lunedì 29 gennaio 2007

COSA C’È DIETRO LA RICHIESTA DI TORNARE AL MESSALE DI SAN PIO V?

La liturgia del Vaticano II
tra nostalgie e concessioni


Caro direttore,
ho molto apprezzato, nel silenzio un po' troppo assordante ed eloquente che circonda la questione circa il "ritorno della messa in latino", la lettera di Sebastiano Dho, vescovo di Alba (cf. Sett. n. 44/06, p. 2). L'ho molto apprezzata per la pacatezza e per l'equilibrio.
A proposito ti offro, anch'io, alcune considerazioni, molto personali e perciò opinabili.

1. Il latino non è mai scomparso nell'uso ecclesiastico. È e rimane la lingua ufficiale della chiesa. I documenti importanti sono ancora tutti redatti nella lingua di Cicerone. Il problema oggi è che, per i più, la lingua latina, pur bellissima, nobilissima ed eccellente, è assolutamente ignota e sconosciuta. Quanto alla messa in latino, chi ne è nostalgico o estimatore può partecipare ad una liturgia solenne in San Pietro, e si godrà la messa in latino, ma naturalmente quella frutto del rinnovamento voluto dal Vaticano II e diventata normativa per tutta la chiesa per volontà di Paolo VI.
La messa in latino, dunque, non è mai scomparsa.

2. Diverso è il discorso concernente la messa in latino voluta pervicacemente e senza molto spirito ecclesiale dai tradizionalisti, tanto per capirci dai lefebvriani. Si tratta – come tutti sanno – della messa di papa san Pio V. Il quale, tra l'altro, impetuoso e decisionista qual era, introdusse la sua riforma liturgica nella chiesa con ben altri metodi, mezzi e strumenti che non Paolo VI, il quale usò paziente lungimiranza, confidando più nella forza del convincimento che nel convincimento della forza.

3. Ma, se ho capito bene, il ritorno alla messa in latino – quella di san Pio V – non è che una strategia strumentale; la messa viene usata come un grimaldello per colpire ben altri obiettivi. Bisogna allora vedere e capire cosa ci sta dietro, cosa si vuole colpire. Non ci sta forse il rifiuto del Vaticano II? Non ci sta forse, in particolare, il ripudio e la condanna di alcuni documenti, precisamente quelli sull'ecumenismo, sulla libertà religiosa, sul dialogo interreligioso?
Il problema, allora, non è tanto di riti, cioè di azione liturgica, quanto di teologia, di ecclesiologia, forse anche di politica.

4. Tuttavia, in questo caso, ancora di più, vale l'antico adagio lex orandi lex credendi, cioè fede e preghiera sono inseparabili: la regola della preghiera è la regola della fede; la comunione orante nasce dalla e fluisce nella comunione credente, cioè ecclesiale.
La liturgia del Vaticano II esprime la fede della chiesa, che è la fede di sempre, ma presentata – come affermava il beato Giovanni XXIII convocando il concilio – in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca. La liturgia è fede in atto, la preghiera liturgica è la traduzione della fede in atteggiamento e contenuto orante. Dalla fede alla preghiera e dalla preghiera alla fede c'è un insopprimibile processo e dinamismo di circolarità. Non basta allora pregare, occorre vedere quali contenuti e quale ecclesialità esprime quella preghiera.

5. Attenzione poi a non sottovalutare il rito. Non è vero che un rito vale l'altro.
Il rito dice e suppone una precisa comunità che celebra e che prega, perciò la liturgia non è innocua; solo una liturgia stanca, afasica, sciatta, spossata, ripetitiva, routinaria e morta non dice nulla, ma una liturgia viva, partecipata e consapevole è veramente culmen et fons con tutto ciò che ne consegue; una liturgia autentica è veramente epifania della chiesa e manifestazione piena della sua missione e identità. La liturgia è, in verità, uno straordinario veicolo e mezzo di evangelizzazione, comunicazione e trasmissione della fede; di più, costruisce ed edifica la chiesa. Ma quale chiesa?

6. Non vorrei che il tentativo lodevole ed esemplare di superare lacerazioni, di ricomporre comunione, di fatto non ottenesse l'effetto opposto, cioè dividesse e lacerasse ancora di più il fragile e delicato tessuto ecclesiale. Mi pare che i vescovi francesi, quelli che si sono espressi su questo versante con più coraggio e audacia, paventino questo esito negativo. Invece di unire, si rischia di dividere ancora di più. E l'unità e la comunione della chiesa e nella chiesa, come ci insegna la vivente e sana tradizione della chiesa, non sono valori da salvaguardare e tutelare?

7. Il mio auspicio è che il concilio Vaticano II, che è la grande grazia di cui la chiesa ha beneficiato nel secolo XX, sia e continui ad essere per molto tempo una bussola sicura e autorevole per orientarci nel secolo che si apre, come ha affermato Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte 57. Anche il cammino della chiesa nel terzo millennio sarà concilare? Sì, se la la rotta della chiesa non sarà definita da altro che dalla dottrina conciliare e dallo Spirito, che il concilio ha ispirato e guidato.

8. Mi piacerebbe conoscere, infine, a questo riguardo, anche il parere di altri liturgisti e anche teologi ben più autorevoli e prestigiosi di me, e (perché no?) anche quello di qualche vescovo, oltre al già citato mons. Dho.
Grazie per l'ospitalità.

don Pier Renzo Rulfo
parroco di Pianfei (CN)

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