lunedì 27 agosto 2007

SULLA MESSA IN LATINO

Cara Settimana,
prima di entrare nel merito del recente motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, bisogna sfatare un equivoco: non si tratta – come è stato scritto e detto dai mezzi di comunicazione sociale – di ripristinare la messa in latino, perché nei convegni e nelle riunioni internazionali la messa di solito si celebra in latino, ma in conformità alla riforma voluta dal concilio Vaticano II. Il papa ha inteso ripristinare la messa riformata dal papa Pio V dopo il concilio di Trento. Perciò il dilemma non è «messa in latino o messa in italiano?», ma «messa secondo la riforma del concilio di Trento (1563) o messa secondo la riforma del concilio Vaticano II (1965)?».
Il nocciolo del problema sta proprio in queste due date. Il papa, nel tentativo di far rientrare lo scisma avviato dal vescovo Marcel Lefebvre dopo la chiusura del Vaticano II, consente di ripristinare la celebrazione della messa e dei sacramenti secondo il rito previsto dal concilio di Trento, presumendo di fare un salto all’indietro di ben quattrocento anni. Il motu proprio di Benedetto XVI, per rendere meno evidente questo contrasto, preferisce far riferimento al messale romano edito da Giovanni XXIII nel 1962. In realtà, papa Giovanni si limitò a fare qualche modifica di poco conto al messale rivisto per mandato di Pio V nel 1570.
Come giudicare questo provvedimento? Affronta un problema marginale destinato ad incidere ben poco nella vita della chiesa o rischia di creare divisioni e accrescere la confusione esistente?
Fra le più interessanti conquiste della cultura moderna e contemporanea dobbiamo includere la coscienza del progresso nel cammino dell’umanità e l’acquisizione del senso della storia. Anche la chiesa e le discipline teologiche hanno fatto tesoro di queste conquiste e le hanno applicate nello studio della Bibbia, nell’approfondimento del progetto di salvezza preparato da Dio per l’uomo, nella comprensione del mistero dell’incarnazione e della persona di Cristo, della chiesa e della sua missione, nel definire il rapporto della chiesa con il mondo e la società... Si tratta di acquisizioni che hanno consentito il superamento di una concezione statica e parziale dell’uomo, della società e della fede, aprendo nuovi orizzonti che è difficile descrivere in poche battute.
A partire da queste considerazioni, possiamo comprendere il grande evento di grazia del Vaticano II, indetto e avviato dal papa Giovanni XXIII e portato a compimento dal suo successore Paolo VI. A conclusione dei grandi movimenti di riforma, si hanno sempre forme di resistenza e di rifiuto. Già durante la celebrazione del Vaticano II il vescovo francese Marcel Lefebvre si era posto a capo di una minoranza di contestatori. Dopo la sua conclusione rifiutò i documenti approvati dalla maggioranza dei vescovi e firmati dal papa e diede vita ad uno scisma, incorrendo nella scomunica latae sententiae riservata a coloro che consacrano altri vescovi in aperto dissenso con il papa. Per i seguaci di Lefebvre il problema non è costituito dall’abbandono della lingua latina nella celebrazione della messa e dei sacramenti, ma dalla riforma voluta dal concilio.
Si comprende allora che il motu proprio di Benedetto XVI non possa soddisfare le richieste degli scismatici, che chiedono molto di più. Vogliono in sostanza che si cancelli il Vaticano II. Non è difficile prevedere che la celebrazione della messa tridentina offrirà lo spunto per riaffermare la concezione di una chiesa clericale e piramidale, nella quale i laici sono esecutori materiali delle direttive emanate dalla gerarchia, di un culto celebrato dal vescovo o dal presbitero con la partecipazione passiva degli altri fedeli, che si trovano nell’impossibilità di comprendere e di partecipare, di una chiesa chiusa in se stessa, che rifiuta il dialogo e si pone dinanzi alla società in un atteggiamento di condanna e di conquista.
Qualche altra osservazione di non poca importanza va fatta al documento di Benedetto XVI. Egli, nel permettere la celebrazione della messa secondo il rito riformato dal concilio di Trento, si rivolge direttamente ai fedeli e ai presbiteri, mettendo in ombra il ruolo dei vescovi e dei parroci. Non c’è il rischio di favorire contrapposizioni e fratture all’interno della comunità cristiana? Inoltre, egli si serve di un motu proprio (cioè di un provvedimento che si fonda sulla personale iniziativa e responsabilità del papa) per mettere in ombra una riforma voluta da un concilio ecumenico, organismo ecclesiale al più alto livello, dove tutto il collegio dei vescovi discute e decide. Non sarebbe stato più corretto coinvolgere tutti i vescovi nella discussione e nella decisione, invece di limitarsi a informarli quando tutto era stato stabilito?
L’unico aspetto positivo che si può intravedere da un provvedimento che ha provocato amarezza e delusione deriva dal disinteresse che presumibilmente avranno i più per le “novità” introdotte dal papa. Quanti saranno i fedeli che vorranno servirsi delle “aperture” di Benedetto XVI? Troveranno dei sacerdoti disponibili ad accogliere le loro richieste? Visto che la lettera indirizzata dal papa ai vescovi prevede una verifica fra tre anni, si deve avere pazienza e fiducia nello Spirito per costatare se ci sarà la ricezione necessaria, perché un provvedimento emanato dall’autorità diventi regola di vita per tutti i fedeli cristiani.

lettera firmata

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