Cara Settimana,
tra poco sono dieci anni che sono prete. Dieci anni! Quando sono stato ordinato prete, che cosa mi attendevo e che cosa desideravo? Che cosa mi direi oggi, a quasi dieci anni dall’ordinazione? Ricordo il paragone dell’assalto con la baionetta, nel giorno dell’ordinazione diaconale: il consacrarsi al Signore, come l’assalto con la baionetta in un giorno di guerra. Qualcosa di decisivo, insomma. Un po’ tragico, lo so, ma quel giorno mi venne in mente questa immagine.
Ripensando alla mia storia, ricordo di essere sempre stato molto sensibile alle motivazioni di quelli che erano “contro” la chiesa. Penso alla mia attenzione nei confronti di Nietzsche o alla difficoltà ad accettare le vesti liturgiche negli anni di seminario, soprattutto la veste e la cotta. Clericalismo, formalità liturgica, esibizionismo religioso, dogmatismo, esteriorità... tutta roba da buttare a mare!
Negli anni di seminario, ho fatto la fatica di “comprendere” le motivazioni e di scorgere un volto nuovo di chiesa. Sì, è stato un po’ questo il percorso: da un atteggiamento critico, sono passato ad un atteggiamento più “comprensivo” – seppure non trovando sempre le parole opportune – e via via ad una consapevolezza della ricchezza dell’esperienza ecclesiale e degli insegnamenti magisteriali. Insomma, ho notato in me il passaggio da una critica ferma e dura ad un atteggiamento più rispettoso e comprensivo. Ho capito, in questi anni, le fatiche dei cristiani e molto spesso la loro onestà e il loro valore. Ho capito che la chiesa è, prima di tutto, una comunità. Ho capito – o almeno intuito – il senso di alcune prese di posizione del magistero, scomode, ma non insensate. Ho capito che non bastano l’apertura e il dialogo, ma che ci vuole anche l’affermazione – a volte antipatica – dei principi “non negoziabili”.
In questo cammino di conversione e di accettazione, devo cogliere – insieme all’aspetto positivo – anche qualche aspetto più problematico: ogni tanto ho l’impressione che prenda corpo in me un comodo adeguarsi, rischiando di perdere l’atteggiamento “critico” costruttivo. Diventare insomma dei semplici “ripetitori” del magistero: “Non so perché, ma si fa così”. È il rischio di diventare delle “zucche vuote”, dei “funzionari di Dio” o delle “cose della religione”...
Ripenso a due momenti, che mi hanno scosso, nel mio cammino di formazione: il dibattito su alcune figure di religiosi di “frontiera” e la questione ventilata dal “modernismo” (la spaccatura tra Cristo e chiesa). Prezioso in quel caso è stato il contributo della guida spirituale e un colloquio con il mio vescovo.
Preziose sono state le esperienze pastorali “dirette” e gli anni di comunità vocazionale e seminariale, perché ho scoperto la mia povertà e ho dovuto ridimensionare le mie critiche eversive, il mio idealismo e le mie pretese entusiastiche di rinnovamento. Pensavo: “Ora arrivo io, sveglio la chiesa...”. Invece non è stato così. Non poteva essere così.
In questi anni, allora, è cresciuto il rispetto per la chiesa. Però non posso chiamarlo amore. Non mi sento di dire, come fa qualcuno, di “amare la mia chiesa”. È vero che la rispetto, che soffro per le sue fatiche e povertà, che dò volentieri il mio contributo... Però, il mio coinvolgimento è sempre un po’ distaccato. L’unico momento in cui mi sono sentito “appassionato” – appassionato in termini eccessivi, però, e angosciosi – per la mia chiesa, sono stati i primi anni della mia vita presbiterale. È come se lì avessi vissuto – ma anche subito perso – qualcosa di importante, che sto ancora cercando, ma che non riesco ancora a ritrovare.
Se è migliorato il mio rapporto con la chiesa, non si è consolidato adeguatamente il mio rapporto con Cristo. La mia fede è certamente qualcosa di essenziale. È una fede “cristiana”, nel senso che trae origine e si fonda su Gesù e sulla sua sequela, però poco e troppo poco ho atteso e consolidato il mio rapporto con Lui. Troppo l’ho trascurato in tutti questi anni. Cristo rimane sempre lo sfondo della mia vita, il “cantus firmus” per dirla con Cencini: è una presenza costante, che mi fa “compagnia” sempre. “Sto alla porta e busso”: so che mi è vicino, appena fuori della porta. Ma poche volte decido di “lasciarlo entrare”. Devo riconoscerlo: il mio amore per lui si è un po’ sbiadito. C’è, ma è un po’ invecchiato. Vorrei ringiovanirlo, ma non so come fare. In questi anni, insomma, non ho curato adeguatamente la mia dimensione spirituale. Di più quella umana: quanti incontri di carattere psicologico! Poco ho fatto per curare la mia vita spirituale. Oltre il breviario, spesso lasciato come l’ultima cosa della giornata, qualche pezzo di rosario, gli esercizi spirituali e qualche momento del gruppo di preti giovani o qualche lettura, non ho fatto molto. Restano la messa quotidiana, la messa domenicale – già più significativa – e la confessione. Ecco, questa sì ha tenuto bene. Preziosi i colloqui con il padre spirituale: mi hanno aiutato a mantenere vivo il rapporto con Dio e a conservare una certa “onestà” interiore, una coscienza sufficientemente formata e vigile…
Di grande aiuto, l’amato e odiato studio: la teologia mi ha costretto a confrontarmi con il mistero. A stargli di fronte, anche se tante volte ho l’impressione che l’ho trattato con poco rispetto. Me ne dispiaccio. Mi chiedo talvolta se lo studio non mi abbia distolto dalle relazioni con le persone. In ogni caso a qualcosa mi è servito...
Mi hanno aiutato anche le esperienze pastorali. Le visite agli anziani, le benedizioni, i gruppi, i campi scuola, l’incontro con le persone... Mi hanno fatto percepire e vivere l’amore per l’uomo del mio tempo. In queste relazioni ho sentito anche la provocazione a credere di più, a donarmi di più, a dare qualcosa di mio...
Un prete ha detto che la vecchiaia non è una questione di età. Ci sono dei preti che sono più vecchi degli anni che hanno. Mi sento un po’ così. Senza particolare entusiasmo, senza particolare gioia. Anzi, serpeggia in me un certo senso di delusione e di sconforto, come di uno che “pensava una cosa e se ne ritrova un’altra”. I discepoli di Emmaus? In una testimonianza – “esagerata” – dei primi anni di formazione dicevo che mi sembrava troppo poco occuparmi di una famiglia e portare i bambini al parco a prendere il gelato, con la moglie, alla domenica! Adesso, mi parrebbe già un ottimo risultato quello. Di tutto rispetto: un lavoro, una famiglia...
In questi anni ho fatto esperienza della mia peccabilità. Ho sbagliato e sono ricaduto, pur sapendo di sbagliare. Non disprezzo la mia storia, ma so anche di non avere particolari motivi di orgoglio. Se ce n’è uno, è proprio quello che direbbe s. Paolo: se c’è un vanto, è quello che viene dal Signore. Se nella mia storia c’è qualcosa di buono, questo viene proprio da Dio, non da me. Non è ostentazione di umiltà. È proprio una consapevolezza radicata. Una volta ho citato quel detto dei Padri, relativo a Sansone, che con una mascella d’asino sbaragliava i filistei. Il Padre della chiesa si chiedeva: “Che cosa farà mai Dio con un asino tutto intero?”. Lo trovo vero, anche oggi. Se c’è del bene, è perchè Dio vi ha agito... L’asino, però, resta asino.
Il giorno della mia ordinazione è stato molto “parco”: l’ordinazione, la prima messa, il rinfresco, il pranzo con una ventina di parenti... tutto qua e poi riposo, perché ero provato. Niente santini, niente regali particolari... solo una sottoscrizione per un’opera missionaria. No, non mi pento di questo stile. Non me ne pento proprio. Qualcuno potrà dire che non ho apprezzato il dono che mi è stato fatto... Può darsi. Comunque, è andata così. Era su mia misura.
E adesso, alle soglie dei quarant’anni, che cosa facciamo? Tornare indietro o dare l’ultimo affondo? Talvolta, avrei voglia di chiudere tutto e ritirarmi. Mi verrebbe da dire: “Prendi, Signore, questi dieci anni della mia vita, ma adesso basta”. Un po’ come Elia, nel deserto: “Non sono migliore dei miei padri...”. Vorrei avere una vita “normale”. Per fare il prete ci vuole un’altra marcia, che non so dove trovare. Io sono solo un asino, che porta il peso, ma che non traina, non spinge avanti, non ha una prospettiva per il futuro. Cammino rivolto indietro. Resisto o porto il peso, ma non ho guizzi di fantasia e idee per il futuro. Spesso ho paura del futuro. Ho paura di prendere l’iniziativa. Ho paura di non farcela.
Che fare? Devo stare qui a pensare quanto ancora prima di decidermi? Deve passare tutta la vita in attesa di vivere la mia vocazione e di decidermi per essa? Una suora una volta mi disse che vivere la vita da prete “a metà”, non ne vale la pena... Don Abbondio o fra’ Cristoforo? Don Abbondio non mi è mai piaciuto. Ho sempre tifato per fra’ Cristoforo! Ma ho come l’impressione a volte che non ce la faccio e non riesco a vivere come fra’ Cristoforo. Manzoni, alla fine, non disprezza don Abbondio, anzi in un certo senso lo redime. Tuttavia, non mi sono fatto prete per essere come don Abbondio. Devo rassegnarmi?
La domanda giusta da fare oggi è: che cosa sta cercando di dirmi il Signore attraverso tutto questo? A cosa sono chiamato oggi? In che cosa si concretizza oggi la chiamata che il Signore mi rivolge? Se c’è una speranza, se c’è una possibilità di salvezza, questa ha anche fare con una “ri-scoperta” del mio amore per Cristo. Mi pare che sia la cosa più importante. Quella più essenziale. Tuttavia, questo tornare all’amore di Cristo non può essere semplicemente un “tornare all’amore della giovinezza”. Deve essere un amore diverso, un amore nuovo, da adulti. Un amore diverso, che però abbia i tratti della radicalità, anche oggi. Una vita presbiterale sganciata da Cristo non si regge. Alla lunga (forse neanche troppo “lunga”) cede.
Se c’è possibilità di salvezza, questa va anche nella direzione dell’amore per me stesso. Il darmi fiducia. Credere in me. Darmi qualche possibilità. A me, come persona, come credente, come prete... Ma credere in me. Avere fiducia in me.
C’è anche un’altra cosa che devo prendere sul serio: la coerenza e la gestione del mio tempo. Ci sono zone d’ombra e ambiti nei quali “lascio” germogliare incoerenza e fragilità. Bisognerebbe essere sempre vigili. Sempre attenti. Sempre pronti. Sempre concentrati sull’obiettivo... Invece, ci sono regioni della mia esistenza che ogni tanto “sfuggono” e si disperdono. Questa forse è la cosa che mi preoccupa di più. Non è una cosa buona “coltivare” la fragilità, perché – paradossalmente – anche la fragilità si può “consolidare”. Mi sembra urgente imparare a prendere l’iniziativa e a non subire passivamente gli eventi: imparare ad essere creativi.
La cosa più strana, però, è che alla fine uno percepisce nel profondo di sé un immortale desiderio di vita e un incrollabile senso di fiducia. Ciò che è morto, risorgerà. Ricominciamo a camminare, allora.
lettera firmata
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