giovedì 12 luglio 2007

L'OMELIA È FATTA BENE?

Caro don Franco,
ho ascoltato domenica scorsa la sua predica alla messa di mezzogiorno, e debbo dire –pur con tutta la stima che ho per lei – che mi ha un po’ deluso. Lei mi perdonerà se con estrema sincerità dirò quello che penso. Premetto: appartengo a quella schiera di cattolici che chiamerei “dialoganti”, convinti che l’obbedienza e il silenzio non siano le massime virtù di un credente. Anzi. Penso che tutto possa essere discusso tranne i dogmi, figuriamoci poi una predica domenicale.
Sarò dunque sincero, e le dirò da semplice credente la mia opinione.

Lei appartiene a quella categoria di sacerdoti che si sono convertiti al foglietto scritto. La vedo, caro don Franco, mentre legge quello che ha buttato giù la sera prima. Non sbircia velocemente una scaletta per poi andare a braccio. No. Lei recita la sua omelia come un attore che abbia imparato la parte, e ogni parola sembra essenziale come se si trattasse di un documento politico in cui anche una sfumatura riveste un significato particolare. Ma, così facendo, la sua predica è già morta prima di essere pronunciata per due ragioni: innanzi tutto perché perde di immediatezza, e non c’è più comunicazione fra fedeli e sacerdote. I vecchi oratori sapevano dosare gli effetti a seconda della rispondenza del pubblico. Se avessero visto qualcuno che sbadigliava, cambiavano strada. La predica scritta la sera prima è come un pesce surgelato: sarà anche buono ma il sapore di quello fresco è diverso. E la seconda ragione è che, nella maggioranza dei casi, l’omelia è tratta, sia pure a grandi linee, da qualche manuale di predicazione, salvo ritocchi e modifiche, e dunque diventa asettica, impersonale e, quel che più conta, noiosa.
Quand’ero bambino ero abituato al pulpito. Allora – eravamo in periodo preconciliare – anche durante la messa, salvo che all’elevazione, il sacerdote predicava per tutta la durata del rito. E anche la sera, nelle chiese principali come S. Ignazio o al Gesù, si esibivano i grandi oratori che sapevano tener desto l’uditorio con tutti gli arnesi del mestiere: il gesto, la mano levata a mo’ di ammonimento, la voce ora minacciosa ora suadente, le pause studiate. È probabile che molte di quelle prediche fossero troppo artefatte, troppo sceneggiate. Non lo nego. Ma avevano il pregio di farsi ascoltare anche se facevano ricorso a tutto l’armamentario un po’ consunto di apparizioni, miracoli e storie edificanti.
I predicatori di oggi – salvo naturalmente le debite eccezioni – non hanno nemmeno quei vecchi pregi. Conosco alcune parrocchie dove il risultato finale dell’omelia è la noia mortale. Il fedele dentro di sé pensa: “Dio mio, ma quando finisce?”.

La seconda osservazione che mi viene da fare è la lunghezza. Viviamo tutti in un’epoca di velocità, con dei ritmi estremamente serrati. Chi le scrive ha fatto l’inviato in tante parti del mondo. Il tempo massimo permesso dai telegiornali e giornali radio era di due minuti se l’avvenimento era importante, ma si riduceva a un minuto e mezzo se il fatto era di secondaria importanza. E allora mi chiedo: perché costringere la gente inchiodata al banco per venti minuti quando i tempi vanno contati sul metro dell’attualità? Ora non dico che un’omelia debba durare un minuto, ma deve essere stringata e viaggiare su misure alle quali il fedele è abituato. Del resto, la stessa televisione e radio danno esempi di brevità anche nelle rubriche religiose dove una meditazione non supera i tre minuti. Fra i tanti programmi andati in onda, ricordo qui una serie di Piero Gheddo che era esemplare per sintesi.

Ma, caro don Franco, lei mi potrebbe obiettare che quello che conta non è né il tempo, né il foglietto scritto. Ma quello che c’è dentro la predica, cioè il pensiero, il messaggio, l’essenza.
Concordo con lei. Il messaggio è la cosa più importante. Ma è proprio qui che si colgono in tanti predicatori domenicali i limiti della comunicazione. Non si può imbottire la coscienza del fedele di tanti precetti che, finita la messa, svaniscono come neve al sole. Non si può dire alla gente che dev’essere casta, devota, caritatevole, mite, di preghiera, di sacrificio, ligia ai propri doveri di stato, buoni mariti o buone mogli, e tutto questo in venti minuti. Il risultato è che di tanti saggi consigli non resta niente se non un vago invito ad essere buoni.
Sono del parere che la predica debba dare al fedele un concetto, uno solo. Qualcosa che lo accompagni durante la settimana. Un pensiero chiaro, limpido, essenziale che non muoia, appunto, all’uscita della chiesa. E questo consiglio resterà impresso quanto più sarà stato lineare. Ma tutto questo esige dal sacerdote preparazione, cultura, senso del pubblico e capacità di comunicazione. Lo so, è un lavoro che richiede fatica e intelligenza. A fare una predica infarcita di luoghi comuni ci vuole poco. Per colpire il fedele e lasciare un segno, ci vuole molto. Come diceva Montanelli, la chiarezza costa una grande fatica. Vale per un articolo e per una predica. Occorre sfrondare il testo da tutte le cose accessorie e puntare all’essenziale.

C’è poi una cosa, caro don Franco, che nella predica di tanti sacerdoti trovo astruso: il distacco dalla vita reale.
Provo a chiedere a me stesso: cosa cerchi in un’omelia? Ecco, io cerco qualcosa che si inserisca nella mia vita di ogni giorno. L’omelia dev’essere – mi piace usare questo termine – esistenziale, deve calarsi nella mia vita personale, di famiglia, di ufficio, politica, civile. Deve trattare con quello che tocca la mia sfera personale, il dolore, la malattia, la morte, la disoccupazione, il clientelismo, le disillusioni, le amarezze, i figli, la suocera, la professione, il successo o l’insuccesso, la solitudine, la vecchiaia. Qualcuno dirà: ma la domenica il sacerdote deve spiegare il vangelo. D’accordo. Ma il vangelo deve parlare all’esistenza di ognuno, dev’essere attualizzato, dev’essere una verità rimodellata sulla vita di oggi, resa contemporanea.
Sento invece sempre di più in giro un vangelo asettico che non incide sui miei problemi personali, sui problemi quotidiani della gente, un vangelo rarefatto, sospeso a mezz’aria, buono per tutte le stagioni, ieri come oggi. E proprio perché così, non incide nella mia coscienza, mi passa sopra come acqua che scivola via. Riassumere i fatti del vangelo con altre parole, sbrodolare una parabola succinta con un riassunto abborracciato non serve a niente. Irrita solamente.
Faccio qualche esempio perché il mio discorso non sembri solo teorico. Vivo in una parrocchia dove i fedeli sono in maggioranza professionisti, alti dirigenti di stato o di banche, politici, giornalisti. Quali saranno i peccati di questa gente? Solo l’amante, l’adulterio, il tradimento come è ormai un consumato cliché?
Conoscendo qualcuno di loro, so che si sentono a posto con la coscienza perché non hanno divorziato, non hanno praticato l’aborto e non hanno tradito la moglie. La vita cristiana finisce dunque tutta qui? Proprio perché ne conosco personalmente alcuni, so che esistono altre forme di peccato sulle quali non si richiama mai l’attenzione. Molti di costoro improntano il loro lavoro al più bieco clientelismo. Se non si è della stessa parrocchia politica, non c’è spazio. E dunque favoriscono appalti truccati, falsi concorsi in cui si sa già chi è il vincitore. Direttori generali e dirigenti che umiliano chi non ha santi in paradiso e che emarginano i meritevoli. I quali magari porteranno questa ferita per chissà quanti anni. Ebbene, io penso che un’omelia “esistenziale” non possa prescindere da problemi come questi. È inutile parlare di giustizia in termini vaghi che lasciano il tempo che trovano, occorre risvegliare nel fedele una sensibilità per questi temi del nostro tempo.
Mi sembra, caro don Franco, che vi sia oggi molto formalismo religioso che si appaga di formule vuote. Faccio un esempio: ogni volta che dopo il Pater noster viene l’invito a stringere la mano in segno di pace, penso sempre che si tratta di un simbolo che bisognerebbe caricare di significati concreti. Mi piacerebbe che il sacerdote dicesse: “Perdonate dentro di voi la persona che non amate, vostra suocera, vostra moglie, la segretaria, il capufficio. Perdonate in cuor vostro la persona che odiate”.
Ecco, allora il segno di pace diventerebbe un segno tangibile, tale da incidere nella nostra vita quotidiana. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.

Lei mi chiederà a questo punto, caro don Franco, perché si verificano fra i sacerdoti questi che potremmo chiamare disguidi di formazione. La ragione, a mio modo di vedere, sta nella crisi che investe il clero sempre meno sicuro della sua identità e della sua funzione sociale. Ricordo nella mia infanzia parroci di paese che si sentivano veramente pastori della comunità, e la comunità li considerava una guida. Oggi incontro nelle campagne poveri parroci che non hanno più nemmeno la perpetua, che si cucinano da soli e che vivono spesso trascurati o dimenticati dal paese. Non è possibile che una situazione sociale così disastrata non si ripercuota in modo sensibile sul clero.
C’è inoltre un deficit di cultura. Non che la cultura basti di per se stessa. Un sant’uomo irraggia attorno a sé un alone di amore e di carità che vale diecimila prediche intelligenti. Ma qui parliamo di gente normale. QQQuando si ha una cultura modesta e non si è santi, allora il difetto è visibile. Un sacerdote deve essere in sintonia col proprio tempo, deve leggere i giornali (non solo Avvenire e l’Osservatore), deve guardare – anche se stanca – la televisione per sapere cosa bolle in pentola. Solo così si entra in sintonia con lo stesso ambiente dei propri parrocchiani. Solo così quel brano di vangelo può essere attualizzato, immerso nella realtà, e non un vangelo atemporale ed evanescente che sa di supermercato sacro, buono per ogni domenica e per tutti gli ambienti.
Mi rendo conto, caro don Franco, delle difficoltà che questo tipo di catechesi incontra. A mio parere, occorre battere la strada della “riqualificazione” come si usa in tutte le aziende del mondo. Gli anni di seminario non bastano per tutta una vita. Penso che dei corsi veloci, essenziali, sintetici potrebbero migliorare la situazione. Non capisco perché industriali e uomini politici si affidano a esperti di comunicazione, e un sacerdote può fare a meno di questi sussidi. Resto convinto che un po’ di tecnica e di buono studio potrebbe darci dei risultati. Non si tratta di organizzare dei corsi di lunga durata ma semplicemente di tanto in tanto una “tre giorni” che rinfreschi la mente e rimetta in circolo nuove idee.
Caro don Franco, quello che le ho scritto è la mia modesta esperienza di fedele, suscettibile di critica e di disaccordo. Non pretendo di aver ragione. Avanzo solo dubbi e perplessità. Se queste righe potranno suscitare un dibattito, ne sarò lieto. Chi avrà da guadagnarne sarà la spiritualità di tutti noi.
Mi creda sempre con affetto, suo

Carlo Napoli
carlo.napoli5@tin.it

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Carlo,
il tuo messaggio è certamente interessante, anzi molto interessante e merita una profonda riflessione che mi riservo di fare, scritta, in futuro.
Certo ....la predica è estremamente difficile: su questo mi pare che siamo d'accordo e siamo d'accordo sulla necessità di una faticosa preparazione, normalmente .....e siamo d'accordo sul "muro culturale" che a volte noi sacerdoti ci troviamo a dover drammaticamente scalare. Interessante è quello che dici sul tempo e gli esempi che fai a sostegno della tua tesi; interessante è anche la tua riflessione sul soggetto della predica.
Insomma come ripeto la tua lettera è molto interessante.
Voglio pregare bene e riflettere su queste indicazioni che ci offri così da poter trarre da esse le indicazioni profonde che Dio ci offre attraverso te.
Grazie molte.
D. Tullio