venerdì 21 settembre 2007

A PROPOSITO DEL DIBATTITO SULL'OMELIA

Spettabile redazione,
ho letto sulla vostra rivista le osservazioni che il sig. Carlo Napoli, già giornalista Rai, fa sulle omelie domenicali (cf. Sett. n. 26, p. 2). Mi ritengo anch’io una "cattolica dialogante", spesso critica su alcune posizioni della chiesa attuale, ma sulla forma e sul contenuto della lettera in questione non sono d'accordo con lui.
Il signor Napoli si aspetta, la domenica, un sacerdote che, "riqualificato" da opportuni corsi di aggiornamento e ricaricato psicologicamente da una moderna "tre giorni" commenti la parola del Vangelo con chiarezza e con capacità di sintesi per rendere il messaggio il più accattivante possibile. Questa ricerca di professionalità manageriale applicata alla figura del sacerdote mi sembra francamente riduttiva e un po’ superficiale. Il sacerdote non è un uomo che ha scelto la “professione” di predicatore, bensì un uomo che ha fatto della sua vita una missione per amore di Dio, al servizio della comunità. Può essere modesto culturalmente, semplice nel linguaggio, ma non sta qui la centralità del suo ruolo. A lui, come ministro di Dio, spetta, oltre all'annuncio della parola, l'amministrazione dei sacramenti, la celebrazione dell'eucaristia, centro e vita della chiesa. Qui sta la sua grandezza e la sua dignità sacerdotale.
Il sig. Napoli si aspetta nell'omelia un concetto forte, dal risvolto sostanzialmente sociale che possa essere trattenuto e far riflettere nel corso della settimana successiva. Il Vangelo è pieno di concetti forti, attuali oggi come 2000 anni fa: lì troviamo l'educazione del cuore, la correzione delle coscienze, anche nella sola meditazione.
Ricordo che, durante una messa domenicale, un giovane sacerdote famoso, per essere grintoso e un po’ anticonformista, dopo la proclamazione del Vangelo in cui si parlava di amare i propri nemici, si è seduto sui gradini del presbiterio, lasciando i fedeli in silenzio per cinque lunghissimi minuti. Era chiara la provocazione: guardare in se stessi ed esaminarsi alla luce di quanto ascoltato.
Se dalla parola del vangelo non riusciamo a trattenere niente, se di fatto l'ascolto non cambia il nostro modo di pensare e di vivere, non è solo per la poca abilità di chi lo commenta, ma anche per la nostra poca maturità di credenti. Ci accontentiamo di non essere grandi peccatori, limitiamo il nostro concetto di carità e amore cristiano già con fatica ai rapporti più vicini (marito, moglie, figli, genitori) e i singoli diventano la società intera. Quando si parla di interessi comuni, di diritti, di giustizia, di dignità di vita uguale per tutti, il concetto di vita cristiana poco alla volta si impoverisce fino spesso a sparire completamente, sopraffatto dall'egoismo, dal potere, dalla prevaricazione.
È sempre colpa della chiesa che non sa educare, che non sa camminare al passo dei tempi? In parte forse, ma io penso che a noi spetta la decisione e la responsabilità finale di come vivere da autentici credenti.
Grazie per l'attenzione e per l'ascolto.

Nadia Mazzanti (BO)

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