giovedì 15 novembre 2007

COME INTERPRETARE L'ESPRESSIONE "ETERNO RIPOSO"?

Cara Settimana,
vorrei che qualcuno mi fornisse una spiegazione plausibile dell’espressione «eterno riposo», contenuta in una delle nostre più popolari preghiere per i defunti.
Per l'uomo biblico il «riposo eterno» è il sommo bene desiderabile, che si identifica con quella che i teologi sogliono chiamare «visione beatifica». Per i cristiani praticanti e per gli addetti ai lavori questo termine significa il paradiso. Agli altri comuni mortali che entrano in chiesa soltanto per i funerali, ed eventualmente anche la notte di Natale, e che pure si vogliono far chiamare cristiani, cosa dice l’espressione «riposo eterno»?
Non ho fatto un’indagine scientifica con gli strumenti che attualmente sono a disposizione. Mi augurerei che qualcuno lo facesse, se pur non l'ha già fatto. Ho soltanto chiesto alla gente comune e ho scoperto quello che sospettavo.
Potrei citare un campionario di risposte, talune anche scontate, altre crudamente sconvolgenti: «Dormire per sempre è il destino che ci attende», «Un sonno eterno da cui non ci si sveglia più», «Una specie di coma totale in cui cessa ogni forma di vita attiva», «Un’ibernazione perpetua, quasi una conservazione sotto vuoto, a bassissime temperature», «Si cade in letargo, come certe specie di viventi», «È come il Nirvana che i buddisti predicano».
Per finire: cosa significa per te: «Ripòsino in pace»? Risposta: «Che non bisogna disturbarli», «Che si devono lasciar tranquilli», «La quiete sovrana in cui sono immersi va rispettata».
C'è da riflettere, ma anche da fare qualcosa. Due millenni ci separano dalla cultura in cui è nata la Bibbia, duemila chilometri ci dividono dal mondo semita, anni luce si frappongono fra quella mentalità e l'uomo televisivo di oggi. Senza discutere – e ce ne sarebbe all'infinito –, io comincio la liturgia funebre, specialmente quando ci sono in chiesa quei tali cristiani di cui si diceva prima, e sono la maggioranza, così: «Accogli Signore nella tua casa il nostro fratello… Donagli la gioia eterna, perché possa godere con te nella felicità che dura sempre».

don Pietro Mozzato (VE)
pmozzato@libero.it

Non c’è dubbio che il termine “riposo” nell’eucologia cristiana sia oggi a rischio di grossolani fraintendimenti, soprattutto in un contesto sociale dove il riposo si identifica sovente con il semplice far niente o dormire dopo una fatica o, paradossalmente, dopo una movimentata “festa” dove la notte è stata scambiata con il giorno.
Il rischio di malinteso ha, tuttavia, radici ben più gravi e profonde. In particolare, l’affievolimento della fede nella vita eterna con la conseguente ricaduta in concezioni pagane dell’aldilà: l’ade dei greci, gli inferi dei latini o lo sheòl immaginato dal popolo del Primo Testamento nel suo lento cammino verso la piena rivelazione. Cioè, un mondo di profonda oscurità (Sal 88,7.13) dove i morti sopravvivono come ombre in un’esistenza senza valore e senza gioia, «terra di caligine e di disordine dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,22).

Familiarità con il linguaggio biblico. I malintesi odierni sul «riposo eterno» sono causati soprattutto da una lacunosa formazione biblica. «Massima è l’importanza della sacra Scrittura nel celebrare la liturgia. Da essa, infatti, vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici e da essa prendono significato le azioni e i segni» (SC 24). Non ci può essere, pertanto, alcuna autentica intelligenza delle realtà cristiane se non a partire dalla Bibbia e dalla liturgia, che s. Agostino definiva «tamquam visibile verbum», cioè una parola, un messaggio che si fa immagine (In Joh. Ev. Tract. LXXX, 3, CCL 36, 529).
Per questa ragione, lo stesso numero della costituzione conciliare sulla liturgia continua: «Perciò, allo scopo di favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della sacra Scrittura che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali».
Ora, la Scrittura – come la liturgia – non possono presentare l’aldilà, le realtà soprannaturali se non con immagini umane, a partire dall’esperienza umana, per quanto inadeguata ad esprimere la realtà di Dio e della vita oltre la morte.
Il riposo è il momento in cui l’essere umano non solo rigenera le forze consumate durante il lavoro, ma è anche, e soprattutto, il momento in cui egli trova la gioia profonda di quelle relazioni umane che danno pienezza di senso alla vita. Il riposo non è pertanto un semplice far niente. Anzi, il restare del tutto inattivi e soli stanca e distrugge più del lavoro.
La vita eterna non ha niente da spartire con la “casa di riposo”. Già nel Primo Testamento essa è adombrata come il pieno raggiungimento di tutte le umane aspirazioni; piena comunione del giusto con Dio, partecipazione alla vita stessa di Dio, un Dio che «opera sempre» (Gv 5,17). «Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio ho posto il mio rifugio per narrare tutte le sue opere presso le porte della città di Sion» (Sal 73,28). Per questo la Bibbia fa del riposo l’immagine del traguardo ultimo della nostra esistenza.

Il riposo come compimento della storia della salvezza. È soprattutto il riposo sabbatico che ci permette di interpretare correttamente la preghiera che eleviamo a Dio perché conceda il riposo eterno ai defunti. Il riposo sabbatico, infatti, è presentato dalla Scrittura come un dono di Dio (cf. Es 16,29), perché gli uomini possano sperimentare la libertà dalla fatica, dalla schiavitù (cf. Es 23,12), da ogni sopruso di un uomo sull’altro (cf. Gs 1,13-15). Il riposo è l’immagine con la quale la Scrittura esprime il raggiungimento della terra promessa dopo il lungo e faticoso esodo dalla schiavitù dell’Egitto (cf. Dt 5,15).
Il profeta Ezechiele riprende la stessa immagine per descrivere il secondo esodo, il ritorno a Gerusalemme dopo la schiavitù babilonese: «Vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore» (37,14). Il salmo 23 canta: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare...». La lettera agli Ebrei, commentando il salmo 95, riprende questa immagine del riposo per esprimere il compimento del disegno divino di salvezza (cf. 4,1-3).
Il riposo di cui parla la Scrittura, e quindi anche la preghiera cristiana, non è il silenzio della morte, ma il possesso di tutte le benedizioni di Dio. Infatti, nella spiritualità biblica riposare significa partecipare a quel riposo di Dio che celebra il compimento della creazione, anzi, di tutto il suo progetto di salvezza (cf. Gn 2,3). In altre parole, riposare significa prendere parte alla vita gloriosa di Dio. «Beati fin da questo momento i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono» (Ap 14,13). In contrapposizione, «non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome» (Ap 14,11).
Il raggiungimento del riposo pieno e gioioso è appannaggio di quanti non hanno abbandonato la fiducia in Dio e, avendo creduto alla parola del suo Figlio Gesù, non hanno piantato definitivamente le loro tende per adorare quel vitello d’oro che è simbolo di tutte le nostre idolatrie (cf. Eb 3,7-19).

Alle origini della nostra preghiera per i defunti. Alla luce della Scrittura, la tradizionale preghiera che la pietà cristiana rivolge al Signore per i defunti non dovrebbe dare adito né ad ambiguità né a banalizzazioni.
Il breve testo si concentra su due eloquenti immagini bibliche che, ovviamente, si radicano su due forti esperienze umane: il riposo (requies) e la luce (lux). Parole chiarissime e familiari per i cristiani dei primi secoli. Esse, infatti, si trovano ricorrenti nelle più antiche iscrizioni funerarie cristiane (cf. Requies in DACL, t. XIV, II).
In una necropoli cristiana risalente al V secolo e scoperta nel 1911 ad Ain Zara, 14 km a Sud-est di Tripoli, per ben 26 volte si trova scritta sulle tombe questa formula di preghiera: «Requiem aeternam det tibi Dominus et lux perpetua luceat tibi». Formula che è mutuata dall’apocrifo IV Libro di Esdra (III sec.).
Questa invocazione, opportunamente adattata al plurale, entrò nel Graduale Romano in epoca gregoriana (VI sec.) come canto d’introito per la messa funebre e di lì passò nella prassi della preghiera popolare con l’aggiunta del «requiescant in pace». Quest’ultimo augurio è desunto dalla memoria quotidiana dei defunti che, a partire dal breviario francescano (XIII sec.), concludeva le diverse ore dell’ufficiatura monastica (= Fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace. Amen) e, poco tempo dopo, anche la messa per i defunti (cf. M. Righetti, Storia liturgica, II 377; 628-629; J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia, II 325, 333).
Ora, qualsiasi espressione che, in una monizione introduttiva, evochi con termini più immediati la fede e la speranza nella vita eterna è più che lecita, purché non si rinunci nell’eucologia liturgica e privata ad una formula che ci ricollega alle immagini della Scrittura e a quasi venti secoli di tradizione, anche se ciò richiede una previa catechesi biblica.

Silvano Sirboni

1 commento:

Unknown ha detto...

Perchè rispondere in modo così complicato a una questione così semplice?
"Eterno" non vuol dire "infinito" (errore molto comune) ma "fino alla fine dei tempi". L'eternità, cioè il tempo che resta da adesso alla fine dei tempi, può essere lunga o breve, non importa. La fine dei tempi può avvenire tra un istante o tra molti o moltissimi anni, ma quando avverrà, sarà la fine anche di "eterno", perché il tempo non ci sarà più.
Invece "perpetuo" ("splenda ad essi la luce perpetua") è l'immutabile istante fuori dal tempo, quando il tempo non c'è.
Quindi, la preghiera si può rileggere così: i defunti abbiano pace fino alla fine dei tempi, e giunti ad allora possano godere della luce senza tempo, cioè della visione divina in una condizione non più mutevole.
La preghiera dell'"eterno riposo" perciò non mette affatto a confronto "eterno" e "luce", ma "eterno" e "perpetuo". Ed è una sintesi teologica cristiana davvero geniale (lo dico pur essendo non credente, perchè la trovo in ogni caso ammirevole).
Nell'"Eterno riposo" non c'è perciò nulla di teologicamente scandaloso, anzi. Casomai è scandalosa la confusione tra "eterno" e "infinito", ma si sa che "infinito" è un concetto molto rischioso da maneggiare...