Cara Settimana,
all’indomani della presentazione del disegno di legge sulle coppie di fatto non posso nascondere di essere profondamente addolorata. Quello che provo, con tutta franchezza, è una sensazione di disorientamento che certo non aiuta a porsi in un atteggiamento di riflessione serena e seria sull’argomento. Prendere atto della necessità di un provvedimento del genere da parte del governo è un’ulteriore conferma dell’indebolimento della famiglia tradizionale.
Credo ancora di più quello che abbiamo sempre affermato nell’Associazione, all’interno del Forum nazionale delle famiglie e nei nostri dibattiti pubblici aperti alla cittadinanza, che la famiglia, cioè, sia stata per lunghi anni dimenticata: poche le politiche familiari attuate, scarsi e inadeguati i servizi offerti. Quel poco che si è fatto è stato confinato nell’ambito dell’assistenzialismo… dando un quadro già precario di una famiglia “malata” o “quasi morente”. Poco si è parlato e si è fatto per le famiglie eroiche che, nella normalità di tutti i giorni, hanno tirato su generazioni, hanno accolto bambini con l’affidamento e l’adozione, hanno prestato cure ai malati, hanno accolto e vissuto l’handicap o i disagi psichici dei propri figli, non hanno abbandonato gli anziani scegliendo di accompagnarli fino alla morte...
Ancora una volta la famiglia sembra abbandonata dal legislatore. Le questioni che riguardano le politiche familiari non sembrano essere tra le priorità e non creano nessuna risonanza mediatica nell’opinione pubblica.
Purtroppo, gli animi accesi portano il dibattito non tanto sullo stato di salute e di tenuta delle nostre famiglie, ma piuttosto sull’altra importante questione delle cosiddette unioni civili.
Penso che i toni accesi di certe indignazioni sul riconoscimento delle coppie di fatto non ci aiutino a mantenere una certa lucidità sull’argomento. La società di oggi è molto complessa, le scelte sono sempre più individuali e a volte anche vissute in solitudine. Di fronte a tutto ciò che investe la persona, dovremmo riscoprire un atteggiamento di religioso rispetto che valuta le situazioni, ma evita di generalizzare in modo superficiale e si esime dal dare giudizi.
Credo che la vera minaccia per il matrimonio e la famiglia non siano tanto le convivenze, ma piuttosto le separazioni e i divorzi che sono diventati tollerati e praticati tanto da rientrare nella mentalità dei più e sono ormai costume sociale. Solo nella nostra città, a Prato, ci sono circa 1.200 separazioni l’anno. Al tribunale di Prato sono tre i giorni dedicati alla materia: il lunedì per la “trattazione delle cause”, il mercoledì e il venerdì per la comparizione dei coniugi nel tentativo di conciliazione e sottoscrizione del verbale nel caso di mancata conciliazione.
Ho lavorato con le coppie di fidanzati e di giovani sposi per circa 15 anni e ho tenuto insiemi ad altri per alcuni anni la segreteria nazionale del Movimento familiare cristiano. Devo dire che negli ultimi anni ho partecipato al matrimonio civile e/o religioso di diverse coppie di conviventi. È vero che la loro scelta di convivenza si ispirava a uno stile di vita più o meno condivisibile, ma per alcuni era dettata anche da problemi economici per poter meglio sfuggire agli appuntamenti fiscali, vista la precarietà del lavoro, l’impossibilità di acquistare una nuova casa... A volte tempi lunghi di attesa prima del matrimonio dovuti a ritmi di studio, a impegni di assistenza nei confronti di anziani genitori e ad altre situazioni, portano a scegliere la convivenza. Le convivenze di oggi non credo siano tutte di proposito “alternative” al matrimonio, anzi spesso possono diventare un preludio al matrimonio stesso. Sempre più spesso le convivenze sono la conseguenza di separazioni o divorzi fatti o subiti.
Il disegno di legge sembra rispondere al problema di dover in qualche modo regolamentare la confusione e il disagio sociale ed economico che si è creato nella pratica di divorzi e separazioni. Chi governa non può ignorare quello che c’è. La funzione di arginare e contenere certi fenomeni di disagio, a mio parere, è prioritaria rispetto a una “certa” funzione morale che potremmo attribuire al potere di una legge. A volte si tratta davvero di tutelare la persona debole che, riaccompagnandosi, non ha nessuna garanzia di futuro. Penso a tante donne separate, con figli, in attesa di divorzio, abbandonate dal marito ed esposte ai rischi di una convivenza che non le tutela. Penso alle coppie di vedovi, a fratelli e sorelle, che vedono riconosciuto un legame che ha alleviato le loro solitudini.
Che questa legge crei anche un’opportunità per le coppie omosessuali è inevitabile, perché tra le convivenze c’è anche questo tipo di convivenza, discutibile sì, ma da rispettare. Considero al riguardo molto più pericoloso, e decisamente da riprovare, il fatto di aver permesso che si istituissero i registri delle unioni civili per questi tipi di coppie. Prestare il fianco al rischio di celebrazioni con tanto di atti ufficiali lo trovo alquanto ideologico e propagandistico, mentre trovo un’accortezza intelligente fare dichiarazioni di convivenza non congiunte – come prevede il disegno di legge –. Così non si dà adito a celebrazioni. Perché ad essere celebrato deve essere solo il matrimonio religioso o civile.
Il dibattito su questo disegno di legge dovrebbe diventare per tutti uno stimolo per impegnarsi nei confronti della famiglia. Dovrebbe aiutarci a creare i presupposti per una maggiore tenuta dei legami familiari, magari investendo più energie nei percorsi di preparazione al matrimonio, dando maggior sostegno alla funzione genitoriale, più agevolazioni fiscali e riconoscimenti economici alle famiglie.
Alla chiesa di oggi è richiesta una grande capacità di dialogare con le persone per poter ancora evangelizzare. Fare solo affermazioni di principio spesso allontana e aumenta la distanza tra chi evangelizza e chi desidera l’annuncio evangelico.
Occorre capire senza per questo giustificare, perdonare affermando la verità in cui si crede. Penso che bisogna riscoprire il valore di una testimonianza di vita che faccia presa sull’altro e sia più forte delle idee e dei principi che spesso proclamiamo. Diffido di coloro che difendono strenuamente la famiglia vivendo storie personali di separazioni o di più matrimoni. Non li sento credibili. Molte coppie di separati riaccompagnati stanno sulle soglie delle nostre chiese ad aspettare un gesto d’accoglienza. Non vorrei che per la troppa insistenza sulle affermazioni di principio perdessimo l’occasione dell’incontro vero con la persona. La pastorale spesso interroga la dottrina, ma nel momento in cui pastorale e dottrina dialogano tra loro allora si aprono cammini di verità nell’amore e si svela il valore pregnante della persona che non può essere asservita a nessun principio, a nessuna idea, a nessun altro valore che non sia la possibilità di vivere una vita in pienezza.
Con stima e rispetto,
Cheli Maria Laura
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Cara Settimana,
ho visto e accolto con molto interesse il sussidio pastorale Trasformò l’acqua in vino (EDB), curato da don Enrico Solmi, che, partendo dal Direttorio di pastorale familiare della Cei, propone principi di orientamento e percorsi formativi per le formazioni familiari irregolari.
È un segno incoraggiante e positivo per quelle situazioni difficili, oggi purtroppo sempre più numerose, che non devono sentirsi abbandonate dalla chiesa, bensì seguite con attenzione e premura materna.
Ma qui io non posso fare a meno di chiedermi perché si debba vietare allo stato di interessarsi a quelle stesse situazioni con i mezzi e gli strumenti propri di una società secolare e pluriculturale, che ha a cuore la dignità, i diritti, i dovuti riconoscimenti ai cittadini che, secondo le proprie convinzioni, vivono da soli o in forma familiare tradizionale o in altre forme di convivenza nate da scelta d’amore, rispetto e assistenza reciproca.
Non dovremmo essere contenti anche noi credenti di vedere in quelle condizioni di vita un principio di valore e di benevolenza (spesso esemplare) da incoraggiare e orientare verso la sua più piena realizzazione e maturazione?
Mi viene da concludere col richiamo evangelico: «Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22,21).
don Faustino Pinelli (MO)
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