mercoledì 21 febbraio 2007

PRESBITERI: MENO ESTERIORITÀ E PROTAGONISMI

Cara Settimana,
da tempo rimugino dentro di me una domanda che mi inquieta e non riesco a liberarmene: dove va la chiesa? So benissimo che essa è nelle mani di Dio e che, malgrado tutto e tutti, giungerà a salvezza.
Anche il popolo di Abramo era nelle mani di Dio e da lui benedetto, ma giunse il tempo in cui dovette sperimentare l’esilio dalla sua terra e vivere da schiavo nelle mani degli egiziani. Che ci sia un tempo simile anche per la chiesa a causa della perdita della sua specifica identità, per l’oscuramento della sua bellezza interiore, per essersi smarrita nel suo cammino sfociato in un vero e proprio deserto?
Se i giovani non sono più attratti dal sacerdozio, come scelta di vita, non è forse perché dal nostro cuore non è balzato fuori il suo alto significato, il suo assoluto valore e la sua necessità? La scarsità dei sacerdoti, ridotti quasi al lumicino, è sotto gli occhi di tutti.
Vedo elevati al ministero di vescovi – anche se non è loro colpa – sacerdoti dotati di lauree guadagnate in svariate università teologiche, ma che difettano dell’esperienza diretta in una qualsiasi parrocchia, pur essendo vivaci programmatori di pastorale globale.
Vedo sacerdoti nelle parrocchie che, anziché essere “profumo di Cristo”, spandono a piene mani l’odore di se stessi. Sembra che essi abbiano una sola preoccupazione: farsi ammirare stando in vetrina, sempre sfornatori di affastellate programmazioni per tutti i gusti e per tutte le ore, sovente per racimolare denaro. Dove sono i sacerdoti che celebrano con fede luminosa l’eucaristia e vivono in povertà come Cristo, che dedicano tempo e cuore per assistere gli infermi, visto che la quasi totalità di essi muore priva di ogni sacramentalità?
Mi si dice che i sacerdoti hanno tante cose da fare, seduti al computer o al telefonino per scambiarsi un po’ di chiacchiere, o che hanno da pensare al percorso delle gite da fare, oppure hanno da organizzare le merende a prezzo libero e le cene a prezzo fisso, e anche i “festivalbar” con annesse canzoni.
Sì, tutte cose belle. Ma non sono, casomai, cose che possono fare i laici avendone competenza e diritto? Non hanno i preti il compito di essere canali della grazia di Dio, operatori del mistero di Dio, trasmettitori del soffio dello Spirito Santo, testimoni autentici e limpidi della parola di Dio che da loro dev’essere innanzitutto vissuta e poi annunciata in tutta la sua limpidezza e in tutta la sua carica di attrazione, così da scendere e depositarsi nel cuore della gente, fino ad essere provocatrice di conversione?
Se le omelie sono sciatte e noiose è perché non si avvicinano abbastanza al “verbo di Dio”, ma si camuffano di eloquio pieno di cultura, sono prive di afflato interiore, spirituale, autenticamente biblico e carismatico. Mi sembrano talora al passo con questo nostro tempo, appiattito e povero di significati alti.
È serio e dignitoso fare la comunione eucaristica e appena messa in bocca l’ostia consacrata, sentirsi offrire un volantino che programma una commedia al teatro oppure una cena all’aperto con annessa lotteria? Se la pastorale è a questo livello di “mercato rionale”, come può la gente incontrare gli occhi di Cristo e sentire i battiti del suo cuore misericordioso e salvifico?
La gente è alla ricerca di preti che abbiano i “calli alle ginocchia”, perché costoro hanno la capacità di far nascere speranze, di rendere preziose le loro fatiche, di ascoltare con tenerezza materna i loro ingarbugliati problemi.
La gente oggi non cerca nel prete lo spettacolo o il passatempo: ha già la televisione per restarne inchiodata e addormentata. Cerca delle mani che sappiano indicare un cammino sicuro, un cuore che sappia comunicare amore, una corda alla quale attaccarsi per scalare la montagna della vita così da poter contemplare dalla sua vetta il vasto orizzonte di Dio e cominciare finalmente a cantare l’alleluia.
Se la chiesa non torna ad essere “come nel primo giorno della pentecoste”, sarà un bel guaio. Poiché questo non sembra accadere, dobbiamo aspettarci, come succede ai figli che non capiscono le ragioni del padre, qualche schiaffo di Dio o qualche sua bastonata. Le spese della sua “arrabbiatura” resteranno a nostro carico. Se la chiesa è “nel mondo, ma non del mondo”, non può essere trattata e gestita come le cose del mondo, ma come si conviene a Dio e alle cose di Dio.
Cristo non si è fatto inchiodare ad una croce per lasciare nel mondo uno “specchietto per le allodole”, ma per incastrare, nel sottofondo della terra, l’energia di un vulcano che, in permanente attività, la facesse esplodere così da cambiarle cuore e volto, non più vestita da prostituta ma da vergine sposa, “tutta bella e immacolata”, immagine e specchio della bellezza di Dio.
Chiedo perdono, se sono stato un po’ “graffiante”.

Averardo Dini (Firenze)

La lettera di don Averardo dipinge un “modello” di prete che può essere presente nel panorama ecclesiale italiano. Riteniamo in ogni caso ingeneroso “generalizzare” la descrizione che egli ne fa, a tratti molto radicale e pessimista. La chiesa è «nelle mani di Dio», come afferma lo stesso don Averardo all’inizio della lettera. Quindi, non può venir meno la nostra fiducia nella sua assistenza e nella sua guida. Siamo convinti che – anche in quel “deserto” odierno che si chiama secolarismo o indifferenza – ci sono molti presbiteri in Italia che donano la vita al gregge loro affidato, con “i calli alle ginocchia” e senza “fare rumore”, e che usano della modernità e della tecnologia in modo sobrio e appropriato. Accogliamo, comunque, il richiamo a tenere nella massima considerazione quel “proprium” che caratterizza i presbiteri e che dovrebbe dissuaderli dal disperdersi in attività che non riguardano “direttamente” il loro ministero specifico. E accogliamo questo intervento “graffiante” per aiutarci a ridefinire sempre meglio un “modello” di pastore che sappia evangelizzare, con la corresponsabilità dei laici, il “nostro” mondo che cambia. (M. Pizzighini)

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