilità se non di scontro. Viceversa, l’esperienza storica permette di constatare come, incarnandosi nelle vicende umane, anche le teorie più rigide e ed esclusive siano state costrette a modularsi sul denominatore della tolleranza, della convivenza e del reciproco riconoscimento.
Si tratta di un fenomeno che ha portato ciascuno ad apprendere qualcosa dall’altro e a donargli qualcosa, in un meccanismo di reciprocità che, in ultima analisi, è la cifra più affidabile del processo di civilizzazione. È da qui che può venire quell’aiuto alla chiesa da parte del mondo contemporaneo di cui parlava il concilio Vaticano II.
Una più puntuale cognizione del valore dei movimenti storici consentirebbe tra l’altro di verificare – come suggerisce Edgar Morin – che «il messaggio di fraternità delle religioni si è trovato laicizzato e indossato dalla rivoluzione francese, poi amplificato e universalizzato dal socialismo e che la fraternità e la compassione sono state di continuo smentite dalle azioni commesse in nome di queste religioni e in nome del socialismo, ma esse rimangono lo strato sottostante dal quale possiamo scegliere le nostre finalità».
Impastandosi nelle vicende della storia, dottrine e religioni non restano mai allo stato puro ma si influenzano reciprocamente, si modificano e si evolvono nella prassi. Accompagnando al confronto delle dottrine una più attenta percezione della storia dell’umanità – come del resto invitava a fare il concilio – si ottiene una decantazione critica che identifica un patrimonio e un tessuto comune di umanità, a partire dal quale cooperare all’offerta di “ragioni di vita e di speranza”. Non i cristiani da soli per gli altri, ma “con” tutti e “per” tutti.
Domenico Rosati
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3 commenti:
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