giovedì 30 agosto 2007

COME SI REAGISCE DI FRONTE ALLE CADUTE DI UN PRETE

Cara Settimana,
permettermi di fare ad alta voce queste riflessioni che volentieri sottopongo al giudizio di altri.
Se un uomo cade per terra, i vicini passanti si danno da fare per aiutarlo a rialzarsi, gli domandano se si è fatto male e, se resta azzoppato, telefonano all’autoambulanza perché egli raggiunga un pronto soccorso o un ospedale.
Questo gesto esprime il senso della fraternità e della carità: ed è meraviglioso. La gente non lo valuta come straordinario, ma normale. In caso diverso ci vergogneremmo di chiamarci uomini.
Se cade per terra una foglia d'albero nessuno si preoccupa, ma se casca un campanile tutta la popolazione ne resta profondamente addolorata tanto che si dà da fare per ricostruirlo, anche se ci vorrà parecchio sacrificio.
Se un uomo tradisce o abbandona la moglie si resta afflitti, ma non più di tanto perché oggi è quasi normale che accada. Tanto è vero che farisaicamente si è legalizzato anche il divorzio.
Ma se cade per terra un prete, che è pur sempre un uomo e come tale soggetto a sbagliare, sembra che frani il mondo.
Si hanno sempre a disposizione due pesi e due misure: una permissiva e una condannatoria.
Per qualcuno che generosamente ha giurato e si è impegnato a spendere tutte le sue energie per volare in alto, se si prende qualche "capogiro" e casca per terra in qualche possibile 30 febbraio di questo mondo c'è solo la condanna assoluta con tanto di ghigliottina.
Certo, se questo qualcuno è un prete nessuno ha il dovere di dirgli che, cadendo, è stato bravo, ma se mai quello di curargli le ferite che lo hanno lacerato. Nessuno ha il diritto di condannarlo e di pesticciarlo, cosa che può fare solo chi è “senza peccato”. Ma questo lo può fare solo Cristo, tanto più che è venuto sulla terra “non a condannare, ma a perdonare”.
Perché un prete, sempre pronto a perdonare chi si riconosce “fuori strada”, non ha diritto di essere anche lui perdonato se, a qualche curva della vita, prende una sbandata? Non è anche lui un uomo che merita misericordia?
Certi fariseismi in chiesa ci stanno sullo stomaco, ma fanno lo stesso effetto anche quelli che se ne stanno al di fuori.
A parlare e a scrivere sui giornali di qualche "scivolata" di un prete sembra che si provi una grande soddisfazione. È un modo "nobile e furbesco" tante volte per giustificare le proprie "sbandate" così da sentirsi in pace.
Tutti i vestiti possono e devono essere lavati, ma la tonaca, se si sporca, ha da essere buttata in Arno. Chiamatela giustizia, se vi riesce!
Perché i pantaloni e le sottane si possono lavare e stirare così da poterli indossare di nuovo e far bella figura, mentre la tonaca ha da essere gettata sul rogo?

Nani Dido

Caro Nani, i preti cadono perché sono uomini, il che significa anzitutto che tra le loro file vi sono persone con difficoltà psicologiche in ugual proporzione che nel resto della popolazione.
Circa la loro moralità, non è possibile fare altro che lasciare a Dio il giudizio, ma almeno dal punto di vista umano possiamo mettere qualche punto fermo. La grazia non può far da supplente alla natura e sul piano naturale vi sono uomini che presentano serie carenze che portano ad errori a volte molto gravi. Davanti all’errore di un prete certamente una parte (prevalente?) di opinione pubblica si scatena: forse, come lei nota, non solo allo scopo di aiutare il peccatore, ma di puntare il dito contro altri e distrarre l’attenzione dal proprio peccato.
Mi pare che nella sua lettera sia ben raccontato l’atteggiamento “condannatorio”, ma ne citava un altro che ha a che fare con il permissivismo. Ritengo che in molti casi si voglia dare una condanna “esemplare” dopo anni di permissivismo verso gravi scandali ad opera di preti; come se la condanna esemplare potesse annullare retroattivamente una serie di omissioni.
Gesù ha detto in maniera esplicita che lo scandalo è pericoloso all’interno della comunione ecclesiale. È vero che a volte i media cavalcano lo scandalistico, ma non possiamo come chiesa ignorare che certi comportamenti generano scandalo perché sono a danno dei piccoli. Essere permissivi di fronte a certi fatti non è un bene né per chi li subisce né per chi li compie.
La misericordia porta un frutto pieno e genera un radicale cambiamento nelle persone quando sopraggiunge la percezione della gravità di quanto compiuto: a volte la domanda è se la chiesa sia attrezzata e pronta ad accogliere un presbitero che abbia commesso un fatto grave. Esistono luoghi nei quali poter compiere un cammino di riparazione: vi sono comunità in cui si opera per restituire una dignità perduta nel corso del ministero; ma a volte sembra che le chiese locali non ne siano a conoscenza o oscillino tra i citati rigorismo e permissivismo, invece di preoccuparsi ai primi segnali di ricondurre in carreggiata chi devia dal sentiero.
Caro Nani, amo ascoltare le critiche, anche di chi ci vede dall’esterno: non penso che siano sempre vere, anzi sono convinto che il vangelo abbia una intrinseca radicalità, un “ma io vi dico” che raramente ci sentiremo rimproverato all’esterno. Ma l’attenzione dobbiamo porla al nostro interno, per domandarci che succede e che stiamo facendo, come esercitiamo la vigilanza e la correzione fraterna, come salvaguardare il peccatore e il piccolo che ha subito lo scandalo. “Beati voi quando… mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”. Il problema non è quando dicono male, ma quando purtroppo non mentono.

don Luca Balugani

ANCHE GLI SCANDALI POSSONO SERVIRE

Caro direttore,
il Corriere della sera del 18 luglio è uscito con un titolo a tutta pagina: “Truffa nella cura dei malati. Monsignore arrestato” e il sottotitolo “Il prelato viveva in una casa con sauna e quadri d’autore”.
La Fondazione Giovanni XXIII, di cui don Luberto è stato presidente, è nata per curare malati cronici affetti da patologie infettive e con problemi psichici. Nonostante avesse 450 dipendenti, i 363 ammalati all’ispezione della Finanza risultavano abbandonati, senza alcun tipo di assistenza. L’Istituto da molti mesi non pagava i dipendenti, non versava i contributi assicurativi, aumentava il suo deficit nonostante la regione Calabria corrispondesse 195,00 euro al giorno per ogni ricoverato, la Fondazione avesse un patrimonio intorno a 100 milioni di euro, e i ricoverati dovessero contribuire al loro mantenimento.
All’indagine della Guardia di finanza è risultato che don Luberto avrebbe attuato “un vero e proprio saccheggio” delle risorse dell’Istituto “rubando” dalle casse della Fondazione circa 5 milioni di euro.
Il giornalista del Corriere riferiva che egli viveva in un lussuosissimo appartamento di Cosenza, con ogni genere di comfort.
Il “saccheggio” sarebbe stato consumato negli anni, a scapito degli ammalati lasciati in totale abbandono.
Questo doloroso episodio, e altri, per fortuna non frequenti, obbliga a porci una domanda: la chiesa vigila sufficientemente sulle opere assistenziali fatte in suo nome da diocesi e da congregazioni religiose, per prevenire o reprimere abusi? A Cosenza in Calabria nessuno sapeva di quello che da anni avveniva nell’Istituto Giovanni XXIII? Chi come chiesa aveva il compito di vigilare?
Il vescovo ha giustamente e saggiamente convocato tutti i sacerdoti della diocesi per deplorare pubblicamente l’accaduto, indire momenti di preghiera e riparazione, esprimere anche concretamente solidarietà ai ricoverati, sollecitare maggiore impegno perché le opere della chiesa siano testimonianza di carità. Ma lo scandalo rimane. Si poteva prevenire?
Alla fine degli anni 60 e all’inizio degli anni 70, a seguito di alcuni gravi scandali avvenuti in Istituti per minori gestiti da religiosi (i Celestini di Prato), la Congregazione dei religiosi aveva sollecitato la Conferenza episcopale italiana a istituire in ogni diocesi la Commissione diocesana per l’assistenza (CDA) con lo scopo di migliorare con la formazione la qualità degli istituti e di controllarne il funzionamento per prevenire disfunzioni e abusi.
In alcune diocesi la Commissione fu istituita con buoni risultati; in molte altre non fu mai costituita o non fu operante; con l’istituzione della Caritas italiana poi non se ne parlò più.
Ma la Caritas italiana ha il compito di promozione della carità e di coordinamento: la «prevalente funzione pedagogica»; e «si presenta come l’unico strumento ufficialmente riconosciuto a disposizione dell’episcopato italiano per promuovere, coordinare e potenziare le attività assistenziali nell’ambito della comunità ecclesiale italiana» (Paolo VI, Discorso al primo convegno delle Caritas diocesane, settembre 1972). Ma non le sono stati dati compiti di vigilanza e di controllo, probabilmente perché c’erano già le Commissioni diocesane per l’assistenza.
In senso generale, il compito di vigilare e controllare su quello che avviene nella chiesa locale e a nome della chiesa è certamente del vescovo. Ma quali strumenti ha per farlo? La Congregazione dei religiosi aveva indicato le Commissioni diocesane di assistenza, andate poi in disuso, e alla Caritas italiana non è stato affidato questo compito. Conseguenza: lo scandalo di Cosenza.
Anche gli scandali possono servire e aiutare chi ha responsabilità a fare un pensiero serio e a provvedere adeguatamente.
È difficile pensare di riesumare le Commissioni diocesane di assistenza, a cui si dovrebbe poi fornire mezzi adeguati per operare. Un’ipotesi concreta potrebbe essere affidare questo compito alla Caritas, che avrebbe già cultura, struttura, persone adatte e mezzi per assolverlo.
La cosa sarebbe urgente: non bisognerebbe attendere un altro scandalo per provvedere.

sac. Giovanni Nervo

lunedì 27 agosto 2007

ANCORA SUULA MESSA IN LATINO

lettera breve pag. 2


DOPO CHE È STATA RIPRISTINATA LA POSSIBILITÀ DI CELEBRARE IN LATINO

Accogliere il nuovo, rispettare il vecchio

Cara Settimana,
tanti mi domandano che cosa succederà adesso. La messa in latino è diventata nuovamente una chiacchiera; può essere ancora un segno che non si è spenta l’anima religiosa della gente. Certamente alcuni hanno letto il documento del papa che presentava la questione: il quotidiano Avvenire è andato a ruba. La liturgia è cosa delicata, come una veste di prezioso ricamo. Due estremi sono da evitare: una liturgia fredda e solo esteriore, dove si esegue un rito di cui si aspetta la fine; e una liturgia mossa, invasa di parole e gesti aggiuntivi che fanno coincidere la partecipazione con la confusione, dove domina l’arbitrio del celebrante e o di qualche protagonista dell’assemblea. Dov’è dunque il nodo della questione? La liturgia è il mistero della vita di Gesù che ci viene consegnato dalla chiesa. È un dono vivente, una presenza in azione attraverso parole e gesti belli e preziosi: né le parole sono da cambiare a nostro arbitrio, né i gesti possono diventare sciatti.
Cosa succederà, dunque, ora che il papa rende libero, a certe condizioni, l’uso del rito con il quale io personalmente ho celebrato la messa nei primi anni di sacerdozio? Non so immaginarlo. Alcune persone sono confuse e incerte, altre si scandalizzano come per un ritorno al passato, altre traggono un sospiro di sollievo o di soddisfazione. Credo che ora possa tramontare definitivamente il tempo della scomunica lanciata dal basso.
Negli anni seguiti immediatamente al concilio, e poi ancora per decenni fin quasi ai nostri giorni, alcuni hanno impegnato le loro energie in una lotta paragonabile a quella del secolo settimo e ottavo contro le immagini; come in quegli antichi tempi animosi e feroci, sono stati bruciati libri e sconfessati usi e comportamenti pieni di dignità; si è perso tempo a irridere e a mortificare persone, che si sono sentite rifiutate per il solo desiderio di pregare e cantare come la chiesa stessa le aveva educate fin dall’infanzia.
L’ebbrezza di novità del ’68 ha lambito il tempio e ne ha intaccato le pareti; vi abbiamo partecipato in tanti, collaborando con antiquari e artigiani per la frettolosa demolizione degli altari delle chiese e la svendita di suppellettili preziose; a volte armadi di plastica hanno sostituito i legni pregiati delle sagrestie.
E, tuttavia, nello stesso tempo, da molte parti il nuovo rito liturgico si è fatto strada secondo una modalità nobile e intensa, partecipata dal profondo, che ha raccolto e rinnovato il testimone della tradizione: nuovi canti, nuove pagine della Bibbia, nuova consapevolezza per rinnovate comunità. Lì dove la liturgia nata dal concilio è fiorita in una composta bellezza, lì dove le comunità hanno espresso l’intensità della fede, non si farà difficoltà ad accogliere altri fratelli desiderosi di pregare con uno stile e una lingua così cari per secoli a tante generazioni cristiane. Come lo scriba sapiente del Vangelo dovremo imparare a trarre dal grande tesoro della chiesa cose nuove e cose vecchie.

don Angelo Busetto

SULLA MESSA IN LATINO

Cara Settimana,
prima di entrare nel merito del recente motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, bisogna sfatare un equivoco: non si tratta – come è stato scritto e detto dai mezzi di comunicazione sociale – di ripristinare la messa in latino, perché nei convegni e nelle riunioni internazionali la messa di solito si celebra in latino, ma in conformità alla riforma voluta dal concilio Vaticano II. Il papa ha inteso ripristinare la messa riformata dal papa Pio V dopo il concilio di Trento. Perciò il dilemma non è «messa in latino o messa in italiano?», ma «messa secondo la riforma del concilio di Trento (1563) o messa secondo la riforma del concilio Vaticano II (1965)?».
Il nocciolo del problema sta proprio in queste due date. Il papa, nel tentativo di far rientrare lo scisma avviato dal vescovo Marcel Lefebvre dopo la chiusura del Vaticano II, consente di ripristinare la celebrazione della messa e dei sacramenti secondo il rito previsto dal concilio di Trento, presumendo di fare un salto all’indietro di ben quattrocento anni. Il motu proprio di Benedetto XVI, per rendere meno evidente questo contrasto, preferisce far riferimento al messale romano edito da Giovanni XXIII nel 1962. In realtà, papa Giovanni si limitò a fare qualche modifica di poco conto al messale rivisto per mandato di Pio V nel 1570.
Come giudicare questo provvedimento? Affronta un problema marginale destinato ad incidere ben poco nella vita della chiesa o rischia di creare divisioni e accrescere la confusione esistente?
Fra le più interessanti conquiste della cultura moderna e contemporanea dobbiamo includere la coscienza del progresso nel cammino dell’umanità e l’acquisizione del senso della storia. Anche la chiesa e le discipline teologiche hanno fatto tesoro di queste conquiste e le hanno applicate nello studio della Bibbia, nell’approfondimento del progetto di salvezza preparato da Dio per l’uomo, nella comprensione del mistero dell’incarnazione e della persona di Cristo, della chiesa e della sua missione, nel definire il rapporto della chiesa con il mondo e la società... Si tratta di acquisizioni che hanno consentito il superamento di una concezione statica e parziale dell’uomo, della società e della fede, aprendo nuovi orizzonti che è difficile descrivere in poche battute.
A partire da queste considerazioni, possiamo comprendere il grande evento di grazia del Vaticano II, indetto e avviato dal papa Giovanni XXIII e portato a compimento dal suo successore Paolo VI. A conclusione dei grandi movimenti di riforma, si hanno sempre forme di resistenza e di rifiuto. Già durante la celebrazione del Vaticano II il vescovo francese Marcel Lefebvre si era posto a capo di una minoranza di contestatori. Dopo la sua conclusione rifiutò i documenti approvati dalla maggioranza dei vescovi e firmati dal papa e diede vita ad uno scisma, incorrendo nella scomunica latae sententiae riservata a coloro che consacrano altri vescovi in aperto dissenso con il papa. Per i seguaci di Lefebvre il problema non è costituito dall’abbandono della lingua latina nella celebrazione della messa e dei sacramenti, ma dalla riforma voluta dal concilio.
Si comprende allora che il motu proprio di Benedetto XVI non possa soddisfare le richieste degli scismatici, che chiedono molto di più. Vogliono in sostanza che si cancelli il Vaticano II. Non è difficile prevedere che la celebrazione della messa tridentina offrirà lo spunto per riaffermare la concezione di una chiesa clericale e piramidale, nella quale i laici sono esecutori materiali delle direttive emanate dalla gerarchia, di un culto celebrato dal vescovo o dal presbitero con la partecipazione passiva degli altri fedeli, che si trovano nell’impossibilità di comprendere e di partecipare, di una chiesa chiusa in se stessa, che rifiuta il dialogo e si pone dinanzi alla società in un atteggiamento di condanna e di conquista.
Qualche altra osservazione di non poca importanza va fatta al documento di Benedetto XVI. Egli, nel permettere la celebrazione della messa secondo il rito riformato dal concilio di Trento, si rivolge direttamente ai fedeli e ai presbiteri, mettendo in ombra il ruolo dei vescovi e dei parroci. Non c’è il rischio di favorire contrapposizioni e fratture all’interno della comunità cristiana? Inoltre, egli si serve di un motu proprio (cioè di un provvedimento che si fonda sulla personale iniziativa e responsabilità del papa) per mettere in ombra una riforma voluta da un concilio ecumenico, organismo ecclesiale al più alto livello, dove tutto il collegio dei vescovi discute e decide. Non sarebbe stato più corretto coinvolgere tutti i vescovi nella discussione e nella decisione, invece di limitarsi a informarli quando tutto era stato stabilito?
L’unico aspetto positivo che si può intravedere da un provvedimento che ha provocato amarezza e delusione deriva dal disinteresse che presumibilmente avranno i più per le “novità” introdotte dal papa. Quanti saranno i fedeli che vorranno servirsi delle “aperture” di Benedetto XVI? Troveranno dei sacerdoti disponibili ad accogliere le loro richieste? Visto che la lettera indirizzata dal papa ai vescovi prevede una verifica fra tre anni, si deve avere pazienza e fiducia nello Spirito per costatare se ci sarà la ricezione necessaria, perché un provvedimento emanato dall’autorità diventi regola di vita per tutti i fedeli cristiani.

lettera firmata