venerdì 20 aprile 2007

QUANTO È VICINA LA CHIESA ALLE PERSONE IN DIFFICOLTÀ

Caro direttore,
a qualcuno parrà strano che una persona attiva nell’assistenza ai separati e divorziati si occupi degli elementi fondanti di quei sistemi, i cui cocci è generalmente chiamato a raccogliere e ahimè! solo rarissime volte, nei limiti delle umane possibilità, a ricomporre.
Quale interesse recondito avrà mai, si domanderà qualcuno, per intervenire nell’attuale appassionato dibattito sui diritti delle convivenze, sui patti che vi intercorrono, sull’atteggiamento della chiesa, o meglio, delle sue diverse componenti: i sacerdoti, le gerarchie ecclesiastiche, i fedeli. In ognuna di esse sono chiaramente riconoscibili gli ultra-ortodossi, i moderati e i progressisti.
Ma sono i vertici della chiesa a determinarne l’atteggiamento nei confronti delle questioni più rilevanti, e io non posso fare a meno di notare una certa discrepanza tra coloro i quali, nella chiesa, sono immersi nella realtà quotidiana e nei problemi della gente comune, e quelli che li percepiscono mediati dall’astrazione e dalla teorizzazione teologica, e per forza di cose sono meno disponibili a transigere sulle questioni di principio. Così però correndo il rischio di distaccarsi a poco a poco dalla realtà in evoluzione e di perdere infine il contatto misericordioso con le sofferenze, stigmatizzando i sofferenti anziché seguire l’esempio di Gesù quando si recò al pozzo di Sicar, tra genti reputate inferiori, non degne, rimanendo a parlare nell’ora più calda sotto il sole a picco con quella donna dai cinque mariti, disprezzata da tutti, da tutti condannata.
La chiesa non tema che i fedeli non capiscano. Moltissimi tra loro sono infatti i divorziati, i separati, gli omosessuali, i diversi e i reietti di ogni genere. Reietti dai sistemi, reietti dalle convenzioni, reietti dalle costrizioni di appartenenza ai sistemi stessi. Ma non respinti dalle braccia del Signore Iddio, che essi vedono nella chiesa e nella misericordia.
Braccia non atte a respingere, ad emarginare, a demonizzare, bensì ad accogliere, a rendere partecipi, a santificare.
Braccia che portano in palmo di mano quanto di inestimabile è racchiuso in ogni cuore che batte, nessuno escluso, e che rischiano invece di soffocarlo, levando inesorabilmente gli indici in stereotipati e sempre meno condivisibili gesti di condanna.
Credo che dalle mie parole chiunque abbia capito che anch’io sono uno di questi fedeli che vorrebbero sentirsi abbracciati, non discriminati in conseguenza di un dolore subìto, come lo è il crollo di un’unione con il proprio partner, e trovando poi l’amore risposandosi ha commesso “l’errore” di non rimanere solo, oppure di una altrettanto dolorosamente vissuta diversità di cui non hanno colpa.
Vorrei chiedere alla chiesa da credente fedele e praticante convinto, religiosamente consapevole e attivo, di rendersi disponibile a recarsi, come fece Gesù, in Galilea, passando per le terre dei derelitti, dei negletti, e lì accettando di parlare e risvegliare il buono che c’è anche nei loro cuori.
Lasciarli in un ghetto con per di più il peso di una condanna non mi sembra, in tutta coscienza, l’idea migliore.

Elio Cirimbelli
direttore del Centro A.S.Di. (BZ)

Rispondiamo alla sua lettera, riprendendo alcuni stralci del discorso che l’arcivescovo di Milano, il card. Tettamanzi, ha rivolto al Consiglio pastorale diocesano lo scorso 17 febbraio sul tema della famiglia e delle unioni di fatto. Ci sembrano parole illuminanti per uno stile di chiesa che vuole essere vicina alle sofferenze delle persone.
«La mia prima preoccupazione di vescovo – esordiva il card. Tettamanzi – sono le coppie e le famiglie cristiane, quelle fondate e sostenute dal sacramento del matrimonio, e dunque con la grazia e la responsabilità di vivere il matrimonio e la famiglia secondo il disegno di Dio e, proprio per questo, secondo le esigenze più profonde e autentiche del cuore dell’uomo e della donna…
Questa prima preoccupazione sprigiona uno sguardo attento e un profondo interesse anche per tutte le altre situazioni di coppia, sia che si tratti di famiglie nate da un vincolo matrimoniale civile o religioso non cristiano, sia che si tratti di realtà di “convivenza”. Al riguardo non dobbiamo dimenticare che la grazia di Dio si fa presente e operante in tutte le situazioni umane. Lo ricordavo nel percorso pastorale diocesano anche a proposito di realtà nate successivamente al fallimento del matrimonio, per le quali occorre saper “valorizzare quegli elementi umani ed evangelici che possono comunque essere presenti anche nelle unioni e nelle famiglie che spesso nascono da un’esperienza di separazione o di divorzio” (L’amore di Dio è in mezzo a noi, n. 41).
Queste esperienze di convivenze toccano non soltanto le singole persone coinvolte, ma anche la stessa società nel suo complesso: rivestono, infatti, un’innegabile dimensione sociale, ma prima ancora sono oggetto di una cura pastorale della chiesa attenta alla persona e alla società secondo il disegno di Dio. Prima di una questione politica, queste esperienze di relazione tra le persone interessano la chiesa e la sua missione di annuncio e di testimonianza del “vangelo dell’amore”».
Il card. Tettamanzi proseguiva il suo discorso affrontando il dibattito politico in corso in Italia sulla regolamentazione giuridica delle unioni di fatto. Egli ricordava che l’impegno “politico” «richiede una paziente e coraggiosa opera di confronto veritiero… in una prospettiva di autentico servizio alla persona e alla società».
Dopo aver dichiarato che occorre «rilanciare con convinzione e forza l’inscindibile legame tra verità e carità, tra ideale normativo e cammino esistenziale verso di esso», il porporato terminava così il suo intervento: «Permettetemi di concludere queste riflessioni, ritornando a ribadire la necessità di un’azione pastorale verso i conviventi. È un campo dove la chiesa è chiamata tutta intera ad agire in prima persona, senza sottrarsi alle complessità attuali e alla fatica di cercare forme nuove di vicinanza e di sostegno. Il Vangelo è parola di speranza per l’oggi, per ogni uomo e donna che vive in questo mondo che cambia: questa deve essere la nostra ferma e gioiosa convinzione.
Vorrei semplicemente rileggere con voi quanto scrivevo in proposito nel percorso pastorale: “Un numero sempre crescente di persone, pur provenendo dalle comunità cristiane, non sceglie l’istituzione del matrimonio per dire e per vivere il proprio amore. Alcuni, per i motivi più diversi, legati alla loro storia o alle loro paure, agli esempi negativi vissuti, alle loro convinzioni civili o religiose, alla precarietà delle situazioni di vita o alle condizioni economiche, all’insicurezza reciproca o all’incertezza sul futuro, preferiscono non celebrare in chiesa il loro rapporto affettivo, ma scelgono o il semplice matrimonio civile o la convivenza come espressione del loro amore. Queste condizioni di vita non possono lasciare indifferente e assente la comunità cristiana. Essa si sente obbligata ad interrogarsi su come essere più vicina a queste persone e a queste situazioni, sia nel loro sorgere come nel loro evolversi lungo gli anni. Sì, essere più vicina nel senso di offrire, anzitutto, esempi semplici e convincenti di una vita coniugale secondo verità e, insieme, di condividere con amore paziente e incoraggiante un cammino verso la verità dell’amore, la sola che libera e dona autentica felicità” (L’amore di Dio è in mezzo a noi, n. 34)».
Ci sembra di percepire in queste parole un approccio pastorale sincero verso le situazioni da lei richiamate, che richiedono l’atteggiamento del “prendersi cura”.

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