Cara Settimana,
stiamo diventando un paese “senza società” e una chiesa “senza comunità”. Questa è la verità. Il modello di parrocchia che tende ad imporsi è ancora quello della “stazione di servizi”. La minoranza dei praticanti tende a vivere una dinamica devozionale e morale, solo nell’osservanza del “dovere cristiano” della messa domenicale. Ma la chiesa non dovrebbe avere nel suo “dna” il tema generatore “comunitario”? Siamo invitati a prendere coscienza ancora di più di essere “popolo di Dio”, per essere segno della comunità degli “ultimi tempi”. La religione è, per se stessa, un fatto comunitario, un evento che crea relazioni, genera legami e origina vincoli.
La stessa parola “chiesa” ha perso ogni contatto con la verità che il termine significava: nel gergo comune oggi indica “un dove”, un “luogo” o un “edificio”, uno “spazio geometrico”. Ma di per sé significa precisamente “gente strappata alla solitudine e messa insieme da Dio”.
La formula “città senza società” è la chiave dell’analisi e della diagnosi che mi è capitato di fare della situazione socio-culturale e socio-pastorale della diocesi brasiliana di San Paolo nel 2006. Se non si reagisce a questo problema, la chiesa può diventare una realtà decorativa.
Per sé lo Spirito Santo ha già fatto la sua mossa decisiva 40 anni fa con il Vaticano II (1962-1965) e ha messo al centro della teologia, della spiritualità e della pastorale non più la concezione e l’ispirazione di un Dio onnipotente ed eterno quasi solo e solitario che si rifletteva nel ruolo egemone del clero, ma la Trinità! Da questo cambiamento si può affermare che tutto resta uguale e, allo stesso tempo, tutto cambia; anzi, tutto resta uguale solo se tutto cambia! Continuità e novità e non conservazione o rottura vuol dire partecipare alla “Tradizione vivente” della chiesa.
Quindi, alla fonte e all’origine di tutto c’è il “noi divino”. In questo modo siamo chiamati a diventare il “noi ecclesiale”, dove tutti hanno un nome, un posto, un ruolo e una voce. Tutti soggetti e tutti autori, nello Spirito di Gesù, della vita e della missione della comunità cristiana. Questo rivoluziona l’immagine e la figura di tutti: quella dei laici, dei religiosi e dei preti. Certo quarant’anni di postconcilio – pur essendo un tempo biblico e simbolico completo e unitario – sono ben poca cosa per mettere mano alla creazione di una nuova immagine comunitaria di chiesa. È in questione il passaggio dal modello di “chiesa-società” a quello di “chiesa-comunità”. Ma è pur sempre qui che occorre tornare ed è da qui che occorre ripartire.
La perdita delle piazze, la crisi di società e dei valori… Tutto giusto, ma a nulla serve un’operazione nostalgica. Qualcuno dice: “Come si stava bene una volta...”. Chi si piange addosso, non risolve i problemi, ma li aumenta e, soprattutto, li aggrava. Con la retorica degli “amarcord” non si crea società, ma solo deformazioni e omissioni. La vecchia socialità dell’epoca rurale, con le sue luci e le sue ombre, è finita. Oggi sta nascendo a fatica, e nella disattenzione dei più, la “socialità globale”. I terzomondiali, che sono gli unici a fare ancora un uso simbolico delle piazza, come facevamo noi fino a 20-30 anni fa, indicano un germe di nuova socialità che sia allo stesso tempo globale e locale e di una nuova cittadinanza dei diritti umani universali.
Non si può tornare indietro dove ormai non c’è più niente. Occorre osare di più e andare avanti. Le promesse e le potenzialità vanno però tradotte in progetti, in laboratori, in sperimentazioni e in gemellaggi attivi. Non è bene abbandonare il paese alla deriva, lasciando che crescano – in modo selvaggio – solo due componenti: lavoro-impresa e affetti-famiglia. È la tirannia “economicistica”: essa aggredisce e snatura anche il privato e il personale della coppia e della famiglia. Non possiamo diventare noi stessi se rinunciamo a diventare in modo nuovo paese, comunità, società e città.
La funzione della chiesa è quella di caricarsi sulle spalle questa eclissi di socialità globale e di cittadinanza attiva, di relazioni e di interazioni multiculturali, per favorire nuovi processi generativi. Ecco la risorsa multietnica dei residui praticanti della nostra piazza! Se nel passato la chiesa ha svolto una funzione di “supplenza solida” come “chiesa-società”, con l’egemonia del potere ecclesiastico, oggi essa è chiamata a svolgere una funzione di “supplenza leggera” come chiesa-comunità, con l’egemonia della spiritualità, una spiritualità di comunione, che offre spazio all’informazione, all’ascolto, al dialogo e alla comunicazione. Una spiritualità che fa della chiesa la “casa” e la “scuola” di relazioni gratuite e creative, nell’uguaglianza e nella reciprocità. Una spiritualità realistica che fa delle dinamiche di riconciliazione e di offerta di perdono la sua palestra abituale: altrimenti tutto muore prima di iniziare.
Ad esempio, in un’ora di incontro ci possono capitare alcuni equivoci. Essi possono paralizzare l’incontro se non chiuderlo per sempre, come anche rilanciare la possibilità a parlarsi e ad ascoltarsi. A nessuno tutto questo è connaturale: va conquistato umilmente, con lunghi e generosi apprendimenti. Ci dobbiamo accogliere e abbracciare con il “bacio della pace” non sette volte, ma settanta volte sette! Abbiamo bisogno di una spiritualità organica che ci educhi gradualmente a pensare, a decidere, ad agire e a valutare insieme la vita e l’azione pastorale. Con metodi e pedagogie adeguate ai laici, che cominciano sempre più spesso a prendere parola come soggetti di chiesa. E adatte anche – perché no? – a noi preti che non siamo i soli e gli unici ad avere la parola decisiva. Si tratta di tener conto della diversità dei ruoli e dell’inevitabile distanza tra le competenze del prete e quelle dei laici.
Si sta profilando uno scenario nuovo che risulta molto più esaltante di quello tramontato del cristianesimo costantiniano e tridentino. Con i riferimenti e le luci che lo Spirito ha offerto grazie al Vaticano II, possiamo dedicarci con rinnovato entusiasmo a portare avanti il rinnovamento della chiesa, sposando il tema generatore della comunione. Potremo così diventare più esperti in comunione, mettendo a frutto il “genio trinitario” del cristianesimo delle origini e delle fonti, dal momento che «le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della chiesa, affinché tutti gli uomini e donne, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (LG 1).
don Gino Moro
Fondazione Mondo Migliore Onlus
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