Quella non misericordia di fronte alla morte
Cara Settimana,
quest'anno ci siamo preparati al Natale con il sottofondo del “caso Welby” e, visto che niente avviene a caso, è perlomeno singolare tutto il dibattito sulla vita e sul suo valore proprio a ridosso della festa della vita che nasce.
Non sono in grado di dare un lettura teologicamente corretta alla vicenda, né la mia preparazione dottrinale è tale da poter pontificare su vita, eutanasia e accanimento terapeutico. Ho però appreso con disagio la posizione di rifiuto della chiesa. Capisco la strumentalizzazione, capisco che bisogna ribadire con chiarezza la difesa della vita sempre, ma non comprendo la non misericordia davanti alla morte.
Una sorta di condanna ad oltranza, me la sono sentita quasi addosso, quasi mia. Io non sono certa di quale sarebbe la mia scelta nella situazione di quell'uomo martoriato dal dolore. Non ha assunto veleni, ha solo chiesto che smettessero di curarlo. Non sono convinta fino in fondo che questo sia un attentato alla vita. Certo, io non avrei fatto una battaglia mediatica come quella scelta da Welby, forse la scelta sarebbe stata più intima e silenziosa, ma sono combattuta. Non perché non accetti il dolore. Anzi credo di portare i miei mali con sufficiente tranquillità, ma davanti agli estremi macchinari rimango sempre perplessa.
La questione non è semplice, ma quello che proprio non comprendo è l’aver messo insieme peccato e peccatore, come è stato in quei giorni. Il Bambino di Betlemme, così indifeso e così potente, ci aiuti a comprendere e a ben comportarci davanti ad ogni vita. Non solo a quelle messe sotto la luce delle telecamere.
Con affetto,
Aurora Becheri
venerdì 12 gennaio 2007
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