venerdì 21 settembre 2007

INTERROGATIVI SUL MOTU PROPRIO DI BENEDETTO XVI

Cara Settimana,
mi sembra che il motu proprio Summorum Pontificum non stia avendo e non possa avere, almeno in Italia, grandi e visibili effetti pratici, visto che l’uso del Messale di Pio V nella versione più recente, quella di Giovanni XXIII del 1962, è permesso soltanto a “gruppi stabili aderenti alla precedente tradizione”. Dunque l’intervento di papa Benedetto XVI dovrebbe servire quasi soltanto a sanare la frattura dovuta ai gruppi sorti intorno al vescovo Lefèbvre, considerando veramente cattolici coloro che prediligono e usano il messale tridentino senza rifiutare in toto il concilio Vaticano II, come fanno invece i lefebvriani.
È da auspicare, a mio avviso, che avvenga soltanto così. Ma ciò che non potrà non avere più ampie conseguenze, o comunque risonanze, è la linea di ragionamento adottata dal motu proprio. Si tratta infatti non di un decreto, come dire “a secco”, che decide norme pratiche ritenute utili “a prescindere” da premesse teologiche, o di un indulto quale quello di Giovanni Paolo II (Quattuor abhinc annos del 1984 e Ecclesia Dei adflicta del 1988)
Il principio viene posto, all’art. 1, con l’ormai notissima distinzione tra “forma ordinaria” e “forma extratraordinaria” della lex orandi: il Messale Romano di Pio V e il Messale Romano di Paolo VI sono – sarebbero – due espressioni della stessa lex orandi, quella della chiesa cattolica di rito latino, che non comportano dunque una divisione nella lex credendi, restando due usi, antico e nuovo, dell’unico rito romano. Possiamo anche prescindere dall’altra premessa, di interpretazione giuridica, quella secondo cui il Messale Romano, nella forma promulgata da Giovanni XXIII nel 1962, non sarebbe mai stato abolito. In ogni caso, questa affermazione sembra poter valere per ogni libro liturgico precedente, in genere considerato venerabile e santo da ogni riforma successiva. Sofisticando dunque un po’, ogni forma rituale precedente non espressamente abrogata dovrebbe poter essere utilizzata, almeno in forma straordinaria! Per esempio, in Piemonte, il rito eusebiano, come aveva ipotizzato il card.Bertone quand’era vescovo di Vercelli!
Proprio la prima premessa porterebbe – accolta come principio di diritto liturgico generale quale sembra essere proposta – a quella stessa conclusione: ogni lex orandi, cioè ogni rito stabilito da legittima autorità ecclesiastica, è buono per l’uso, a meno che sia evidentemente fuori della lex credendi, il che non è pensabile, altrimenti avrebbe errato la stessa autorità che lo impone o lo permette. È chiaro che le variazioni liturgiche nel tempo e nello spazio ecclesiale non sono necessariamente comandate da preoccupazioni strettamente dogmatiche, bensì spirituali e pastorali, di adattamento cioè e comprensibilità nelle varie culture. Un’orazione che funziona bene nel rito ortodosso etiopico magari risulterebbe incomprensibile nel greco bizantino o nel siriaco, e non solo per la differenza di lingua.
Andrea Grillo, nel suo articolato intervento su Il Regno Attualità del 15 luglio arriva a temere un effetto “gnostico” da questo scollamento tra lex orandi e lex credendi, quasi che il contenuto della fede potesse prescindere dalla formulazione liturgica della stessa. Che comunque non tutte le formule di preghiera liturgica siano naturalmente equivalenti non è certo scontato: basti pensare alla teologia escatologica dell’antifona all’offertorio o dell’assoluzione nel rito preconciliare, dove si pregava affinché il defunto venisse salvato dall’inferno al giudizio finale!
Una seconda “scelta” carica di conseguenze non da poco in ambito storico e teologico è l’interpretazione che la lettera di Benedetto XVI dà della riforma liturgica voluta (così si pensava finora) dal concilio Vaticano II. Secondo il papa tale riforma, energicamente propugnata e analiticamente dettagliata nella costituzione Sacrosanctum concilium, sarebbe stata invece soltanto “desiderata” dal concilio. E proprio “mosso da questo desiderio”, il papa Paolo VI nel 1970 ha approvato i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Evidentemente una lettura di questo tipo del dettato conciliare potrà segnare un punto a favore di coloro che sostengono l’idea secondo cui la caratteristica della pastoralità del Vaticano II lo pone a un livello non di decisionalità, ma di esortazione pastorale, di auspicio e non di diretta volontà operativa.
Mi sembra veramente difficile sostenere esegeticamente tale interpretazione della Sacrosanctum concilium intendendo in questo modo i congiuntivi che la costellano: si riveda (recognoscatur), si riformi, si adatti... Diventa praticamente inutile citare poi tutti i verbi che esprimono volontà decisionale nei decreti di riforma firmati da Paolo VI: un caso per tutti, dalla costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969, i verbi jussimus e sic proferri volumus circa la obbligatorietà dell’unica formula da usare sul pane e sul vino in tutte le preghiere eucaristiche. Tra l’altro, chi ora sceglie il rito antico del 1962 come può sfuggire alla perentorietà di tale affermazione? Certo soltanto ritenendo che Paolo VI abbia semplicemente desiderato e non comandato questo e tutto il resto o che comunque la forma e le formule precedenti rimangano possibili come “straordinarie”.
È chiaro che se il papa è convinto di tale interpretazione, dovrebbe esprimerlo in modo anche più autorevole ed esplicito. Altrimenti si rischia di andare a smontare senza ragione sufficiente questa sorta di edificio liturgico veramente grandioso, almeno quanto a visibilità e organicità, che è scaturito dalla “volontà” (ripeto, come fino ad ora si pensava comunemente) del concilio per quanto riguarda l’intero organigramma della liturgia di rito romano.
Che questo smontaggio, o almeno abbassamento di livello autoritativo, possa cominciare ad avvenire sembra confermato dall’art. 9, dove si afferma che il parroco può concedere la licenza di usare “il rituale più antico” anche nell’amministrazione di battesimo, matrimonio, penitenza e unzione degli infermi (perché non tornare dunque a chiamarla estrema unzione?), mentre il vescovo ha la licenza di celebrare il sacramento della confermazione “usando il precedente antico Pontificale Romano”(si ricordi che Paolo VI nella Divinae consortes naturae ha modificato piuttosto profondamente il rito essenziale della cresima, anche nella cosiddetta “forma”).
Ciò viene concesso, può o deve essere concesso, “se lo consiglia il bene delle anime”. È chiaro che questa formula, meglio dire questo principio del pro bono animarum, suprema lex di ogni normativa della chiesa, vuol mettere fuori causa ogni gusto personale ed escludere che si possa fare un uso folkloristico delle concessioni del “motu proprio”, cosa che è veramente da temere; ma mi sembra altrettanto chiaro che vi si possa adombrare il sospetto che il “rito nuovo” possa non puntare o non poter ottenere il bonum animarum, o almeno che l’antico lo possa conseguire più facilmente.
Che il teologo Ratzinger ne fosse e ne sia personalmente convinto sembra evidente dalla lettura del suo libro Lo spirito della liturgia, in cui sostiene, ad esempio, l’incongruenza di quella che definisce celebrazione “davanti al popolo”, richiamando l’importanza di celebrare invece l’eucaristia verso il sole nascente (e poi davanti al tabernacolo). Ero tra quelli che speravano che non portasse all’atto quelle convinzioni. È avvenuto. Le conseguenze pratiche possono essere minime, addirittura nulle, o soltanto positive nel senso di tranquillizzare l’ala “tridentina” e forse ricucire lo scisma a un prezzo non troppo pesante. Sono tra quelli che non riescono a sperarlo, per il motivo che chi contesta per cose di questo genere lo fa perché vuol contestare o per sentirsi dare ragione in pieno.
La convinzione del papa è quella secondo cui ci sono dei cattolici, non solo anziani, che amano il rito di Pio V perché meno disponibile ad essere manipolato, diciamo più banalmente “democratizzato”, o infine perché salvaguarderebbe meglio la sacralità in cui va collocata e vissuta la celebrazione liturgica e quella degli altri sacramenti. Ma se il non vedere e non sentire, e magari anche il non capire, conferissero a questo scopo, rito ideale sarebbe quello dell’ortodossia, dove la celebrazione eucaristica avviene dietro l’iconostasi e la porta sacra. E se ne dovrebbe pure dedurre che la celebrazione eucaristica delle primissime comunità, nel contesto di un vera e propria cena, sarebbe stata priva di questa auspicabile sacralità!
Soltanto il futuro dirà degli effetti pratici di questo motu proprio. Nel presente ci compete di chiarire teologicamente il nodo dell’interpretazione del valore del concilio Vaticano II. Nodo, adesso, ancora più intricato di prima. Come più complessa si presenta un’ultima “aporia”, quella del compito dei vescovi in ambito liturgico. Papa Ratzinger presenta il suo decreto come quello che intende sollevare i vescovi dalla preoccupazione di dover decidere ogni volta di nuovo su tale materia, in ogni caso decidendo per loro o meglio affidandosi alla richiesta di un coetus fidelium (composto da quanti?) e alla benevola risposta dei parroci; solo in caso di controversia entra in campo il vescovo per tenere l’armonia nella comunità sulla base dei principi posti.
Insomma un intervento, quello di papa Benedetto XVI, che ha messo in allerta vescovi, studiosi e preti in cura d’anime: qualcuno (mi riferisco solo all’Italia e al Piemonte in particolare) invita a parlarne il meno possibile, altri lo colgono come uno stimolo a rivedere in meglio il modo di celebrare, altri ancora temono la già accennata svalutazione della riforma liturgica postconciliare e quindi dell’intero concilio... Le “aporie” sono comunque sul tappeto, al limite della contraddizione. Un motu proprio che forse non darà molto da fare, ma certo molto da pensare.

Vittorio Croce (Asti)

A PROPOSITO DEL DIBATTITO SULL'OMELIA

Spettabile redazione,
ho letto sulla vostra rivista le osservazioni che il sig. Carlo Napoli, già giornalista Rai, fa sulle omelie domenicali (cf. Sett. n. 26, p. 2). Mi ritengo anch’io una "cattolica dialogante", spesso critica su alcune posizioni della chiesa attuale, ma sulla forma e sul contenuto della lettera in questione non sono d'accordo con lui.
Il signor Napoli si aspetta, la domenica, un sacerdote che, "riqualificato" da opportuni corsi di aggiornamento e ricaricato psicologicamente da una moderna "tre giorni" commenti la parola del Vangelo con chiarezza e con capacità di sintesi per rendere il messaggio il più accattivante possibile. Questa ricerca di professionalità manageriale applicata alla figura del sacerdote mi sembra francamente riduttiva e un po’ superficiale. Il sacerdote non è un uomo che ha scelto la “professione” di predicatore, bensì un uomo che ha fatto della sua vita una missione per amore di Dio, al servizio della comunità. Può essere modesto culturalmente, semplice nel linguaggio, ma non sta qui la centralità del suo ruolo. A lui, come ministro di Dio, spetta, oltre all'annuncio della parola, l'amministrazione dei sacramenti, la celebrazione dell'eucaristia, centro e vita della chiesa. Qui sta la sua grandezza e la sua dignità sacerdotale.
Il sig. Napoli si aspetta nell'omelia un concetto forte, dal risvolto sostanzialmente sociale che possa essere trattenuto e far riflettere nel corso della settimana successiva. Il Vangelo è pieno di concetti forti, attuali oggi come 2000 anni fa: lì troviamo l'educazione del cuore, la correzione delle coscienze, anche nella sola meditazione.
Ricordo che, durante una messa domenicale, un giovane sacerdote famoso, per essere grintoso e un po’ anticonformista, dopo la proclamazione del Vangelo in cui si parlava di amare i propri nemici, si è seduto sui gradini del presbiterio, lasciando i fedeli in silenzio per cinque lunghissimi minuti. Era chiara la provocazione: guardare in se stessi ed esaminarsi alla luce di quanto ascoltato.
Se dalla parola del vangelo non riusciamo a trattenere niente, se di fatto l'ascolto non cambia il nostro modo di pensare e di vivere, non è solo per la poca abilità di chi lo commenta, ma anche per la nostra poca maturità di credenti. Ci accontentiamo di non essere grandi peccatori, limitiamo il nostro concetto di carità e amore cristiano già con fatica ai rapporti più vicini (marito, moglie, figli, genitori) e i singoli diventano la società intera. Quando si parla di interessi comuni, di diritti, di giustizia, di dignità di vita uguale per tutti, il concetto di vita cristiana poco alla volta si impoverisce fino spesso a sparire completamente, sopraffatto dall'egoismo, dal potere, dalla prevaricazione.
È sempre colpa della chiesa che non sa educare, che non sa camminare al passo dei tempi? In parte forse, ma io penso che a noi spetta la decisione e la responsabilità finale di come vivere da autentici credenti.
Grazie per l'attenzione e per l'ascolto.

Nadia Mazzanti (BO)

A PROPOSITO DI UNA "CORRETTA" COLLOCAZIONE DEI SANTI

lettera breve pag. 2





Cara Settimana,
sono rimasto letteralmente allibito quando, sfogliando una rivista di paramenti liturgici, ho visto una casula che, sulla parte anteriore, porta l’immagine di san padre Pio. Secondo me è un santo che, senza sua colpa, sta diventando – mi si scusi l’espressione – come il prezzemolo. Lo troviamo in tutte le salse, in tutti i buchi, dappertutto, in vita e in morte, vedi, per esempio, i manifesti funebri. Non parliamo, poi, delle immagini e statue e statuette del santo. Una vera tracimazione. Ma è normale tutto questo o è piuttosto il frutto di un’esagerata “reclamizzazione” di miracoli, che alla fine prende il sopravvento su quello che è la santità per la chiesa? Di questo passo, tra qualche tempo, neppure lontano, padre Pio prenderà il posto di Gesù Cristo; la Madonna è già stata superata, con grande soddisfazione dei numerosi fans o devoti, ma con grande danno alla fede, il cui centro non è certamente padre Pio. Vi è, quindi, una malsana devozione attorno a questo santo, che piace non tanto per la sua santità, ma per la sua “cosiddetta” capacità di fare miracoli. S. Antonio e s. Rita sono ormai un lontano ricordo. Come se i miracoli fosse lui a farli! Addirittura ho visto da qualche parte, in bella mostra, la figura del santo, con la preghiera: “Gesù, fa’ che padre Pio mi faccia le grazie che gli ho chiesto”. Più che da ridere, ci sarebbe da piangere.
C’ è anche chi consiglia di offrire agli amici “il dolce di padre Pio” con tanto di ricetta. Ci mancava soltanto l’aggiunta di qualche indulgenza per chi lo prepara e per chi lo mangia. Ultimamente fu pubblicata la hit parade dei santi e, naturalmente, in testa c’era padre Pio. Per quali meriti?
Credo che tutte queste “deviazioni” – non “devozioni” – attorno al santo del Gargano dipendano da chi ha degli interessi da salvaguardare, ma non escluderei neppure lo “zampino del maligno” che proprio in questo modo rovina la fede autentica “dal di dentro”.
Non riesco a capire come mai nessuno pensi a mettere un po’ d’ordine in tutta questa faccenda. A chi serve tutto questo? Serve forse per fare bottega? Ho tanti dubbi in merito. E, per finire, vorrei chiedere a tante persone se sanno distinguere tra padre Pio e Gesù Cristo, visto il furore devozionale per il santo. Un po’ di coraggio a fare piazza pulita non guasterebbe. Anzi.

don Franco Cerri (LU)
cerrif@alice.it

giovedì 13 settembre 2007

INTERROGATIVI SUL MOTU PROPRIO DI BENEDETTO XVI

Cara Settimana,
mi sembra che il motu proprio Summorum Pontificum non stia avendo e non possa avere, almeno in Italia, grandi e visibili effetti pratici, visto che l’uso del Messale di Pio V nella versione più recente, quella di Giovanni XXIII del 1962, è permesso soltanto a “gruppi stabili aderenti alla precedente tradizione”. Dunque l’intervento di papa Benedetto XVI dovrebbe servire quasi soltanto a sanare la frattura dovuta ai gruppi sorti intorno al vescovo Lefèbvre, considerando veramente cattolici coloro che prediligono e usano il messale tridentino senza rifiutare in toto il concilio Vaticano II, come fanno invece i lefebvriani.
È da auspicare, a mio avviso, che avvenga soltanto così. Ma ciò che non potrà non avere più ampie conseguenze, o comunque risonanze, è la linea di ragionamento adottata dal motu proprio. Si tratta infatti non di un decreto, come dire “a secco”, che decide norme pratiche ritenute utili “a prescindere” da premesse teologiche, o di un indulto quale quello di Giovanni Paolo II (Quattuor abhinc annos del 1984 e Ecclesia Dei adflicta del 1988)
Il principio viene posto, all’art. 1, con l’ormai notissima distinzione tra “forma ordinaria” e “forma extratraordinaria” della lex orandi: il Messale Romano di Pio V e il Messale Romano di Paolo VI sono – sarebbero – due espressioni della stessa lex orandi, quella della chiesa cattolica di rito latino, che non comportano dunque una divisione nella lex credendi, restando due usi, antico e nuovo, dell’unico rito romano. Possiamo anche prescindere dall’altra premessa, di interpretazione giuridica, quella secondo cui il Messale Romano, nella forma promulgata da Giovanni XXIII nel 1962, non sarebbe mai stato abolito. In ogni caso, questa affermazione sembra poter valere per ogni libro liturgico precedente, in genere considerato venerabile e santo da ogni riforma successiva. Sofisticando dunque un po’, ogni forma rituale precedente non espressamente abrogata dovrebbe poter essere utilizzata, almeno in forma straordinaria! Per esempio, in Piemonte, il rito eusebiano, come aveva ipotizzato il card.Bertone quand’era vescovo di Vercelli!
Proprio la prima premessa porterebbe – accolta come principio di diritto liturgico generale quale sembra essere proposta – a quella stessa conclusione: ogni lex orandi, cioè ogni rito stabilito da legittima autorità ecclesiastica, è buono per l’uso, a meno che sia evidentemente fuori della lex credendi, il che non è pensabile, altrimenti avrebbe errato la stessa autorità che lo impone o lo permette. È chiaro che le variazioni liturgiche nel tempo e nello spazio ecclesiale non sono necessariamente comandate da preoccupazioni strettamente dogmatiche, bensì spirituali e pastorali, di adattamento cioè e comprensibilità nelle varie culture. Un’orazione che funziona bene nel rito ortodosso etiopico magari risulterebbe incomprensibile nel greco bizantino o nel siriaco, e non solo per la differenza di lingua.
Andrea Grillo, nel suo articolato intervento su Il Regno Attualità del 15 luglio arriva a temere un effetto “gnostico” da questo scollamento tra lex orandi e lex credendi, quasi che il contenuto della fede potesse prescindere dalla formulazione liturgica della stessa. Che comunque non tutte le formule di preghiera liturgica siano naturalmente equivalenti non è certo scontato: basti pensare alla teologia escatologica dell’antifona all’offertorio o dell’assoluzione nel rito preconciliare, dove si pregava affinché il defunto venisse salvato dall’inferno al giudizio finale!
Una seconda “scelta” carica di conseguenze non da poco in ambito storico e teologico è l’interpretazione che la lettera di Benedetto XVI dà della riforma liturgica voluta (così si pensava finora) dal concilio Vaticano II. Secondo il papa tale riforma, energicamente propugnata e analiticamente dettagliata nella costituzione Sacrosanctum concilium, sarebbe stata invece soltanto “desiderata” dal concilio. E proprio “mosso da questo desiderio”, il papa Paolo VI nel 1970 ha approvato i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Evidentemente una lettura di questo tipo del dettato conciliare potrà segnare un punto a favore di coloro che sostengono l’idea secondo cui la caratteristica della pastoralità del Vaticano II lo pone a un livello non di decisionalità, ma di esortazione pastorale, di auspicio e non di diretta volontà operativa.
Mi sembra veramente difficile sostenere esegeticamente tale interpretazione della Sacrosanctum concilium intendendo in questo modo i congiuntivi che la costellano: si riveda (recognoscatur), si riformi, si adatti... Diventa praticamente inutile citare poi tutti i verbi che esprimono volontà decisionale nei decreti di riforma firmati da Paolo VI: un caso per tutti, dalla costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969, i verbi jussimus e sic proferri volumus circa la obbligatorietà dell’unica formula da usare sul pane e sul vino in tutte le preghiere eucaristiche. Tra l’altro, chi ora sceglie il rito antico del 1962 come può sfuggire alla perentorietà di tale affermazione? Certo soltanto ritenendo che Paolo VI abbia semplicemente desiderato e non comandato questo e tutto il resto o che comunque la forma e le formule precedenti rimangano possibili come “straordinarie”.
È chiaro che se il papa è convinto di tale interpretazione, dovrebbe esprimerlo in modo anche più autorevole ed esplicito. Altrimenti si rischia di andare a smontare senza ragione sufficiente questa sorta di edificio liturgico veramente grandioso, almeno quanto a visibilità e organicità, che è scaturito dalla “volontà” (ripeto, come fino ad ora si pensava comunemente) del concilio per quanto riguarda l’intero organigramma della liturgia di rito romano.
Che questo smontaggio, o almeno abbassamento di livello autoritativo, possa cominciare ad avvenire sembra confermato dall’art. 9, dove si afferma che il parroco può concedere la licenza di usare “il rituale più antico” anche nell’amministrazione di battesimo, matrimonio, penitenza e unzione degli infermi (perché non tornare dunque a chiamarla estrema unzione?), mentre il vescovo ha la licenza di celebrare il sacramento della confermazione “usando il precedente antico Pontificale Romano”(si ricordi che Paolo VI nella Divinae consortes naturae ha modificato piuttosto profondamente il rito essenziale della cresima, anche nella cosiddetta “forma”).
Ciò viene concesso, può o deve essere concesso, “se lo consiglia il bene delle anime”. È chiaro che questa formula, meglio dire questo principio del pro bono animarum, suprema lex di ogni normativa della chiesa, vuol mettere fuori causa ogni gusto personale ed escludere che si possa fare un uso folkloristico delle concessioni del “motu proprio”, cosa che è veramente da temere; ma mi sembra altrettanto chiaro che vi si possa adombrare il sospetto che il “rito nuovo” possa non puntare o non poter ottenere il bonum animarum, o almeno che l’antico lo possa conseguire più facilmente.
Che il teologo Ratzinger ne fosse e ne sia personalmente convinto sembra evidente dalla lettura del suo libro Lo spirito della liturgia, in cui sostiene, ad esempio, l’incongruenza di quella che definisce celebrazione “davanti al popolo”, richiamando l’importanza di celebrare invece l’eucaristia verso il sole nascente (e poi davanti al tabernacolo). Ero tra quelli che speravano che non portasse all’atto quelle convinzioni. È avvenuto. Le conseguenze pratiche possono essere minime, addirittura nulle, o soltanto positive nel senso di tranquillizzare l’ala “tridentina” e forse ricucire lo scisma a un prezzo non troppo pesante. Sono tra quelli che non riescono a sperarlo, per il motivo che chi contesta per cose di questo genere lo fa perché vuol contestare o per sentirsi dare ragione in pieno.
La convinzione del papa è quella secondo cui ci sono dei cattolici, non solo anziani, che amano il rito di Pio V perché meno disponibile ad essere manipolato, diciamo più banalmente “democratizzato”, o infine perché salvaguarderebbe meglio la sacralità in cui va collocata e vissuta la celebrazione liturgica e quella degli altri sacramenti. Ma se il non vedere e non sentire, e magari anche il non capire, conferissero a questo scopo, rito ideale sarebbe quello dell’ortodossia, dove la celebrazione eucaristica avviene dietro l’iconostasi e la porta sacra. E se ne dovrebbe pure dedurre che la celebrazione eucaristica delle primissime comunità, nel contesto di un vera e propria cena, sarebbe stata priva di questa auspicabile sacralità!
Soltanto il futuro dirà degli effetti pratici di questo motu proprio. Nel presente ci compete di chiarire teologicamente il nodo dell’interpretazione del valore del concilio Vaticano II. Nodo, adesso, ancora più intricato di prima. Come più complessa si presenta un’ultima “aporia”, quella del compito dei vescovi in ambito liturgico. Papa Ratzinger presenta il suo decreto come quello che intende sollevare i vescovi dalla preoccupazione di dover decidere ogni volta di nuovo su tale materia, in ogni caso decidendo per loro o meglio affidandosi alla richiesta di un coetus fidelium (composto da quanti?) e alla benevola risposta dei parroci; solo in caso di controversia entra in campo il vescovo per tenere l’armonia nella comunità sulla base dei principi posti.
Insomma un intervento, quello di papa Benedetto XVI, che ha messo in allerta vescovi, studiosi e preti in cura d’anime: qualcuno (mi riferisco solo all’Italia e al Piemonte in particolare) invita a parlarne il meno possibile, altri lo colgono come uno stimolo a rivedere in meglio il modo di celebrare, altri ancora temono la già accennata svalutazione della riforma liturgica postconciliare e quindi dell’intero concilio... Le “aporie” sono comunque sul tappeto, al limite della contraddizione. Un motu proprio che forse non darà molto da fare, ma certo molto da pensare.

Vittorio Croce (Asti)

mercoledì 5 settembre 2007

QUALE COSCIENZA MORALE IN ORDINE ALLE TASSE DA PAGARE

Caro direttore,
ti invio queste brevi riflessioni su un tema che ha tenuto banco nei giorni scorsi.
Chi l’ha detto che vescovi e cardinali, quando aprono bocca per esprimere un loro parere sulla società italiana, compiono un’ingerenza impropria? L’affermazione del card. Tarcisio Bertone al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini il 19 agosto scorso è stata ampiamente ripresa e citata dai politici di casa nostra dell’uno e dell’altro schieramento. L’intervento del segretario di stato della Santa Sede è stato per la verità un capolavoro di diplomazia: «Noi siamo con il Vangelo che dice “date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio” e con san Paolo che invita a pagare le tasse. Naturalmente – come è stato già detto da esponenti di chiesa e da me stesso –, tutti dobbiamo fare il nostro dovere anche nel pagare le tasse secondo leggi giuste e nel destinare i proventi a opere giuste e nell'aiuto ai più poveri e ai più deboli». Una frase del genere si è prestata in maniera perfetta ad essere ripresa e amplificata dagli opposti schieramenti politici: il centrosinistra ha abbondantemente ripreso la prima parte, inerente al dovere che tutti hanno di pagare le tasse; il centrodestra, come par condicio, ha fatto riferimento invece più alla seconda parte dove si ricorda l’impegno dello stato a che le tasse siano “giuste” e ad utilizzare i proventi di esse in maniera corretta e a favore dei più deboli.
Il card. Bertone si riallacciava ad un’affermazione del presidente del consiglio, Romano Prodi, fatta qualche settimana prima, il quale si lamentava in un’intervista a Famiglia Cristiana – lui cattolico praticante – che, nonostante le sue frequentazioni alle messe domenicali, non gli era mai capitato di sentire dalle omelie dei sacerdoti un richiamo al dovere di pagare le tasse. È doveroso perciò riflettere su quest’aspetto, anche perché è uno di quegli argomenti spinosi di cui si parla e si scrive malvolentieri, ma, visti i tempi che corrono, urge più che mai riflettere con serietà e pacatezza.
Tanto per rimanere in ambito ecclesiale, cominciamo col dire che nei 2.865 numeri nei quali è suddiviso il Catechismo della chiesa cattolica si trovano tre numeri dedicati al pur doveroso rispetto verso gli animali, un numero dedicato allo sciopero e uno sui contributi in materia di lavoro che vanno doverosamente pagati. Non c’è nessuna menzione delle tasse e del fisco in genere, anche se si parla del compito dello stato di assicurare la destinazione universale dei beni. Se ne parla, invece, nel Compendio della dottrina sociale della chiesa dove si dedica alla “raccolta fiscale e spesa pubblica” un solo numero, esattamente il n. 355.
Per la verità, durante i lavori del concilio, i presuli di tutto il mondo con molta fermezza avevano avanzato la proposta di superare l'etica individualistica dominante. Recita infatti il documento Gaudium et spes al n. 30: «Vi sono di quelli che, pur professando opinioni larghe e generose, tuttavia continuano a vivere in pratica come se non avessero alcuna cura delle necessità della società. Anzi, molti, in certi paesi, tengono in poco conto le leggi e le prescrizioni sociali. Non pochi non si vergognano di evadere, con vari sotterfugi e frodi, le giuste imposte o altri obblighi sociali (…) Che tutti prendano sommamente a cuore di annoverare le solidarietà sociali tra i principali doveri dell'uomo d'oggi e di rispettarle».
Nei trattati classici di morale si può cogliere una certa contraddizione, in quanto si trova sempre un capitolo su questo problema, ma, se confrontato con i poderosi tomi che affrontano la morale sessuale, i rapporti prematrimoniali, la masturbazione ecc., si constata una certa sproporzione.
Siamo, quindi, di fronte ad un atteggiamento per certi versi tutto da approfondire; tant’è vero che chi evade il fisco o non paga le tasse non avverte questo come una colpa morale grave. Gli stessi uomini politici, se a parole invitano al dovere civile di ogni cittadino, quando sono pescati con le mani nella “marmellata”, candidamente ammettono che è un “male minore”. Se poi pensiamo all’esempio che ci viene offerto da gente dello spettacolo e da campioni sportivi di ogni genere che si commuovono sempre quando suona l’inno di Mameli, mentre guardano il tricolore salire verso il cielo e, nello stesso tempo, chiedono che sulla terra i loro compensi economici siano versati su conti situati in compiacenti paradisi fiscali, o addirittura portano la loro residenza all’estero, qualche interrogativo etico in più al riguardo dovremmo pur cominciare a porcelo, o no?
Se vogliamo scendere a livelli più popolari e se dobbiamo prestare fede a quello che viene pubblicato, ben cinque milioni di italiani non pagano il canone Rai e un numero innumerevole di concittadini sfugge all’imposta sui rifiuti solidi e all’imposta di bollo sull’auto. Aggiungiamo a tutto ciò che, spesso e volentieri, a livello di coscienza civica personale, pur violando “magari in forma leggera” la legge – pensiamo al divieto di sosta o alla non osservanza delle varie tariffe postali, al non pagamento del biglietto sui mezzi pubblici, alla non erogazione degli scontrini fiscali ecc., della cui violazione non ci si preoccupa per nulla dal punto di vista morale, ma solo se si viene “beccati” e costretti a pagare la sanzione –, tutto questo la dice lunga su come l’italiano medio ha a cuore il bene comune.
Discorso a parte meriterebbe la tassazione sulle speculazioni finanziarie e sui redditi non da lavoro. Secondo la prestigiosa rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica non è certamente equo il fatto che i redditi da lavoro dipendente vengano tassati per circa il 50%, il reddito da impresa per circa il 40% e quello delle rendite finanziare solo per il 13%. Ben venga allora a questo punto il richiamo del card. Bertone al dovere di tutti di pagare le tasse e all’obbligo morale da parte dello stato di utilizzare queste risorse in favore dei più deboli.
Scrive l’economista americano Keynes che le tasse sono la quota da pagare per far parte di una società degna di questo nome; rimane, quindi, da parte di ciascuno, governanti e governati, il dovere morale di adempiere ai propri compiti.
Inoltre, si auspica che ai credenti che, ogniqualvolta si confessano e iniziano dicendo “Padre non so cosa dire, mi aiuti lei…”, possa capitare loro di sentirsi rispondere, non tanto la classica frase “Quante volte figliolo?”, ma una più prosaica “Dimmi come hai compilato l’ultimo 730 o 740?”. Chissà…, forse la vera conversione civica, morale e religiosa, può iniziare anche da lì.

don Mario Bandera

RISTABILIAMO LA VERITÀ SULL'8 PER MIILLE

Caro direttore,
il quotidiano La Repubblica nel numero di giovedì 2 agosto 2007 ha pubblicato un articolo di Curzio Maltese dal titolo: "Le tasse e i silenzi della chiesa", in cui si fanno pesanti accuse sul piano fiscale.
Maltese parte da una risposta provocatoria alla domanda posta da Prodi: «Perché quando vado a messa questo tema non è mai toccato nelle omelie?» e risponde: «Non sarà mai perché la chiesa è la prima a non pagare le tasse?».
Lascio a chi ha competenza giuridica e amministrativa la risposta alle pesanti accuse che seguono, anche se il professor Dalla Torre ha già dato ampia risposta in un precedente numero di Avvenire, dopo la notizia che la Commissione europea aveva avviato un procedimento contro il governo italiano per il "regalo" dell'Ici alla chiesa cattolica (Marco Tarquinio ha a sua volta avanzato delle controdeduzioni all'articolo di Maltese su Avvenire del 3 agosto, a pagina 2).
Vorrei invece fare qualche osservazione sull'affermazione, ripresa dall'Espresso, che «lo stato italiano verserà al Vaticano quest'anno 991 milioni di euro dell'8 per mille». Purtroppo da alcuni anni l'8 per mille è presentato all'opinione pubblica, anche da autorevoli personalità ecclesiastiche, come una benevola concessione dello stato italiano alla chiesa cattolica come riconoscimento della funzione sociale che essa compie. Con un doppio pericolo: di rendere dipendente la chiesa dai finanziamenti della stato e di rendere precaria la sua situazione economica perché una maggioranza politica sfavorevole alla chiesa può far modificare la normativa e togliere l'8 per mille.
Nessuno dice e informa la gente che lo stato italiano, quando si è formato con l'unità d'Italia, ha sottratto forzatamente alla chiesa italiana (sottrarre forzatamente dei beni a qualcuno in buon italiano si chiama "appropriazione indebita") i suoi beni, con cui provvedeva a se stessa senza chiedere nulla a nessuno. Il Concordato del 1929 aveva trovato un compromesso e aveva impegnato lo stato a restituire una parte dei beni tolti, in realtà una assai piccola parte, con la cosiddetta "congrua", già introdotta nel 1876 con la legge 3336 che aveva istituito il "fondo culto", cioè integrando il compenso ai sacerdoti titolari di parrocchie, là dove i proventi dei beni rimasti alla chiesa, "i benefici", non erano sufficienti al loro mantenimento.
L'aggiornamento e rinnovamento del Concordato fatto con il presidente del consiglio Craxi nel 1984 sostituisce la forma della "congrua" con la nuova forma dell'8 per mille: il cittadino italiano sceglie liberamente, se vuole, di destinare l'8 per mille delle tasse che deve allo stato a beneficio della chiesa cattolica per il mantenimento del clero, per le iniziative pastorali e caritative, o di altre confessioni religiose, o alle iniziative assistenziali dello stato. Ma c'è una differenza: nei confronti delle altre confessioni religiose è una liberalità dello stato per la funzione sociale che svolgono, per la chiesa cattolica invece è un parziale, molto parziale, risarcimento di quanto le è stato tolto. È da aggiungere che, assicurato il sostentamento del clero, una parte considerevole dell'8 per mille viene impiegata in attività caritative e di promozione umana. Cioè la chiesa restituisce una parte dell'8 per mille in servizi.
Per concludere, l'integrazione con l'8 per mille alla mia pensione di vecchiaia, che mi consente un tenore di vita modesto ma dignitoso, non è una benevolenza e un privilegio che mi viene concesso dallo stato, ma un doveroso e saggio provvedimento della mia chiesa che ho servito per 66 anni e che continuo a servire serenamente e gioiosamente.
Gli italiani conoscono questa realtà storica? Dall'articolo di Curzio Maltese sembrerebbe di no. Del resto i mezzi di comunicazione sociale non ne parlano mai. La ringrazio e la saluto cordialmente.

sac. Giovanni Nervo (PD)