lunedì 3 dicembre 2007

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA: DOVE SONO I LAICI?

Cara Settimana,
vorrei ringraziare per lo sforzo della rivista nello stimolare, pur nella prospettiva che le è propria, la formazione di un tipo di cittadino cristiano sempre più adulto e pensante.
In particolare, alcuni recenti articoli mi hanno sollecitato a meglio individuare alcuni punti nevralgici su cui chiedo, se possibile, una vostra attenzione. Mi riferisco agli interventi apparsi sui numeri 38/07 (Rosati: Come essere cittadini cristiani e Pizzighini: lettera pastorale dell’arcivescovo di Lecce, Ruppi dal titolo Nel solco del concilio. Un laicato più adulto), 39/07 (Dalla Zuanna: Un bene comune da costruire) e 41/07 (Valentini: Pietro Scoppola cristiano a modo suo).
Sono scritti che, proprio perché nati da sensibilità e ambiti diversi tra loro, a me pare riflettano bene una stagione “liquida” e alquanto “depressa”: un tempo delicato di stallo evidente per un cattolicesimo italiano confuso e balbettante nel prendere la parola sui temi della cittadinanza e del sociale. Dico subito che il dato che accomuna questi “articoli-finestre” di pastorale sociale mi sembra frutto di un clima culturale irrigidito e poco propenso a dare spazio e slancio a laici cristiani capaci di far fronte alla post-modernità e di rischiare nella complessità sociale.

Il primo motivo mi sembra da ricercarsi nella debolezza intrinseca alla pur nobile e doverosa operazione di recupero del concilio Vaticano II. Tale debolezza mi sembra data dal fatto che proprio i preti e i laici, che dovrebbero guidare le comunità in questa operazione di ricognizione, non hanno loro per primi assimilato da protagonisti, se non a livello astratto o di rimbalzo, le grandi intuizioni conciliari e quindi possono mostrare solo opachi modelli di una sua attuazione. Negli Atti degli apostoli vediamo che la trasmissione degli eventi di Gesù di Nazaret diventano veri e propri annunci nello Spirito, offerti da testimoni impegnati a dare la vita nella sequela: in genere, non mi sembrano esistere questi presupposti nelle attuali riflessioni che spesso si esauriscono nell’esposizione di slogan quali “chiesa tra le case degli uomini”, “anima del mondo”, “santità laicale”, “corresponsabilità”, “vocazione secolare”, “unità di fede e vita”. I battezzati, per credere, necessitano di testimoni del Cristo totale e non di divulgatori di eventi ecclesiali. Si assiste così all’utilizzazione passiva di un metodo gratificante e consolatorio di ripetizione, che fa circolare un patrimonio di idee ma che si condanna da solo alla sterilità per mancanza di vera mediazione.

Un secondo motivo di blocco del laicato credente mi pare sia frutto dell’eccesso di supplenza magisteriale in tema di dottrina sociale. Dobbiamo essere grati ai pontefici per le spinte date alla politica alta dalle grandi encicliche sui temi cruciali della convivenza, come dobbiamo valutare positivamente gli sforzi della Conferenza episcopale italiana, in questi anni, per orientare e svegliare la coscienza del popolo cristiano. Ora, però, c’è bisogno attivare una stagione popolare di evangelizzazione e di crescita dei christifideles laici nella teologia morale, con lo scopo di creare un vivaio da cui emergano giovani adulti credibili e pronti a spendersi nell’agone politico. Il protagonismo dei cattolici mi sembra si sia infilato nella logica del gruppo di pressione e degli esperti capaci di argomentare razionalmente enunciati e valori non negoziabili: un livello che rischia di avallare un volto di chiesa istituzionale invadente, perché noi laici viviamo di rendita col metodo della traduzione dei principi. I fedeli più zelanti cercano così un consenso ecclesiastico preventivo e la dottrina sociale finisce per diventare una specie di fondo perduto dal quale cercare soluzioni: una prassi che sta generando una pigrizia intellettuale proprio dei laici ai quali spetta la ricerca di soluzioni creative sulle contingenze della politica.

Un ultimo motivo di preoccupazione è, a mio avviso, l’evidente immaturità culturale delle nostre attuali comunità cristiane. In questi anni c’è stata senz’altro un’evoluzione delle offerte formative, ma per lo più con logiche auto-referenziali e di corto respiro. Non ha certo aiutato l’evoluzione culturale dei credenti, soprattutto i più giovani, quell’improvvido attestarsi, anche di gruppi e movimenti, su un vero e proprio “bipolarismo” dei valori (il partito dei cattolici per la vita contro il partito dei cattolici per la pace), che finalmente si è iniziato a mettere in discussione durante la recente Settimana Sociale di Pisa.
Diversi operatori pastorali ormai intuiscono la necessità di un salto di qualità per attivare percorsi comunitari più concreti e coraggiosi (e quindi, per necessità, più conflittuali), nella direzione della formazione della coscienza socio-politica dei praticanti e al fine di rendere tutti (a iniziare dai preti!) più capaci di analisi e di discernimento.
Una cultura che si riduce all’esposizione della dottrina difficilmente imbocca la strada del metodo dell’attualizzazione, il più difficile e impegnativo. Oltre che, giustamente, impegnato a non farsi togliere il diritto di parola e a trovare spazi dove poter esprimere forte e democratica contestazione, il cittadino cristiano del futuro deve essere meglio attrezzato nelle proprie capacità di distinzione, mediazione e comprensione delle posizioni e quindi delle ipotesi praticabili in campo sociale e politico, a tutti i livelli.
Come dice il noto studioso Giorgio Campanini, il magistero sociale della chiesa «non ha bisogno di ripetitori e diffida istintivamente dei traduttori; ha bisogno di cristiani creativi che sappiano “obbedire in piedi” e assumere fino in fondo il rischio della decisione. La nuova stagione della dottrina sociale della chiesa non sarà né quella dei professori né quella dei “manovali del sociale”, ma quella dei grandi mediatori fra parola di Dio e storia dell’uomo» (La dottrina sociale della chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, EDB 2007, pag. 16).

Proprio sul versante di parola di Dio e lettura profetica della storia mi appare urgente suscitare nuovi luoghi in cui i semplici laici credenti si formino una competenza specifica e sappiano dire qualcosa di sensato: forse così si può uscire dal tunnel di un’esegesi biblica, e quindi di una lettura comunitaria della Bibbia, asettica e spiritualista. Mi sembra, ormai, che le persone affollino soprattutto quegli incontri in cui testimoni sanno illuminare le domande della vita con le sacre Scritture.
Mi pare, allora, un segno di debolezza che, proprio sui nodi più delicati della convivenza (inizio e fine della vita, welfare, guerra e pace, famiglia, educazione, accoglienza dello straniero, lotta alle povertà), il vangelo finisca nei nostri ambienti per essere affidato a specialisti e usato come pezza d’appoggio del dibattito sui principi-valori, mentre dovrebbe essere il grembo in cui far continuamente rinascere e crescere il sogno di Dio per un mondo più giusto e fraterno.
Il concilio Vaticano II è stata una pentecoste moderna, perché la centralità della Parola e di Gesù luce dei popoli (Dei Verbum e Lumen gentium), ha fatto rifiorire un’attenzione all’umanesimo integrale e al personalismo comunitario (Gaudium et spes).
Confesso che mi spaventa un pensiero sociale cristiano, dal linguaggio cattedratico, che finisce per attestarsi sulla difesa di interessi borghesi e neo-corporativi, remando suo malgrado nella direzione di quella antipolitica che sta corrodendo la democrazia e sta spegnendo la speranza delle generazioni più giovani. Abbiamo ricevuto per grazia i segnali indicatori che ci consentono di dirigerci verso il Regno: a noi sta il dovere di offrirli a tutte le persone di buona volontà per costruire insieme le tappe del cammino.

lettera firmata (BO)

Nessun commento: