Cara Settimana,
il giorno 29 giugno la rubrica curata da M. Gramellini sulla prima pagina de La Stampa aveva per titolo Libertà di messa e presentava alcune brevi riflessioni sulla annunciata «reintroduzione» della messa tridentina nella chiesa cattolica. Vale la pena riassumere le idee espresse in quelle poche righe.
Anzitutto si esprime un giudizio duro sulla riforma liturgica, riducendola alla «messa in chitarra e jeans» e pensando la «messa in volgare» come una sorta di volgarizzazione della «versione originale», che sarebbe quella di Pio V. Si aggiunge poi che la scelta che il papa starebbe per compiere appare «rivoluzionaria soprattutto nella forma», poiché non toglie, ma aggiunge: «aumenta le possibilità di scelta senza ridurre la libertà di nessuno». A margine viene anche indicata la preminenza del latino sulle lingue volgari con la seguente argomentazione: «la lingua del cattolicesimo è il latino e le tradizioni si smarriscono anche per colpa delle traduzioni». Infine – ma forse qui sta il fulcro dell'intero percorso – Gramellini esorta a tener conto che questo metodo «liberale» di approccio alla liturgia dovrebbe essere esteso anche alle questioni di diritto civile, come il rapporto tra unioni di fatto e di diritto, uscendo da una lettura solo pedagogica della legge.
Poiché concentra in sé una serie di luoghi comuni abbastanza ovvii nella coscienza civile contemporanea, questo breve articolo merita una serie di accurate puntualizzazioni.
In primo luogo bisogna ricordare che la riforma liturgica viene da molto prima del 1968: già ai primi del 1800 vi erano uomini che lamentavano la grande crisi della “messa di Pio V”!
Coloro che prima hanno scritto il concilio e poi la riforma liturgica si sono preoccupati di dare risposta ad una crisi della messa che durava da almeno 150 anni. Accusarli di aver determinato la «messa in jeans e chitarra» è come minimo una grave imprecisione. Esattamente come considerare la «messa in volgare» una brutta copia dell'«originale».
Qui bisogna essere molto precisi. La messa “volgare” in italiano, come quella in francese o in tedesco, ha un suo originale latino che è molto diverso e molto più ricco della messa di Pio V. La messa tridentina non è l'«originale» della messa in volgare, ma è il rito che è stato riformato dopo il concilio a causa delle sue lacune, per formulare quel diverso rito latino – più ricco e più sobrio – che noi celebriamo ordinariamente nella traduzione in lingua volgare. È un grave fraintendimento non distinguere tra ciò che determinava la crisi (la messa di Pio V) e ciò che ha contribuito al suo superamento (il nuovo rito postconciliare).
Qui bisogna poi inserire una piccola precisazione circa il rapporto tra tradizione e traduzione. Non è affatto vero che le traduzioni siano la corruzione delle tradizioni. Almeno per il cristianesimo, l'unica possibilità di mantenere la tradizione è quella di tradurre. È sempre stato così, fin da quando l'aramaico si è fatto greco, il greco latino e poi il latino le molte lingue che l'uomo parla, fino alle nostre. Quando non si è più disposti a tradurre, allora si perde la tradizione, cadendo nelle forme del tradizionalismo senza futuro. La liturgia non è un museo con una grande offerta di “beni culturali” e la chiesa non è un’agenzia di servizi religiosi, che da domani avrà un nuovo prodotto a disposizione dei clienti.
Infine, merita un’ultima osservazione proprio la valutazione conclusiva di Gramellini. È vero, la logica «liberale» che sembra ispirare molti luoghi comuni intorno alla liturgia nella chiesa di oggi potrebbe far pensare che la soluzione pluralista in liturgia possa essere estesa anche al campo morale o giuridico, con bella coerenza.
Io sarei invece del parere che si possa capovolgere il paragone. L'identità cristiana non può sopportare un’identità liturgica che non sia capace di vera unità. Proprio quando acquisisce senza traumi la logica di una “nuova liturgia”, che rilegge autorevolmente la tradizione secondo nuove lingue e nuove culture, allora la chiesa è in grado di affrontare le questioni politiche, etiche e giuridiche con quella apertura e quella serenità che può tenerla lontana da ogni forma di rigida contrapposizione.
Ma, in fondo, questo sta scritto irreversibilmente nella storia della chiesa degli ultimi 40 anni. Da 40 anni noi formiamo i cristiani e gli stessi preti secondo le lingue, le culture, le teologie e le spiritualità scritte nei gesti e nei silenzi, nei riti e nei canti della nuova liturgia. Ciò è tanto vero che non è affatto escluso che, se domani qualche cristiano in buona coscienza si recherà dal proprio parroco per chiedere la celebrazione della messa secondo il rito di Pio V, potrà sentirsi rispondere, in totale buona fede: «Mi perdoni, ma non ne sono capace: questa non è né la chiesa né la liturgia in cui ho imparato a credere, a vivere e a pregare».
Noi tutti, che siamo stati formati dopo il concilio Vaticano II, siamo “oltre” la messa di Pio V: lo si voglia o no, indietro non si torna.
Andrea Grillo
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1 commento:
"«Bisogna andar oltre, bisogna andar oltre». Questo bisogno di «andare oltre» è antico sulla terra. Eraclito l'Oscuro, che lasciò i suoi pensieri nei suoi scritti e i suoi scritti nel tempio di Diana (quei pensieri erano stati la sua armatura nella vita e perciò li sospese nel tempio), Eaclito l'Oscuro ha detto: «Non ci si può bagnare due volte nel medesimo fiume». Eraclito l'oscuro aveva un discepolo, costui non si fermò a quel pensiero, andò oltre e aggiunse: «Non ci si può bagnare neppure una volta». Povero Eraclito, che aveva un discepolo simile! La frase di Eraclito fu, con quella correzione, trasformata in una frase eleatica, negatrice del movimento. Eppure quel discepolo desiderava soltanto essere un discepolo di Eraclito che andasse oltre il maestro e non tornasse a quel che il maestro aveva abbandonato».
Con questa brillante osservazione, caustica ma sorridente, Kierkegaard conclude il suo libro "Trimore e tremore".
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