Caro direttore,
a qualcuno parrà strano che una persona attiva nell’assistenza ai separati e divorziati si occupi degli elementi fondanti di quei sistemi, i cui cocci è generalmente chiamato a raccogliere e ahimè! solo rarissime volte, nei limiti delle umane possibilità, a ricomporre.
Quale interesse recondito avrà mai, si domanderà qualcuno, per intervenire nell’attuale appassionato dibattito sui diritti delle convivenze, sui patti che vi intercorrono, sull’atteggiamento della chiesa, o meglio, delle sue diverse componenti: i sacerdoti, le gerarchie ecclesiastiche, i fedeli. In ognuna di esse sono chiaramente riconoscibili gli ultra-ortodossi, i moderati e i progressisti.
Ma sono i vertici della chiesa a determinarne l’atteggiamento nei confronti delle questioni più rilevanti, e io non posso fare a meno di notare una certa discrepanza tra coloro i quali, nella chiesa, sono immersi nella realtà quotidiana e nei problemi della gente comune, e quelli che li percepiscono mediati dall’astrazione e dalla teorizzazione teologica, e per forza di cose sono meno disponibili a transigere sulle questioni di principio. Così però correndo il rischio di distaccarsi a poco a poco dalla realtà in evoluzione e di perdere infine il contatto misericordioso con le sofferenze, stigmatizzando i sofferenti anziché seguire l’esempio di Gesù quando si recò al pozzo di Sicar, tra genti reputate inferiori, non degne, rimanendo a parlare nell’ora più calda sotto il sole a picco con quella donna dai cinque mariti, disprezzata da tutti, da tutti condannata.
La chiesa non tema che i fedeli non capiscano. Moltissimi tra loro sono infatti i divorziati, i separati, gli omosessuali, i diversi e i reietti di ogni genere. Reietti dai sistemi, reietti dalle convenzioni, reietti dalle costrizioni di appartenenza ai sistemi stessi. Ma non respinti dalle braccia del Signore Iddio, che essi vedono nella chiesa e nella misericordia.
Braccia non atte a respingere, ad emarginare, a demonizzare, bensì ad accogliere, a rendere partecipi, a santificare.
Braccia che portano in palmo di mano quanto di inestimabile è racchiuso in ogni cuore che batte, nessuno escluso, e che rischiano invece di soffocarlo, levando inesorabilmente gli indici in stereotipati e sempre meno condivisibili gesti di condanna.
Credo che dalle mie parole chiunque abbia capito che anch’io sono uno di questi fedeli che vorrebbero sentirsi abbracciati, non discriminati in conseguenza di un dolore subìto, come lo è il crollo di un’unione con il proprio partner, e trovando poi l’amore risposandosi ha commesso “l’errore” di non rimanere solo, oppure di una altrettanto dolorosamente vissuta diversità di cui non hanno colpa.
Vorrei chiedere alla chiesa da credente fedele e praticante convinto, religiosamente consapevole e attivo, di rendersi disponibile a recarsi, come fece Gesù, in Galilea, passando per le terre dei derelitti, dei negletti, e lì accettando di parlare e risvegliare il buono che c’è anche nei loro cuori.
Lasciarli in un ghetto con per di più il peso di una condanna non mi sembra, in tutta coscienza, l’idea migliore.
Elio Cirimbelli
direttore del Centro A.S.Di. (BZ)
Rispondiamo alla sua lettera, riprendendo alcuni stralci del discorso che l’arcivescovo di Milano, il card. Tettamanzi, ha rivolto al Consiglio pastorale diocesano lo scorso 17 febbraio sul tema della famiglia e delle unioni di fatto. Ci sembrano parole illuminanti per uno stile di chiesa che vuole essere vicina alle sofferenze delle persone.
«La mia prima preoccupazione di vescovo – esordiva il card. Tettamanzi – sono le coppie e le famiglie cristiane, quelle fondate e sostenute dal sacramento del matrimonio, e dunque con la grazia e la responsabilità di vivere il matrimonio e la famiglia secondo il disegno di Dio e, proprio per questo, secondo le esigenze più profonde e autentiche del cuore dell’uomo e della donna…
Questa prima preoccupazione sprigiona uno sguardo attento e un profondo interesse anche per tutte le altre situazioni di coppia, sia che si tratti di famiglie nate da un vincolo matrimoniale civile o religioso non cristiano, sia che si tratti di realtà di “convivenza”. Al riguardo non dobbiamo dimenticare che la grazia di Dio si fa presente e operante in tutte le situazioni umane. Lo ricordavo nel percorso pastorale diocesano anche a proposito di realtà nate successivamente al fallimento del matrimonio, per le quali occorre saper “valorizzare quegli elementi umani ed evangelici che possono comunque essere presenti anche nelle unioni e nelle famiglie che spesso nascono da un’esperienza di separazione o di divorzio” (L’amore di Dio è in mezzo a noi, n. 41).
Queste esperienze di convivenze toccano non soltanto le singole persone coinvolte, ma anche la stessa società nel suo complesso: rivestono, infatti, un’innegabile dimensione sociale, ma prima ancora sono oggetto di una cura pastorale della chiesa attenta alla persona e alla società secondo il disegno di Dio. Prima di una questione politica, queste esperienze di relazione tra le persone interessano la chiesa e la sua missione di annuncio e di testimonianza del “vangelo dell’amore”».
Il card. Tettamanzi proseguiva il suo discorso affrontando il dibattito politico in corso in Italia sulla regolamentazione giuridica delle unioni di fatto. Egli ricordava che l’impegno “politico” «richiede una paziente e coraggiosa opera di confronto veritiero… in una prospettiva di autentico servizio alla persona e alla società».
Dopo aver dichiarato che occorre «rilanciare con convinzione e forza l’inscindibile legame tra verità e carità, tra ideale normativo e cammino esistenziale verso di esso», il porporato terminava così il suo intervento: «Permettetemi di concludere queste riflessioni, ritornando a ribadire la necessità di un’azione pastorale verso i conviventi. È un campo dove la chiesa è chiamata tutta intera ad agire in prima persona, senza sottrarsi alle complessità attuali e alla fatica di cercare forme nuove di vicinanza e di sostegno. Il Vangelo è parola di speranza per l’oggi, per ogni uomo e donna che vive in questo mondo che cambia: questa deve essere la nostra ferma e gioiosa convinzione.
Vorrei semplicemente rileggere con voi quanto scrivevo in proposito nel percorso pastorale: “Un numero sempre crescente di persone, pur provenendo dalle comunità cristiane, non sceglie l’istituzione del matrimonio per dire e per vivere il proprio amore. Alcuni, per i motivi più diversi, legati alla loro storia o alle loro paure, agli esempi negativi vissuti, alle loro convinzioni civili o religiose, alla precarietà delle situazioni di vita o alle condizioni economiche, all’insicurezza reciproca o all’incertezza sul futuro, preferiscono non celebrare in chiesa il loro rapporto affettivo, ma scelgono o il semplice matrimonio civile o la convivenza come espressione del loro amore. Queste condizioni di vita non possono lasciare indifferente e assente la comunità cristiana. Essa si sente obbligata ad interrogarsi su come essere più vicina a queste persone e a queste situazioni, sia nel loro sorgere come nel loro evolversi lungo gli anni. Sì, essere più vicina nel senso di offrire, anzitutto, esempi semplici e convincenti di una vita coniugale secondo verità e, insieme, di condividere con amore paziente e incoraggiante un cammino verso la verità dell’amore, la sola che libera e dona autentica felicità” (L’amore di Dio è in mezzo a noi, n. 34)».
Ci sembra di percepire in queste parole un approccio pastorale sincero verso le situazioni da lei richiamate, che richiedono l’atteggiamento del “prendersi cura”.
venerdì 20 aprile 2007
OGGI È TEMPO DI APPROCCIO "DOGMATICO" O "PASTORALE"?
Caro direttore,
vorrei invitare a riflettere sulla scelta che papa Giovanni XIII fece nell’indire un concilio non “dogmatico”, che non partisse dalla definizione di “dogmi”, di verità in sé, anatematizzando (cioè scomunicando) quanti non le avrebbero accettate, bensì “pastorale”, che partisse dalla sensibilità e dalle attese della gente, non certo per accontentarla automaticamente, ma per farla risalire pian piano verso i principi.
È un metodo più laborioso, ma più efficace. Partire infatti dai principi porta ad escludere fin dall’inizio quanti non concordano totalmente, premunendosi anche contro tutte le conseguenze, non solo quelle inevitabili ma anche quelle eventuali; mentre, partire dalla gente rende più disponibili e più possibilisti, e soprattutto più misericordiosi. Gesù stesso, spesso particolarmente severo con gli scribi e i farisei, custodi della Legge, era invece più disponibile nei confronti dei pubblicani o dei samaritani, i peccatori e gli eretici di allora.
Credo che sia un principio pastorale importante oggi più che mai, nell’attenzione ai “segni dei tempi” di un mondo che sta correndo indipendentemente da noi. E non vorrei limitarlo solo al tema attuale delle convivenze, che possiamo vedere come una premessa inevitabile al peggio, o che invece potremmo valutare come un primo barlume d’amore, da riconoscere e da orientare, sempre fraternamente.
Grazie per l’ospitalità.
Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea
vorrei invitare a riflettere sulla scelta che papa Giovanni XIII fece nell’indire un concilio non “dogmatico”, che non partisse dalla definizione di “dogmi”, di verità in sé, anatematizzando (cioè scomunicando) quanti non le avrebbero accettate, bensì “pastorale”, che partisse dalla sensibilità e dalle attese della gente, non certo per accontentarla automaticamente, ma per farla risalire pian piano verso i principi.
È un metodo più laborioso, ma più efficace. Partire infatti dai principi porta ad escludere fin dall’inizio quanti non concordano totalmente, premunendosi anche contro tutte le conseguenze, non solo quelle inevitabili ma anche quelle eventuali; mentre, partire dalla gente rende più disponibili e più possibilisti, e soprattutto più misericordiosi. Gesù stesso, spesso particolarmente severo con gli scribi e i farisei, custodi della Legge, era invece più disponibile nei confronti dei pubblicani o dei samaritani, i peccatori e gli eretici di allora.
Credo che sia un principio pastorale importante oggi più che mai, nell’attenzione ai “segni dei tempi” di un mondo che sta correndo indipendentemente da noi. E non vorrei limitarlo solo al tema attuale delle convivenze, che possiamo vedere come una premessa inevitabile al peggio, o che invece potremmo valutare come un primo barlume d’amore, da riconoscere e da orientare, sempre fraternamente.
Grazie per l’ospitalità.
Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea
mercoledì 4 aprile 2007
ANCH'IO AVREI ASSOLTO QUELLA SIGNORA, PERÓ...
Caro direttore,
chiedo scusa a lei e ai lettori se di nuovo faccio il chiosatore di lettere apparse su Settimana. Questa volta mi riferisco a quella di don Guido Oliveri (cf. Sett. n. 11, del 18 marzo 2007).
Ho letto con interesse quella lettera e preciso subito che
a) anch’io, come don Guido, non derogo dalla disciplina attuale della chiesa, perché, se si sta nella chiesa, occorre anche viverne la disciplina. È la grande coerenza ascetica che nasce dal mistero ecclesiale;
b) ma, nello stesso tempo, trovo giusto chiedere una trasformazione dell’attuale disciplina al riguardo.
Nel frattempo, il percorso che don Oliveri ha fatto con la signora è giusto. Ma è giusto anche porre alcune domande.
1. Nella chiesa è bella e forte la preoccupazione per il matrimonio e la famiglia. Ma perché non c’è altrettanta cura riguardo al restante spazio della vita? C’è ora la dichiarazione circa il voto sui Dico, ma come mai non è stato detto niente riguardo alla legge sul falso in bilancio? Sulla falsità il vangelo è forse più morbido che sul matrimonio? E sulla ricchezza? E sul potere? Domando in particolare: perché – seguendo la severità della disciplina eucaristica – non rifiutiamo i sacramenti a chi, per esempio, è complice di un sistema bancario che non dà nulla come frutto a chi porta soldi ma impone tassi esosi a chi i soldi li chiede in mutuo? Ci facciamo domande sull’uso che le banche fanno dei risparmi che vi poniamo? Sia io che qualsiasi altro siamo complici se la banca investe in armi? È che dire di chi – anche se fa parte dell’Ior – investe in industrie chimiche che producono medicinali “immorali”? E quanti lavorano in industrie di armamento? Chiedo poi a coloro che lavorano nell’ambito della comunicazione, dove tutto sembra rispondere al solo risultato economico: fanno comunicazione o interesse?
E si potrebbe continuare con questi interrogativi… E, noi operatori pastorali, o meglio “odegeti”, guide sulla strada, non pecchiamo forse di guida parziale? Siamo allora ammissibili all’eucaristia?
2. Se noi estendessimo la stessa severità che adoperiamo per i temi “eticamente sensibili” (ridotti esplicitamente nei documenti magisteriali a matrimonio, aborto, scuola cattolica), a tutta la tematica morale, imposteremmo una linea tale che potrebbe vivere l’eucaristia solo una sparuta minoranza. Perché allora questa severità sul matrimonio (per ritornare al caso concreto riportato da don Guido)? Per la parola del vangelo? Ma Gesù ha detto parole altrettanto severe sulla ricchezza, sul potere, sulla falsità, sul tradimento, sul rigore nel lavoro, sulla preghiera, sul perdono…
3. Gesù ha predicato una morale o ha piuttosto aperto una via di pienezza, nella quale ci invita ad entrare con un animo insieme penitenziale ed escatologico? Non è forse perché la chiesa si limita al cabotaggio etico (eppure è stato detto “Vai al largo!”) che un critico come Steiner dice che “ci manca un principio speranza”? Non si sente qui una frustata a noi-chiesa di oggi?
4. Riguardo alle molte presenze del Signore con cui può comunicare anche un divorziato risposato, per favore usciamo dalla retorica. Le altre presenze di Cristo sono vere presenze? E allora: se la condizione di peccato della divorziata impedisce la comunione eucaristica, impedisce ogni altra comunione, perché, se uno è morto nell’anima (diciamo così, ma usate tutte le immagini che volete), è morto sia nell’ascolto della parola che nell’eucaristia. D’altra parte: se avviene una vera comunione e niente ostacola la comunione con Cristo nella comunità, perché allora non si può comunicare con Cristo eucaristia?
A me resta una tristezza nell’anima, quando vedo l’ultima moda ecclesiastica di citare l’eucaristia come forma di esclusione. Il sacramento della comunione viene usato come segno di interdizione! Certo, comunicare con Cristo-eucaristia è impegnativo, ma sempre comunicare con Cristo impegna tutta la vita, senza scuse, tutti.
Termino con le parole del bellissimo canto che liturgia ambrosiana ha sciolto il giovedì santo: «Oggi, Figlio dell’Eterno, come amico al banchetto tuo stupendo tu mi accogli. Non affiderò agli indegni il tuo mistero né ti bacerò tradendo come Giuda, ma ti imploro come il ladro sulla croce, di ricevermi, Signore, nel tuo regno!».
don Paolo Giannoni
eremo di Mosciano
chiedo scusa a lei e ai lettori se di nuovo faccio il chiosatore di lettere apparse su Settimana. Questa volta mi riferisco a quella di don Guido Oliveri (cf. Sett. n. 11, del 18 marzo 2007).
Ho letto con interesse quella lettera e preciso subito che
a) anch’io, come don Guido, non derogo dalla disciplina attuale della chiesa, perché, se si sta nella chiesa, occorre anche viverne la disciplina. È la grande coerenza ascetica che nasce dal mistero ecclesiale;
b) ma, nello stesso tempo, trovo giusto chiedere una trasformazione dell’attuale disciplina al riguardo.
Nel frattempo, il percorso che don Oliveri ha fatto con la signora è giusto. Ma è giusto anche porre alcune domande.
1. Nella chiesa è bella e forte la preoccupazione per il matrimonio e la famiglia. Ma perché non c’è altrettanta cura riguardo al restante spazio della vita? C’è ora la dichiarazione circa il voto sui Dico, ma come mai non è stato detto niente riguardo alla legge sul falso in bilancio? Sulla falsità il vangelo è forse più morbido che sul matrimonio? E sulla ricchezza? E sul potere? Domando in particolare: perché – seguendo la severità della disciplina eucaristica – non rifiutiamo i sacramenti a chi, per esempio, è complice di un sistema bancario che non dà nulla come frutto a chi porta soldi ma impone tassi esosi a chi i soldi li chiede in mutuo? Ci facciamo domande sull’uso che le banche fanno dei risparmi che vi poniamo? Sia io che qualsiasi altro siamo complici se la banca investe in armi? È che dire di chi – anche se fa parte dell’Ior – investe in industrie chimiche che producono medicinali “immorali”? E quanti lavorano in industrie di armamento? Chiedo poi a coloro che lavorano nell’ambito della comunicazione, dove tutto sembra rispondere al solo risultato economico: fanno comunicazione o interesse?
E si potrebbe continuare con questi interrogativi… E, noi operatori pastorali, o meglio “odegeti”, guide sulla strada, non pecchiamo forse di guida parziale? Siamo allora ammissibili all’eucaristia?
2. Se noi estendessimo la stessa severità che adoperiamo per i temi “eticamente sensibili” (ridotti esplicitamente nei documenti magisteriali a matrimonio, aborto, scuola cattolica), a tutta la tematica morale, imposteremmo una linea tale che potrebbe vivere l’eucaristia solo una sparuta minoranza. Perché allora questa severità sul matrimonio (per ritornare al caso concreto riportato da don Guido)? Per la parola del vangelo? Ma Gesù ha detto parole altrettanto severe sulla ricchezza, sul potere, sulla falsità, sul tradimento, sul rigore nel lavoro, sulla preghiera, sul perdono…
3. Gesù ha predicato una morale o ha piuttosto aperto una via di pienezza, nella quale ci invita ad entrare con un animo insieme penitenziale ed escatologico? Non è forse perché la chiesa si limita al cabotaggio etico (eppure è stato detto “Vai al largo!”) che un critico come Steiner dice che “ci manca un principio speranza”? Non si sente qui una frustata a noi-chiesa di oggi?
4. Riguardo alle molte presenze del Signore con cui può comunicare anche un divorziato risposato, per favore usciamo dalla retorica. Le altre presenze di Cristo sono vere presenze? E allora: se la condizione di peccato della divorziata impedisce la comunione eucaristica, impedisce ogni altra comunione, perché, se uno è morto nell’anima (diciamo così, ma usate tutte le immagini che volete), è morto sia nell’ascolto della parola che nell’eucaristia. D’altra parte: se avviene una vera comunione e niente ostacola la comunione con Cristo nella comunità, perché allora non si può comunicare con Cristo eucaristia?
A me resta una tristezza nell’anima, quando vedo l’ultima moda ecclesiastica di citare l’eucaristia come forma di esclusione. Il sacramento della comunione viene usato come segno di interdizione! Certo, comunicare con Cristo-eucaristia è impegnativo, ma sempre comunicare con Cristo impegna tutta la vita, senza scuse, tutti.
Termino con le parole del bellissimo canto che liturgia ambrosiana ha sciolto il giovedì santo: «Oggi, Figlio dell’Eterno, come amico al banchetto tuo stupendo tu mi accogli. Non affiderò agli indegni il tuo mistero né ti bacerò tradendo come Giuda, ma ti imploro come il ladro sulla croce, di ricevermi, Signore, nel tuo regno!».
don Paolo Giannoni
eremo di Mosciano
È TEMPO DI APPROCCIO "DOGMATICO" O "PASTORALE"?
Caro direttore,
vorrei invitare a riflettere sulla scelta che papa Giovanni XIII fece nell’indire un concilio non “dogmatico”, che non partisse dalla definizione di “dogmi”, di verità in sé, anatematizzando (cioè scomunicando) quanti non le avrebbero accettate, bensì “pastorale”, che partisse dalla sensibilità e dalle attese della gente, non certo per accontentarla automaticamente, ma per farla risalire pian piano verso i principi.
È un metodo più laborioso, ma più efficace. Partire infatti dai principi porta ad escludere fin dall’inizio quanti non concordano totalmente, premunendosi anche contro tutte le conseguenze, non solo quelle inevitabili ma anche quelle eventuali; mentre, partire dalla gente rende più disponibili e più possibilisti, e soprattutto più misericordiosi. Gesù stesso, spesso particolarmente severo con gli scribi e i farisei, custodi della Legge, era invece più disponibile nei confronti dei pubblicani o dei samaritani, i peccatori e gli eretici di allora.
Credo che sia un principio pastorale importante oggi più che mai, nell’attenzione ai “segni dei tempi” di un mondo che sta correndo indipendentemente da noi. E non vorrei limitarlo solo al tema attuale delle convivenze, che possiamo vedere come una premessa inevitabile al peggio, o che invece potremmo valutare come un primo barlume d’amore, da riconoscere e da orientare, sempre fraternamente.
Grazie per l’ospitalità.
Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea
vorrei invitare a riflettere sulla scelta che papa Giovanni XIII fece nell’indire un concilio non “dogmatico”, che non partisse dalla definizione di “dogmi”, di verità in sé, anatematizzando (cioè scomunicando) quanti non le avrebbero accettate, bensì “pastorale”, che partisse dalla sensibilità e dalle attese della gente, non certo per accontentarla automaticamente, ma per farla risalire pian piano verso i principi.
È un metodo più laborioso, ma più efficace. Partire infatti dai principi porta ad escludere fin dall’inizio quanti non concordano totalmente, premunendosi anche contro tutte le conseguenze, non solo quelle inevitabili ma anche quelle eventuali; mentre, partire dalla gente rende più disponibili e più possibilisti, e soprattutto più misericordiosi. Gesù stesso, spesso particolarmente severo con gli scribi e i farisei, custodi della Legge, era invece più disponibile nei confronti dei pubblicani o dei samaritani, i peccatori e gli eretici di allora.
Credo che sia un principio pastorale importante oggi più che mai, nell’attenzione ai “segni dei tempi” di un mondo che sta correndo indipendentemente da noi. E non vorrei limitarlo solo al tema attuale delle convivenze, che possiamo vedere come una premessa inevitabile al peggio, o che invece potremmo valutare come un primo barlume d’amore, da riconoscere e da orientare, sempre fraternamente.
Grazie per l’ospitalità.
Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea
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