Cara Settimana,
mi sembra importante riconoscere che, nella scelta celibataria del prete, c’è un inevitabile, conseguente “senso di solitudine” che va accettato, sofferto e offerto. Un senso di solitudine che consegue, di tutta logica, alla rinuncia a quel “adiutorium simile sibi” che la stessa natura umana – così come era uscita dalle mani del Creatore – “naturalmente” esigeva, anche dentro i succedanei di un paradiso terrestre. E lui, il Creatore – come ricorda la Genesi – riconosce e afferma che «non è bene che l’uomo sia solo». Trovo quindi senz’altro utile e necessario valorizzare – come giustamente si raccomanda – i preziosi aiuti che una vita comunitaria, l’amicizia fra preti, il legame sacramentale con il presbiterio ecc… possono offrire per sostenere questa inevitabile “solitudine” del prete. A condizione che sia chiaro che la nostra scelta celibataria ci fa mancare quel rapporto profondo di vita che fa dei due “quasi una sola carne” – e non mi riferisco primariamente alle fatiche conseguenti ad una vita casta – consentendo ai due di non affrontare da soli la vita.
Ritengo, cioè, che una certa sofferta “solitudine” rientra nella condizione celibataria in quanto ogni prete – come ogni altro normale essere umano – sentirebbe anche il bisogno di un tipo di relazione che solo la vita di coppia può offrire e di cui probabilmente avvertirà sempre la mancanza. Soprattutto in qualche momento della vita.
Ritengo che né il carisma celibatario con la sua grazia propria, né l’amore sponsale con Dio cancellino questo bisogno e questa umanissima nostalgia. Se mai, costituisce un motivo aggiunto per una spiritualità di relazione delicata e forte con Dio e l’accettazione di condividere nella propria carne le tante sofferte solitudini che ci sono oggi nella società. Anche all’interno della coppia.
don Fernando Pavanello
Breda di Piave (TV)
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