Cara Settimana,
basta fare un viaggio nei paesi del così detto terzo mondo, e in modo particolare in uno dei più poveri come il Burundi, per capire ogni volta che si rientra in Italia che viviamo in un mondo assai strano. Paesi europei che non hanno materie prime né risorse naturali come l’Italia, o densamente popolate se comparate al loro territorio come l’Olanda e il Belgio, hanno un tenore di vita incredibilmente alto mentre nazioni come il Congo, l’Angola, la Tanzania ecc., pur essendo adagiate su enormi giacimenti di oro, diamanti, petrolio, rame, coltan ecc., sono invece tra i più poveri del mondo. Evidentemente qualcosa non quadra se ci sono macroscopiche differenze come quelle accennate che allargano il fossato in maniera sempre più evidente tra il mondo ricco e il mondo povero.
Sempre tenendo fisso lo sguardo sull’Africa, scopriamo che ogni cinque secondi muore un bambino sotto i dieci anni per fame e malnutrizione. L’anno scorso nel continente nero sono morte di aids quasi tre milioni di persone e, rispetto solo a dieci anni fa, ci sono quaranta milioni di affamati in più che implorano aiuto, ma, paradosso ancora più sconvolgente, è che, mentre l’Africa si riempie di poveri e di disperati e aumenta la mortalità per fame, essa continua a pagare trentacinque milioni di dollari di interessi relativi a debiti contratti negli anni sessanta/settanta, già abbondantemente ripagati, ma che, a causa dei perversi meccanismi dei tassi di interesse creati dalle istituzioni internazionali che gestiscono i prestiti, non riesce ad estinguere.
Qualche studioso ha calcolato che con questi soldi che i poveri “donano” ai ricchi dell’Occidente, si potrebbero salvare ventun milioni di vite ogni anno. A voler essere ancor più analitici, in una lettura già di per sé tragica si deve aggiungere che milioni di africani vivono in maleodoranti baraccopoli e che un’intera generazione di bambini e ragazzi vive rovistando la spazzatura delle megalopoli africane.
Occorre tener presente sempre questi dati, proprio perché, di fronte al dramma della miseria mondiale, esiste il rischio di leggere questa realtà come se essa fosse una specie di “seccatura” da lasciare a quelle anime belle come i missionari, ai volontari laici o, al massimo, da togliersi l’eventuale scrupolo di coscienza con un’offerta magari un tantino più generosa della volta precedente. Non ci stancheremo mai di ripetere che questo stato di cose non può essere il frutto del caso. Come ricordava don Milani, un carro armato non fa danni solo perché qualcuno preme il grilletto da cui parte un colpo mortale; in una certa qual misura esiste una responsabilità globale che non può essere sempre taciuta. Se noi pensiamo, ad esempio, che da due anni le spese per gli armamenti di tutti gli stati del mondo hanno sforato per la prima volta i mille miliardi annui di dollari, avremmo chiaro il concetto che le risorse per vincere fame, povertà e malattie endemiche ci sono; il problema sta nel fatto che queste risorse vengono investite in strumenti di morte, in guerre preventive e in apparati polizieschi costituiti solo ed esclusivamente per difendere gli interessi di pochi.Al recente “Forum Sociale” che si è tenuto a Nairobi, alcuni teologi dei paesi del Sud del mondo hanno espresso il concetto che «il cristianesimo (soprattutto quello praticato dalle nazioni di antica cristianità) ha bisogno di un battesimo d’immersione nel calvario dei popoli. Se non si ha il coraggio, non dico di fare questo passo ma semplicemente di prendere in considerazione questa prospettiva pastorale da cui partire per il nostro agire da credenti in un mondo globalizzato, rischieremmo davvero di presentarci come i difensori dello status quo, dove chi è ricco diventa sempre più ricco e chi è povero diventa sempre più povero, senza essere minimamente sfiorati dal dubbio che anche noi abbiamo bisogno di conversione. Qualche anno fa ebbi la possibilità di visitare l’isola di Goré in Senegal. Goré è poco più di un isolotto a neanche un chilometro dalla costa di Dakar, su cui sorge una costruzione nella quale nei secoli scorsi venivano rinchiusi e ammassati uomini e donne catturati in ogni parte dell’Africa per essere incatenati e successivamente imbarcati per le Americhe. Gli schiavi uscivano da una porticina che li immetteva, tramite una passerella, direttamente sulle navi negriere. Un giovane studente che illustrava i meccanismi infernali che regolavano questo flusso di poveri cristi sottratti alla loro terra, alzando la voce e rivolgendosi in modo particolare ai bianchi presenti disse: «Voi siete ricchi perché da questa porta avete rubato il tesoro più grande dell’Africa, da questa porta sono passate le nostre forze migliori che i vostri paesi hanno depredato senza neanche porsi il problema di risarcire il danno causato».
È chiaro che non si può vivere il messaggio evangelico senza tenere presente questa storia e ciò che vi è racchiuso. Il Vangelo non può essere scippato ed edulcorato, per non dire tradito dalla tribù dei bianchi che si arrogano il privilegio di dettarne le regole al resto del mondo. Recentemente il premio Nobel per la pace Desmond Tutu ha ribadito un concetto che gli è caro: «Quando arrivarono i bianchi in Sudafrica, essi avevano la parola di Dio e i neri la terra, questi ultimi li accolsero e si ritrovarono loro con la parola di Dio tra le mani e i bianchi con la terra dei neri! Come si fa – prosegue Desmond Tutu – a credere in un messaggio così rivoluzionario come il Vangelo e restare indifferenti di fronte al dramma della povertà, della fame e della miseria, che investe milioni di persone?».
Solo ascoltando la voce dei poveri, si può capire quale direzione intraprendere per uscire dall’angusto schema mentale tutto nostrano, che riduce la fede ad autorevole pulpito in difesa di solenni principi etici, mentre le sfide che interpellano i credenti sono di ben altro spessore.
Una purificazione interiore e un discernimento dei cuori e delle coscienze, è un cammino urgente e necessario da percorrere al fine di recuperare quella novità rivoluzionaria insita nel Vangelo, capace di trasformare la società e le coscienze dei cristiani del Nord come del Sud del mondo.
Mario Bandera (NO)
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