Cara Settimana,
mi sembra che il motu proprio Summorum Pontificum non stia avendo e non possa avere, almeno in Italia, grandi e visibili effetti pratici, visto che l’uso del Messale di Pio V nella versione più recente, quella di Giovanni XXIII del 1962, è permesso soltanto a “gruppi stabili aderenti alla precedente tradizione”. Dunque l’intervento di papa Benedetto XVI dovrebbe servire quasi soltanto a sanare la frattura dovuta ai gruppi sorti intorno al vescovo Lefèbvre, considerando veramente cattolici coloro che prediligono e usano il messale tridentino senza rifiutare in toto il concilio Vaticano II, come fanno invece i lefebvriani.
È da auspicare, a mio avviso, che avvenga soltanto così. Ma ciò che non potrà non avere più ampie conseguenze, o comunque risonanze, è la linea di ragionamento adottata dal motu proprio. Si tratta infatti non di un decreto, come dire “a secco”, che decide norme pratiche ritenute utili “a prescindere” da premesse teologiche, o di un indulto quale quello di Giovanni Paolo II (Quattuor abhinc annos del 1984 e Ecclesia Dei adflicta del 1988)
Il principio viene posto, all’art. 1, con l’ormai notissima distinzione tra “forma ordinaria” e “forma extratraordinaria” della lex orandi: il Messale Romano di Pio V e il Messale Romano di Paolo VI sono – sarebbero – due espressioni della stessa lex orandi, quella della chiesa cattolica di rito latino, che non comportano dunque una divisione nella lex credendi, restando due usi, antico e nuovo, dell’unico rito romano. Possiamo anche prescindere dall’altra premessa, di interpretazione giuridica, quella secondo cui il Messale Romano, nella forma promulgata da Giovanni XXIII nel 1962, non sarebbe mai stato abolito. In ogni caso, questa affermazione sembra poter valere per ogni libro liturgico precedente, in genere considerato venerabile e santo da ogni riforma successiva. Sofisticando dunque un po’, ogni forma rituale precedente non espressamente abrogata dovrebbe poter essere utilizzata, almeno in forma straordinaria! Per esempio, in Piemonte, il rito eusebiano, come aveva ipotizzato il card.Bertone quand’era vescovo di Vercelli!
Proprio la prima premessa porterebbe – accolta come principio di diritto liturgico generale quale sembra essere proposta – a quella stessa conclusione: ogni lex orandi, cioè ogni rito stabilito da legittima autorità ecclesiastica, è buono per l’uso, a meno che sia evidentemente fuori della lex credendi, il che non è pensabile, altrimenti avrebbe errato la stessa autorità che lo impone o lo permette. È chiaro che le variazioni liturgiche nel tempo e nello spazio ecclesiale non sono necessariamente comandate da preoccupazioni strettamente dogmatiche, bensì spirituali e pastorali, di adattamento cioè e comprensibilità nelle varie culture. Un’orazione che funziona bene nel rito ortodosso etiopico magari risulterebbe incomprensibile nel greco bizantino o nel siriaco, e non solo per la differenza di lingua.
Andrea Grillo, nel suo articolato intervento su Il Regno Attualità del 15 luglio arriva a temere un effetto “gnostico” da questo scollamento tra lex orandi e lex credendi, quasi che il contenuto della fede potesse prescindere dalla formulazione liturgica della stessa. Che comunque non tutte le formule di preghiera liturgica siano naturalmente equivalenti non è certo scontato: basti pensare alla teologia escatologica dell’antifona all’offertorio o dell’assoluzione nel rito preconciliare, dove si pregava affinché il defunto venisse salvato dall’inferno al giudizio finale!
Una seconda “scelta” carica di conseguenze non da poco in ambito storico e teologico è l’interpretazione che la lettera di Benedetto XVI dà della riforma liturgica voluta (così si pensava finora) dal concilio Vaticano II. Secondo il papa tale riforma, energicamente propugnata e analiticamente dettagliata nella costituzione Sacrosanctum concilium, sarebbe stata invece soltanto “desiderata” dal concilio. E proprio “mosso da questo desiderio”, il papa Paolo VI nel 1970 ha approvato i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Evidentemente una lettura di questo tipo del dettato conciliare potrà segnare un punto a favore di coloro che sostengono l’idea secondo cui la caratteristica della pastoralità del Vaticano II lo pone a un livello non di decisionalità, ma di esortazione pastorale, di auspicio e non di diretta volontà operativa.
Mi sembra veramente difficile sostenere esegeticamente tale interpretazione della Sacrosanctum concilium intendendo in questo modo i congiuntivi che la costellano: si riveda (recognoscatur), si riformi, si adatti... Diventa praticamente inutile citare poi tutti i verbi che esprimono volontà decisionale nei decreti di riforma firmati da Paolo VI: un caso per tutti, dalla costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969, i verbi jussimus e sic proferri volumus circa la obbligatorietà dell’unica formula da usare sul pane e sul vino in tutte le preghiere eucaristiche. Tra l’altro, chi ora sceglie il rito antico del 1962 come può sfuggire alla perentorietà di tale affermazione? Certo soltanto ritenendo che Paolo VI abbia semplicemente desiderato e non comandato questo e tutto il resto o che comunque la forma e le formule precedenti rimangano possibili come “straordinarie”.
È chiaro che se il papa è convinto di tale interpretazione, dovrebbe esprimerlo in modo anche più autorevole ed esplicito. Altrimenti si rischia di andare a smontare senza ragione sufficiente questa sorta di edificio liturgico veramente grandioso, almeno quanto a visibilità e organicità, che è scaturito dalla “volontà” (ripeto, come fino ad ora si pensava comunemente) del concilio per quanto riguarda l’intero organigramma della liturgia di rito romano.
Che questo smontaggio, o almeno abbassamento di livello autoritativo, possa cominciare ad avvenire sembra confermato dall’art. 9, dove si afferma che il parroco può concedere la licenza di usare “il rituale più antico” anche nell’amministrazione di battesimo, matrimonio, penitenza e unzione degli infermi (perché non tornare dunque a chiamarla estrema unzione?), mentre il vescovo ha la licenza di celebrare il sacramento della confermazione “usando il precedente antico Pontificale Romano”(si ricordi che Paolo VI nella Divinae consortes naturae ha modificato piuttosto profondamente il rito essenziale della cresima, anche nella cosiddetta “forma”).
Ciò viene concesso, può o deve essere concesso, “se lo consiglia il bene delle anime”. È chiaro che questa formula, meglio dire questo principio del pro bono animarum, suprema lex di ogni normativa della chiesa, vuol mettere fuori causa ogni gusto personale ed escludere che si possa fare un uso folkloristico delle concessioni del “motu proprio”, cosa che è veramente da temere; ma mi sembra altrettanto chiaro che vi si possa adombrare il sospetto che il “rito nuovo” possa non puntare o non poter ottenere il bonum animarum, o almeno che l’antico lo possa conseguire più facilmente.
Che il teologo Ratzinger ne fosse e ne sia personalmente convinto sembra evidente dalla lettura del suo libro Lo spirito della liturgia, in cui sostiene, ad esempio, l’incongruenza di quella che definisce celebrazione “davanti al popolo”, richiamando l’importanza di celebrare invece l’eucaristia verso il sole nascente (e poi davanti al tabernacolo). Ero tra quelli che speravano che non portasse all’atto quelle convinzioni. È avvenuto. Le conseguenze pratiche possono essere minime, addirittura nulle, o soltanto positive nel senso di tranquillizzare l’ala “tridentina” e forse ricucire lo scisma a un prezzo non troppo pesante. Sono tra quelli che non riescono a sperarlo, per il motivo che chi contesta per cose di questo genere lo fa perché vuol contestare o per sentirsi dare ragione in pieno.
La convinzione del papa è quella secondo cui ci sono dei cattolici, non solo anziani, che amano il rito di Pio V perché meno disponibile ad essere manipolato, diciamo più banalmente “democratizzato”, o infine perché salvaguarderebbe meglio la sacralità in cui va collocata e vissuta la celebrazione liturgica e quella degli altri sacramenti. Ma se il non vedere e non sentire, e magari anche il non capire, conferissero a questo scopo, rito ideale sarebbe quello dell’ortodossia, dove la celebrazione eucaristica avviene dietro l’iconostasi e la porta sacra. E se ne dovrebbe pure dedurre che la celebrazione eucaristica delle primissime comunità, nel contesto di un vera e propria cena, sarebbe stata priva di questa auspicabile sacralità!
Soltanto il futuro dirà degli effetti pratici di questo motu proprio. Nel presente ci compete di chiarire teologicamente il nodo dell’interpretazione del valore del concilio Vaticano II. Nodo, adesso, ancora più intricato di prima. Come più complessa si presenta un’ultima “aporia”, quella del compito dei vescovi in ambito liturgico. Papa Ratzinger presenta il suo decreto come quello che intende sollevare i vescovi dalla preoccupazione di dover decidere ogni volta di nuovo su tale materia, in ogni caso decidendo per loro o meglio affidandosi alla richiesta di un coetus fidelium (composto da quanti?) e alla benevola risposta dei parroci; solo in caso di controversia entra in campo il vescovo per tenere l’armonia nella comunità sulla base dei principi posti.
Insomma un intervento, quello di papa Benedetto XVI, che ha messo in allerta vescovi, studiosi e preti in cura d’anime: qualcuno (mi riferisco solo all’Italia e al Piemonte in particolare) invita a parlarne il meno possibile, altri lo colgono come uno stimolo a rivedere in meglio il modo di celebrare, altri ancora temono la già accennata svalutazione della riforma liturgica postconciliare e quindi dell’intero concilio... Le “aporie” sono comunque sul tappeto, al limite della contraddizione. Un motu proprio che forse non darà molto da fare, ma certo molto da pensare.
Vittorio Croce (Asti)
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