giovedì 1 marzo 2007

Chiesa: non avere paura di comunicare!

Cara Settimana,
prendo spunto per le mie riflessioni dalla lettera firmata “Politica, questioni etiche e implicazioni pastorali” pubblicata sul vostro settimanale l’11.2.2007. Sono d’accordo e sottoscrivo, escluse poche particolarità. Ma aggiungo una nota che non riguarda solo un dettaglio secondario ma che, a mio parere, è sintomo di una situazione generale di importanza notevole.
Il fatto che si tratti di una “lettera firmata” mi sembra il sintomo di una malattia.

a) Il sintomo. A mio parere la cosa mette in evidenza il “nicodemismo” imperante nella situazione ecclesiale non solo italiana. Non importa sapere chi sia il firmatario non firmante, ma si ripete troppe volte che all’interno della chiesa, in alto e in basso, spesso si dissenta a voce bassa, in privato, mentre non si ha il coraggio di prendere la parola in pubblico, in consigli pastorali, presbiterali o episcopali, in convegni o in assemblee. Credo che ognuno debba assumersi la propria responsabilità all’interno della chiesa.

b) La malattia. La cosa mette in luce la condizione di non comunicazione nella chiesa. Nel 1991 su Il Regno si parlava di uno scisma strisciante fra il magistero e la base della chiesa (diversi anni dopo ne avrebbe parlato anche il prof. Prini). Più recentemente si è parlato del processo di “liofilizzazione della fede” invalso con il pontificato di Giovanni Paolo II. Di fatto l’autorità ha avocato a sé la soluzione di molte situazioni, chiudendosi alla comunione ecclesiale. Con – tra l’altro – il risultato che il muro di incenso degli “uomini del sì” (un episcopato preso in larga maggioranza tra vicari episcopali e rettori), senza il coraggio dell’“oltre” come intus-legentia di quanto sta avvenendo (ad es., il problema delle convivenze era rilevante già dieci anni fa), ha impedito una visione chiara e realistica e ha mortificato il senso di corresponsabilità. L’“episkopein” nel vangelo di Luca indica la “visita di Dio” prima ancora del ruolo di supervisione.
L’atteggiamento sopra ricordato ha portato a non valorizzare i laici e, se lo si è fatto, talora sono stati cooptati quelli più clericali dei preti. Da qui viene anche il senso di non rispetto degli uomini politici nella loro pesante e difficile responsabilità, che andrebbe aiutata e non appesantita ulteriormente, anche ripensando al valore della riflessione di Todorov sulla “tentazione del bene”, cioè sul fatto che, tendendo al massimo, si possono costruire mostri storici. In verità, la situazione cristiana non è utopica (ciò porterebbe a dire “bello, impossibile”), ma è escatologica, cioè crede nella pienezza della storia e perciò va avanti con la tenacia faticosa della “prolessi”, cioè della volontà di atti parziali e poveri, che però sono reali anticipazioni della pienezza finale.
Inoltre ora è possibile constatare i danni del “ricentraggio”, che ha diminuito la presa di responsabilità dei diversi ordini nella chiesa.
Infine, va detto che tutto questo sistema ha portato anche una censura parziale. Infatti, mentre si sono fatti ponti d’oro per il lefebvriani, sono state fatte tacere la teologia della liberazione e la teologia delle religioni. Si è avuta anche una autocensura che ha portato a uno svuotamento della presenza della teologia, che è uno dei modi nei quali scorre il sangue vivo della chiesa, per fare memoriale non solo con la fede che vive la liturgia, ma anche con la fede che vive in condizione di scienza.

Per puntualizzare la situazione attuale, vista dal mio punto di osservazione, vorrei aggiungere qualche altra nota:
1) Rimanendo vero quello che è scritto nella lettera apparsa su Settimana, è anche vero che occorre fare attenzione a quanti, pur non essendo praticanti, sentono il beneficio della presenza etica della chiesa (non risolviamo le cose con le battute facili tipo “teodem” o “atei devoti”; lasciamoli alla volgarità degli “spettacoli di chiacchiera”). Giungono, infatti, alla comunità voci di persone sofferenti e preoccupate, che nella loro laicità smagata guardano ai valori annunziati dalla chiesa spesso in solitudine.
2) Non si può dimenticare che oggi i problemi vengono anche da e in una cultura di tipo secolaristico, per cui rispondere con immediatezza può portare a dei cortocircuiti logici e teologico-pastorali. Di questo a volte forse non c’è coscienza adeguata, non solo negli integralisti, ma anche in coloro che vivono l’accoglienza. Occorre, infatti, tener di conto il confine tra accoglienza e complicità (è una grossa fatica, ma bisogna portare insieme il peso della debolezza e del peccato, perché il caso umano è serio e serio è il caso umano-divino ).
3) I comandamenti sono “dieci parole”, senza selezione. Noi abbiamo da portare il peso e la gloria, la luce e la fedeltà della Scrittura e della tradizione (= consegna dell’esperienza spirituale), nella loro verità. Diversamente si segue un metodo incongruente, come il non fare parola su una proposta di legge che prevedeva l’introduzione della tortura nelle inchieste giudiziarie (era cosa non attinente alla morale?); o come il non alzare la voce sulla legge del falso in bilancio e, al contrario, appoggiare la presenza italiana in Iraq (chi è più morale: un governo che porta a casa le truppe dall’Iraq o un vescovo che dice “noi resteremo”?).
E i poveri? Chi ha messo a tema lucido ed esplicito l’esistenza in Italia di due milioni di anziani con 400 euro al mese di pensione?
Con la volontà di camminare insieme.

Paolo Giannoni,
eremo di Mosciano (FI)

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