Caro direttore,
il Corriere della sera del 18 luglio è uscito con un titolo a tutta pagina: “Truffa nella cura dei malati. Monsignore arrestato” e il sottotitolo “Il prelato viveva in una casa con sauna e quadri d’autore”.
La Fondazione Giovanni XXIII, di cui don Luberto è stato presidente, è nata per curare malati cronici affetti da patologie infettive e con problemi psichici. Nonostante avesse 450 dipendenti, i 363 ammalati all’ispezione della Finanza risultavano abbandonati, senza alcun tipo di assistenza. L’Istituto da molti mesi non pagava i dipendenti, non versava i contributi assicurativi, aumentava il suo deficit nonostante la regione Calabria corrispondesse 195,00 euro al giorno per ogni ricoverato, la Fondazione avesse un patrimonio intorno a 100 milioni di euro, e i ricoverati dovessero contribuire al loro mantenimento.
All’indagine della Guardia di finanza è risultato che don Luberto avrebbe attuato “un vero e proprio saccheggio” delle risorse dell’Istituto “rubando” dalle casse della Fondazione circa 5 milioni di euro.
Il giornalista del Corriere riferiva che egli viveva in un lussuosissimo appartamento di Cosenza, con ogni genere di comfort.
Il “saccheggio” sarebbe stato consumato negli anni, a scapito degli ammalati lasciati in totale abbandono.
Questo doloroso episodio, e altri, per fortuna non frequenti, obbliga a porci una domanda: la chiesa vigila sufficientemente sulle opere assistenziali fatte in suo nome da diocesi e da congregazioni religiose, per prevenire o reprimere abusi? A Cosenza in Calabria nessuno sapeva di quello che da anni avveniva nell’Istituto Giovanni XXIII? Chi come chiesa aveva il compito di vigilare?
Il vescovo ha giustamente e saggiamente convocato tutti i sacerdoti della diocesi per deplorare pubblicamente l’accaduto, indire momenti di preghiera e riparazione, esprimere anche concretamente solidarietà ai ricoverati, sollecitare maggiore impegno perché le opere della chiesa siano testimonianza di carità. Ma lo scandalo rimane. Si poteva prevenire?
Alla fine degli anni 60 e all’inizio degli anni 70, a seguito di alcuni gravi scandali avvenuti in Istituti per minori gestiti da religiosi (i Celestini di Prato), la Congregazione dei religiosi aveva sollecitato la Conferenza episcopale italiana a istituire in ogni diocesi la Commissione diocesana per l’assistenza (CDA) con lo scopo di migliorare con la formazione la qualità degli istituti e di controllarne il funzionamento per prevenire disfunzioni e abusi.
In alcune diocesi la Commissione fu istituita con buoni risultati; in molte altre non fu mai costituita o non fu operante; con l’istituzione della Caritas italiana poi non se ne parlò più.
Ma la Caritas italiana ha il compito di promozione della carità e di coordinamento: la «prevalente funzione pedagogica»; e «si presenta come l’unico strumento ufficialmente riconosciuto a disposizione dell’episcopato italiano per promuovere, coordinare e potenziare le attività assistenziali nell’ambito della comunità ecclesiale italiana» (Paolo VI, Discorso al primo convegno delle Caritas diocesane, settembre 1972). Ma non le sono stati dati compiti di vigilanza e di controllo, probabilmente perché c’erano già le Commissioni diocesane per l’assistenza.
In senso generale, il compito di vigilare e controllare su quello che avviene nella chiesa locale e a nome della chiesa è certamente del vescovo. Ma quali strumenti ha per farlo? La Congregazione dei religiosi aveva indicato le Commissioni diocesane di assistenza, andate poi in disuso, e alla Caritas italiana non è stato affidato questo compito. Conseguenza: lo scandalo di Cosenza.
Anche gli scandali possono servire e aiutare chi ha responsabilità a fare un pensiero serio e a provvedere adeguatamente.
È difficile pensare di riesumare le Commissioni diocesane di assistenza, a cui si dovrebbe poi fornire mezzi adeguati per operare. Un’ipotesi concreta potrebbe essere affidare questo compito alla Caritas, che avrebbe già cultura, struttura, persone adatte e mezzi per assolverlo.
La cosa sarebbe urgente: non bisognerebbe attendere un altro scandalo per provvedere.
sac. Giovanni Nervo
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