giovedì 8 febbraio 2007

POLITICA, QUESTIONI ETICHE E IMPLICAZIONI PASTORALI

Caro direttore,
si accavallano nel confronto politico problematiche di rilevanza etica, con forte impatto mediatico. Dopo le questioni che ruotano intorno all’eutanasia, sotto la pressione del caso Welby, è adesso il turno delle cosiddette unioni civili o di fatto.
Vorrei proporre qualche riflessione, sperando nell’avvio di un confronto anche sulle colonne di Settimana, intorno alle implicazioni pastorali dei temi sul tappeto, inclusi i possibili “effetti collaterali” dei pronunciamenti delle autorità ecclesiastiche sul cammino della chiesa italiana. Una chiesa che in questi anni è cresciuta nella consapevolezza dell’attenzione missionaria verso la società italiana, pienamente confermata nel convegno di Verona. Infatti, la crescente diffusione di termini come “nuova evangelizzazione”, “primo annuncio” e “parrocchia missionaria” tra gli operatori pastorali di base (a partire dai parroci e dai catechisti) si accompagna alla consapevolezza di stare dentro una società secolarizzata, post-cristiana e per certi versi neo-pagana. Oggi in Italia si può essere “anche” cristiani e cattolici, ma senza che molti trovino nel messaggio cristiano il proprio quadro di riferimento etico, o si sentano moralmente vincolati in momenti cruciali dell’esistenza.

Per stare alle questioni di scottante attualità: una cosa è parlare di eutanasia a partire da una visione cristiana della malattia (la vita come dono di Dio, la sofferenza come partecipazione alla croce di Gesù, la morte nella prospettiva dei “novissimi”), altra cosa ritenere la vita una casualità biologica, la sofferenza una non-vita e la morte la fine di tutto. Analoghi ragionamenti sulle differenze di valore e di senso – secondo che si accolga o no una visione di fede – si possono fare sui tempi e i modi del procreare e generare, sul legame d’amore tra un uomo e una donna, sul senso dell’educazione religiosa dei figli. Bisognerebbe, casomai, evidenziare la scarsa attenzione su altre questioni di confine tra etica e politica: il lavoro, la salvaguardia del creato, la pace e la guerra, l’attenzione ai poveri e agli ultimi… Senza peraltro dare per scontato che, da una “lettura cristiana” di fenomeni sociali complessi, derivino necessariamente e sempre giudizi univoci.
È comunque chiaro che, nella società pluralista e diversificata, una parte consistente degli italiani, di fronte a questioni eticamente rilevanti, non assume come riferimento decisivo i principi e i precetti che poggiano sulla rivelazione divina e che il magistero propone alla comunità ecclesiale. E che quei principi e precetti non sono immediatamente spendibili in sedi civili “esterne” alla comunità ecclesiale: decreti del governo e leggi del parlamento non sono deducibili dalla parola di Dio e dalla dottrina sociale della chiesa; e anche la rivendicazione dei principi “non negoziabili” vale all’interno della compagine ecclesiale, mentre in ambito civile è inevitabile la mediazione con quelle componenti sociali e culturali che si ispirano ad altri quadri valoriali e sono portatrici di altri “interessi” e altre sensibilità.
È questo lo spazio e il ruolo dei laici credenti, di donne e uomini spiritualmente ricchi, culturalmente attrezzati, tecnicamente preparati e quindi capaci di stare in campo aperto a tradurre l’ispirazione cristiana in formulazioni proponibili e difendibili nella pluralità di idee e di schieramenti, nella raccolta e gestione del consenso, nell’inevitabile negoziazione del gioco democratico di una politica “plurale”.
Non dovrebbe essere compito del “personale ecclesiastico”, neanche dei vertici della Cei (lo dico con molto rispetto ma con altrettanta preoccupazione), passare dalla legittima e necessaria proposta e tutela dei valori in gioco all’indicazione delle strategie d’azione e addirittura degli strumenti giuridici per affermarli.
La conseguenza – e per certi versi anche la concausa – dell’eccessiva esposizione politico/mediatica dell’autorità ecclesiastica sarà la rarefazione di laici credenti adulti, liberi e responsabili, capaci di autonoma responsabilità politica. La chiesa italiana, a partire dai nostri vescovi, deve chiedersi che tipo di laici sta allevando. Per avere personalità adulte capaci di giocare “fuori casa”, bisogna che in casa – cioè nella chiesa, a partire dalle parrocchie – ci sia più discussione e più passione per gli andamenti sociali, per la politica come servizio alla comunità, per il bene comune. Non basta drizzare le antenne e magari stracciarsi le vesti quando il dibattito tocca questioni di bioetica, se a trattare tali questioni, a confrontarsi e magari a scontrarsi, non abbiamo saputo preparare persone trasparenti, generose, competenti, capaci di giocare “a tutto campo”. Quanto investiamo sull’educazione sociopolitica dei giovani e degli adulti per farli appassionare alla pace, alla giustizia, alla difesa della dignità di ogni persona, alla solidarietà locale e planetaria? Nella comunità cristiana, prima e più che ingaggiare polemiche con i “laicisti” (o coltivare amicizie con i “laici devoti”), c’è bisogno di ripartire dal Vangelo per mostrare che la potenza (dynamis) della risurrezione è fonte di vera novità.
Solo un rilancio di tensione sociale e civile, solo un amore appassionato e critico verso la politica potranno abilitare i credenti adulti a un confronto che non consista nel contrapporre a valori e progetti “soltanto” umani la dottrina sociale cristiana. La costruzione del bene comune, perché sia bene e perché sia comune, chiede ogni sforzo di dialogo per una sintesi “alta”, quanto più possibile inclusiva. E richiede accoglienza di tutti i germi di bene che il Creatore ha posto nel cuore di ogni persona.

L’altro versante di tutto questo discorso riguarda le esigenze dell’evangelizzazione in quanto impegno pastorale diretto, a partire dal primo annuncio ai “lontani” ad opera di una chiesa che si accorge di essere una delle “parti” di cui la società è composta e non più l’anima, o la coscienza critica, della società intera. Ed è qui che si gioca lo stile e forse la stessa impostazione dell’opzione missionaria della chiesa in Italia. L’anima della missione – dovrebbe essere chiaro almeno dal Vaticano II in qua – non è la conquista ma la proposta, la capacità di accostare le persone all’interno di contesti diversi e “altri” per consegnare non la morale cattolica, ma la buona notizia di Gesù di Nazaret, che parla al cuore di ogni persona, illumina i concreti cammini di vita, spalanca sui progetti umani l’orizzonte del regno di Dio. Fino a porre il “caso serio” della morte e della risurrezione che è offerta gratuita di salvezza e richiesta impegnativa di sequela.
Una chiesa che apparisse propensa a lanciare condanne e anatemi, incline più al giudizio che alla misericordia, non rischia di inficiare quella “simpatia” di cui hanno bisogno i nuovi evangelizzatori? Non è avvenuto qualcosa di ciò nel rifiuto di un qualche “segno” religioso cattolico in occasione della morte di Piergiorgio Welby?
Per la questione delle unioni di fatto, pacs e dintorni, è chiaro che si tratta di situazioni riguardanti un crescente numero di persone, una parte delle quali continuano a cercare la chiesa, soprattutto per chiedere i sacramenti dell’iniziazione cristiana per i loro figli. Molti dei fidanzati che prepariamo al matrimonio hanno già dato vita a “coppie di fatto”: dobbiamo sanzionarli come concubini o aiutarli a crescere nella scoperta di un amore più grande? Ma non andrebbe sorvolata la situazione dei vedovi cui concediamo il matrimonio solo religioso per mantenere la pensione di reversibilità del precedente coniuge, perché in questo caso è l’autorità ecclesiastica che concede la dispensa a dare vita a delle unioni di fatto… E dobbiamo aspettarci che queste persone, se potranno ottenere qualche diritto e opportunità, si iscrivano nel registro dei pacs.

Al di là del rischio di “usare” la richiesta dei sacramenti come espediente per annunciare un po’ di Vangelo, bisogna aver chiaro che è dall’incontro col Risorto che scaturisce la proposta di una vita nuova. Solo chi sarà affascinato dalla buona notizia, dalla storia di un Dio a cui stanno davvero a cuore le nostre storie potrà aprirsi a un autentico cammino di conversione. È difficile affascinare le persone a partire da prescrizioni e divieti… Insomma, a fondamento di una chiesa missionaria c’è la convinzione che ci salva il Vangelo e non la morale.
Mi rendo conto che questa è solo una parte del discorso, che la chiesa deve vigilare sui costumi e gli orientamenti etici, far risplendere la verità anche quando risulti sgradita. Ma sarà soprattutto una chiesa capace di presentarsi al mondo nel segno della misericordia e della prossimità a offrire alla gente la possibilità di interrogarsi sul senso profondo della vita e lasciarsi condurre dal vento dello Spirito.

lettera firmata