lunedì 28 maggio 2007

E DOPO IL "FAMILY DAY"?

Cara Settimana,
di ritorno dal grande raduno romano del “Family Day” (ma perché poi un nome inglese…?), alcuni miei amici hanno testimoniato con grande entusiasmo il clima di serenità, fraternità e imparzialità politica che vi si respirava, davvero una grande festa della famiglia, a difesa dell’istituto familiare ma senza battaglie ideologiche o “di campo”. Hanno poi sottolineato il grande valore di testimonianza dell’esserci stati, come cattolici, e lasciato intendere – tra le righe, ovviamente! – che questa pacifica battaglia avrebbe dovuto coinvolgere e muovere tutte le coscienze credenti (ben oltre il milione di partecipanti…) veramente preoccupate di tutelare l’unità e il valore della famiglia.
Confesso che, dopo aver ammirato le belle immagini dei passeggini o dei bimbi sdraiati sul prato di Piazza San Giovanni nel solare sabato del maggio romano e gli sguardi sorridenti dei politici (quasi tutti del Centro-destra…però) che in maniche di camicia sfilavano felici tra la folla quasi incurante di loro, mi sono un poco incupito e sentito alquanto in colpa – come cattolico praticante anch’io – per non aver accolto l’invito dei vescovi e partecipato all’Evento, sponsorizzato attraverso le migliaia di parrocchie italiane (non tutte, per la verità, hanno distribuito ai fedeli i colorati volantini).
Dalla piccola discussione che ne è sorta ho tratto alcune domande e considerazioni che mi piacerebbe trovassero eco sulla vostra apprezzata rivista, di cui sono affezionato lettore. Tutti noi cattolici amiamo la famiglia e vogliamo difenderne il valore istituzionale rispetto a forme contraffatte e surrogate (vedi i casi francese e spagnolo), ma – come si chiedeva Domenico Rosati dalle colonne de Il Mattino del 12 maggio – «chi non partecipa [al Family Day] detesta la famiglia o l’ama di meno?».
Il punto critico – a mio avviso – non è partecipare o meno ad una manifestazione, che si presta ad inevitabili manipolazioni e strumentalizzazioni politiche di parte (vedi i diversi slogan contro il ministro Rosy Bindi o le esternazioni di Silvio Berlusconi sulla necessità per un cattolico di votare Centro-destra), ma sostenere l’unione familiare fondata sul matrimonio senza disconoscere la necessità di regolare la situazione delle tante e sempre più diffuse coppie di fatto; secondo le fonti Istat negli ultimi dieci anni esse sono raddoppiate in Italia (oltre mezzo milione) e non sempre per una «volontà trasgressiva dei conviventi» – come afferma Bartolomeo Sorge su Aggiornamenti sociali n. 5/2007 –, ma spesso per «impedimenti obiettivi, difficilmente superabili, di natura economica o psicologica». Per cui «le coppie di fatto vanno rispettate» e non è possibile eludere il problema.
Credo che come cattolici, incarnati in una «società “politeista” in cerca di approdi» (Rosati), per il duplice principio – anch’esso “non negoziabile” come quello della famiglia! – della responsabilità della coscienza personale e della laicità dello stato, non possiamo tirarci indietro dalle scelte e dai rischi nella «costruzione di un bene comune da inventare, con tutti, sui faticosi sentieri della democrazia».
Mi viene anzi da pensare che, per un cattolico, manifestare per una cosa ovvia e condivisa (il valore della famiglia), ma all’interno di una polemica politica scoppiata all’indomani del disegno di legge governativo sui Dico e della successiva Nota firmata dai vescovi del Consiglio permanente della Cei sul valore della famiglia e sulle iniziative di legge in materia di unioni di fatto, possa essere stata la strada più facile per non vedere la complessità dei problemi e delle responsabilità a cui sono chiamati i cattolici, specie quelli impegnati in politica.
E qui mi allaccio ad un altro tema strettamente collegato al precedente. Mi pare evidente che il laicato cattolico non sia un tutt’uno compatto e indistinto, anche nel modo di intendere la traduzione dei valori cristiani condivisi in concrete scelte politiche o pastorali, ma che al suo interno coesistano diverse anime (quelle che l’on. Binetti ha definito come “cattolicesimo democratico” e “cattolicesimo popolare”).
Ho però l’impressione che si stia delineando e promuovendo sempre più un laicato di tipo “popolare” e devoto, affascinato da una visione piuttosto emotiva della spiritualità cristiana, attratto più dalle devozioni e dalla divulgazione religiosa, che da una robusta formazione biblica, teologica e spirituale di matrice conciliare.
Sinceramente – e mi scuso per la schiettezza, che non vuole offendere nessuno – oggi mi sembra di vedere laici alquanto allineati su posizioni che hanno scarsamente approfondito e deboli nel “rendere fondatamente ragione della speranza che abita in loro”, forse più preoccupati del loro benessere psico-fisico-spirituale personale e familiare che del bene comune, interessati sì a “guadagnarsi” un pezzo di paradiso ma esulando un po’ dalla storia in cui sono immersi e dalla complessità delle sue problematiche.
Mi chiedo allora – e qui sento diminuire i sensi di colpa per non essere quel tipo di cattolico “militante” che da più parti si invoca –: il pur legittimo “devoto allineamento” (Rosati) di tanti cattolici (anche di grandi organizzazioni cattoliche) può forse farci desiderare un modo diverso di essere “coerenti e responsabili” (come auspica la Nota)?

Antonio Russo (Caserta)

mercoledì 9 maggio 2007

SUI DICO: EDUCARE I CRISTIANI A SCELTE RESPONSABILI

Cara Settimana,
vorrei esprimere la mia opinione circa l’attuale dibattito sui Dico fra la gerarchia della chiesa cattolica e l’attuale governo.
Intanto vorrei precisare che uno stato laico come quello italiano deve legiferare nell’interesse di tutti i cittadini al di là della loro religione, della propria fede, della propria cultura…
La chiesa, a mio modesto parere, ha il diritto/dovere di esprimere la sua opinione, ma non si può sostituire alla coscienza delle singole persone, poiché la coscienza di ogni uomo risponde direttamente a Dio.
Questo modo di agire della chiesa gerarchica cattolica, frequente in passato, ha portato alla conseguenza che ancora oggi abbiamo molte persone che vogliono sapere dal parroco come comportarsi in diverse situazioni, in particolare per quale partito è bene votare o quale politico è bene sostenere. Non chiedono semplicemente un parere o un consiglio, ma vogliono sapere con precisione come comportarsi. Questo retaggio di una vecchia educazione non incoraggia le persone ad assumersi le proprie responsabilità. È un atteggiamento ereditato dal passato clericalismo ma esso, in parte, è ancora presente in molti cristiani del nostro tempo.
Con le decise prese di posizione e proibizioni della gerarchia della chiesa, il cristiano viene asservito all’obbedienza alla chiesa, ma in questo modo non maturerà mai la propria responsabilità umana e cristiana.
La legge sui Dico – si dice – distruggerebbe la famiglia. Ma la famiglia è già stata in parte distrutta, non penso dallo stato e tanto meno dalla chiesa. Penso piuttosto dal benessere, dalla mancanza di punti di riferimento forti come il sapersi decidere di prendere una decisione che vincoli una vita intera. Viviamo in una società dal pensiero debole in cui ciò che decido oggi domani non vale più.
Di fronte a questo dibattito specifico, mi domando come mai altrettanti dibattiti non si verifichino per i grandi problemi planetari del mondo contemporaneo: le guerre, la fame, l’ingiustizia dilagante, l’inquinamento, lo sfruttamento sistematico, l’accoglienza dello straniero e gli uguali diritti di tutti gli esseri umani. Certamente la chiesa ne parla, ma senza scaldarsi, senza prendere posizioni drastiche come sul fatto sui Dico.
Di fronte ad uno stato laico il compito dei vescovi e dei parroci dovrebbe essere, secondo me, quello di dire alla gente che si dichiara cristiana e che frequenta le nostre chiese che le leggi dello stato non sempre coincidono con le leggi della chiesa. E che quindi è necessario fare le proprie scelte responsabili da cristiani, spesso contro corrente.
I cristiani di oggi, che si riconoscono tali, devono accettare di essere minoranza e diventare lievito del mondo e la chiesa segno profetico innalzato fra le nazioni. Questo mi sembrerebbe il compito della chiesa istituzionale, affinché la gente, e soprattutto la gente più semplice, non faccia di ogni erba un fascio.
La gerarchia della chiesa cattolica dichiara di riconoscere lo stato laico, ma lo fa, mi sembra, molto a malincuore.

don Piero Raffaelli (LU)

UN PARROCO VALUTA IL FAMILY DAY DEL 12 MAGGIO

Cara Settimana,
qualche giorno fa a me parroco – come credo a tutti parroci d’Italia – è arrivata una lunga lettera del presidente del Forum delle associazioni familiari e responsabile del “Family day”, che mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca.
Mi sembra di capire che scopo della lettera è dimostrare ai parroci che il loro aiuto sarà determinante per la riuscita del “Family day”. Ricorda che la decisione di quella manifestazione è sì nata dai movimenti ecclesiali laicali, ma sono soprattutto i parroci in grado di farsi ascoltare dal popolo che costituisce le nostre parrocchie. In conclusione: forza parroci, lavorate perché la gente venga e farete bene se verrete anche voi!
L’amaro in bocca cui mi riferivo nasce da questo pensiero: perché, se noi parroci siamo così determinanti, non siamo stati consultati prima di prendere la decisione di organizzare il “Family day?”. Sarebbe bastata una breve lettera, con preghiera di rispondere a strettissimo giro di posta, per sapere cosa ne pensano i parroci d’Italia. Perché aver lasciato decidere tutto ai movimenti e poi scrivere ai parroci di darsi una mossa e di mandare gente? Sono proprio sicuri – gli ideatori di quella giornata – che essa sarà un fatto ecclesiale del tutto pacifico e solo positivo, senza lasciare ulteriori strascichi di divisione e scollatura tra i laici cristiani?
Ricordo che nelle grandi manifestazioni del recente passato – come i vari Giubilei per categorie durante l’Anno Santo del 2000 – non ci sono giunte sollecitazioni perché il popolo cristiano si muovesse. Quando i cattolici “sentono”, si muovono senza particolari insistenze. Perché stavolta in una manifestazione che – pur con tutte le rette intenzioni – un certo “sapore” politico rischia di averlo, ci si raccomanda ai parroci perché la gente vada? Gli organizzatori hanno forse un sommesso timore che siano troppo pochi i cattolici per riempire l’immensa Piazza San Giovanni abituata a folle oceaniche di ogni tipo?
Su Avvenire di qualche settimana fa abbiamo tutti letto un intervento del sociologo cattolico Campanini che si domandava se si fosse ben ponderato il «costo pastorale» degli innumerevoli interventi ad ogni livello sul famoso disegno di legge riguardante le coppie di fatto. È del tutto improprio rifarsi la stessa domanda su questo convegno romano del 12 maggio?
Quanto poi al nome della manifestazione, in un editoriale sul Corriere del 20 marzo scorso, il giornalista Beppe Severgnini osservava: «Il 12 maggio tocca al “Family day”: forse abbiamo scelto un inutile nome inglese per nasconderci cosa abbiamo in programma, un’altra giornata eccezionale in un’Italia in deficit di normalità».

Un parroco (lettera firmata)

MORTI BIANCHE E COSCIENZE SPORCHE

Caro direttore,
le notizie di questi ultimi giorni relative ai morti sul lavoro, definite dai mass media “morti bianche”, sono impressionanti! Nella grancassa dei mass media nazionali, raffinati opinionisti si sono affrettati a spiegare il fenomeno dicendo che il numero complessivo delle vittime in Italia, non si discosta più di tanto dalle medie degli altri paesi europei e che in una certa qual misura questo è il prezzo doloroso che le società avanzate devono pagare ad un progresso pressoché inarrestabile.
Varrà perciò la pena, di fronte a questi tentativi di anestesia totale sulle coscienze degli italiani, ricordare che nel nostro paese nel 2006, sono stati quasi 1.300 i morti caduti sul fronte del lavoro e questa non è che la punta di un iceberg che ignora una realtà ancor più nascosta dove è logico supporre ci siano altre vittime che non vengono denunciate.
Pensiamo al lavoro sommerso, una piaga per la realtà italiana, e immaginiamo quanto questo fenomeno sia ancor più tragico e devastante per il mondo degli extracomunitari. Aggiungiamo, inoltre, quel considerevole numero di vittime legato al settore degli autotrasporti dove chi muore in auto o sui camion viene inglobato negli incidenti stradali, mentre dovrebbe essere annoverato come vittima del lavoro. Sempre per restare nel campo della mobilità, andrebbero considerati anche quei pendolari che restano coinvolti in incidenti stradali, a volte lontani centinaia di chilometri da casa.
E poi come tacere il triste fenomeno delle malattie contratte in ambienti insalubri (pensiamo solo alla tragica realtà della lavorazione dell’amianto, fortemente presente nelle nostre zone) dove un killer cancerogeno silenzioso, contratto durante gli anni lavorativi, agisce a volte, a distanza di tempo, distruggendo i restanti anni di pensione?
Abbiamo da poco celebrato il 1° Maggio, data simbolo per le classi lavoratrici di tutto il mondo. Non possiamo nascondere che se i lavoratori hanno raggiunto (grazie alle coraggiose lotte condotte da generazioni di uomini e donne che non accettavano più di essere sfruttati) considerevoli traguardi per quanto riguarda la qualità della vita, molto resta ancora da fare per quanto riguarda la sicurezza negli ambienti lavorativi.
Un sistema economico-produttivo che mette al centro esclusivamente il profitto, infischiandosene delle persone considerate come un elemento “sostituibile” nelle dinamiche produttive alla stregua di un qualsiasi pezzo di ricambio in caso di “guasto”, rende ancora più urgente e necessario portare all’attenzione dell’opinione pubblica e in modo particolare alle comunità cristiane che il lavoro – ma in modo più puntuale bisognerebbe dire “la persona che si realizza in pienezza e dignità attraverso una specifica attività lavorativa” – deve essere posto al centro di ogni attenzione politica, economica, sociale e primariamente pastorale.
Dobbiamo essere vicini alle famiglie provate dal dolore per la tragica scomparsa di un loro caro morto sul lavoro.
Le “morti bianche” proliferano là dove è presente e si alimenta nel silenzio acquiescente di un'opinione pubblica inerte e distratta, una “coscienza sporca” legata a interessi economici non sempre trasparenti e cristallini. Impegnarci per cancellarle entrambe è un dovere sacrosanto per tutti e un imperativo morale per ogni credente.

Mario Bandera (NO)

FAMIGLIE E COPPIE DI FATTO TRA STATO E CHIESA

Cara Settimana,
all’indomani della presentazione del disegno di legge sulle coppie di fatto non posso nascondere di essere profondamente addolorata. Quello che provo, con tutta franchezza, è una sensazione di disorientamento che certo non aiuta a porsi in un atteggiamento di riflessione serena e seria sull’argomento. Prendere atto della necessità di un provvedimento del genere da parte del governo è un’ulteriore conferma dell’indebolimento della famiglia tradizionale.
Credo ancora di più quello che abbiamo sempre affermato nell’Associazione, all’interno del Forum nazionale delle famiglie e nei nostri dibattiti pubblici aperti alla cittadinanza, che la famiglia, cioè, sia stata per lunghi anni dimenticata: poche le politiche familiari attuate, scarsi e inadeguati i servizi offerti. Quel poco che si è fatto è stato confinato nell’ambito dell’assistenzialismo… dando un quadro già precario di una famiglia “malata” o “quasi morente”. Poco si è parlato e si è fatto per le famiglie eroiche che, nella normalità di tutti i giorni, hanno tirato su generazioni, hanno accolto bambini con l’affidamento e l’adozione, hanno prestato cure ai malati, hanno accolto e vissuto l’handicap o i disagi psichici dei propri figli, non hanno abbandonato gli anziani scegliendo di accompagnarli fino alla morte...
Ancora una volta la famiglia sembra abbandonata dal legislatore. Le questioni che riguardano le politiche familiari non sembrano essere tra le priorità e non creano nessuna risonanza mediatica nell’opinione pubblica.
Purtroppo, gli animi accesi portano il dibattito non tanto sullo stato di salute e di tenuta delle nostre famiglie, ma piuttosto sull’altra importante questione delle cosiddette unioni civili.
Penso che i toni accesi di certe indignazioni sul riconoscimento delle coppie di fatto non ci aiutino a mantenere una certa lucidità sull’argomento. La società di oggi è molto complessa, le scelte sono sempre più individuali e a volte anche vissute in solitudine. Di fronte a tutto ciò che investe la persona, dovremmo riscoprire un atteggiamento di religioso rispetto che valuta le situazioni, ma evita di generalizzare in modo superficiale e si esime dal dare giudizi.
Credo che la vera minaccia per il matrimonio e la famiglia non siano tanto le convivenze, ma piuttosto le separazioni e i divorzi che sono diventati tollerati e praticati tanto da rientrare nella mentalità dei più e sono ormai costume sociale. Solo nella nostra città, a Prato, ci sono circa 1.200 separazioni l’anno. Al tribunale di Prato sono tre i giorni dedicati alla materia: il lunedì per la “trattazione delle cause”, il mercoledì e il venerdì per la comparizione dei coniugi nel tentativo di conciliazione e sottoscrizione del verbale nel caso di mancata conciliazione.
Ho lavorato con le coppie di fidanzati e di giovani sposi per circa 15 anni e ho tenuto insiemi ad altri per alcuni anni la segreteria nazionale del Movimento familiare cristiano. Devo dire che negli ultimi anni ho partecipato al matrimonio civile e/o religioso di diverse coppie di conviventi. È vero che la loro scelta di convivenza si ispirava a uno stile di vita più o meno condivisibile, ma per alcuni era dettata anche da problemi economici per poter meglio sfuggire agli appuntamenti fiscali, vista la precarietà del lavoro, l’impossibilità di acquistare una nuova casa... A volte tempi lunghi di attesa prima del matrimonio dovuti a ritmi di studio, a impegni di assistenza nei confronti di anziani genitori e ad altre situazioni, portano a scegliere la convivenza. Le convivenze di oggi non credo siano tutte di proposito “alternative” al matrimonio, anzi spesso possono diventare un preludio al matrimonio stesso. Sempre più spesso le convivenze sono la conseguenza di separazioni o divorzi fatti o subiti.
Il disegno di legge sembra rispondere al problema di dover in qualche modo regolamentare la confusione e il disagio sociale ed economico che si è creato nella pratica di divorzi e separazioni. Chi governa non può ignorare quello che c’è. La funzione di arginare e contenere certi fenomeni di disagio, a mio parere, è prioritaria rispetto a una “certa” funzione morale che potremmo attribuire al potere di una legge. A volte si tratta davvero di tutelare la persona debole che, riaccompagnandosi, non ha nessuna garanzia di futuro. Penso a tante donne separate, con figli, in attesa di divorzio, abbandonate dal marito ed esposte ai rischi di una convivenza che non le tutela. Penso alle coppie di vedovi, a fratelli e sorelle, che vedono riconosciuto un legame che ha alleviato le loro solitudini.
Che questa legge crei anche un’opportunità per le coppie omosessuali è inevitabile, perché tra le convivenze c’è anche questo tipo di convivenza, discutibile sì, ma da rispettare. Considero al riguardo molto più pericoloso, e decisamente da riprovare, il fatto di aver permesso che si istituissero i registri delle unioni civili per questi tipi di coppie. Prestare il fianco al rischio di celebrazioni con tanto di atti ufficiali lo trovo alquanto ideologico e propagandistico, mentre trovo un’accortezza intelligente fare dichiarazioni di convivenza non congiunte – come prevede il disegno di legge –. Così non si dà adito a celebrazioni. Perché ad essere celebrato deve essere solo il matrimonio religioso o civile.
Il dibattito su questo disegno di legge dovrebbe diventare per tutti uno stimolo per impegnarsi nei confronti della famiglia. Dovrebbe aiutarci a creare i presupposti per una maggiore tenuta dei legami familiari, magari investendo più energie nei percorsi di preparazione al matrimonio, dando maggior sostegno alla funzione genitoriale, più agevolazioni fiscali e riconoscimenti economici alle famiglie.
Alla chiesa di oggi è richiesta una grande capacità di dialogare con le persone per poter ancora evangelizzare. Fare solo affermazioni di principio spesso allontana e aumenta la distanza tra chi evangelizza e chi desidera l’annuncio evangelico.
Occorre capire senza per questo giustificare, perdonare affermando la verità in cui si crede. Penso che bisogna riscoprire il valore di una testimonianza di vita che faccia presa sull’altro e sia più forte delle idee e dei principi che spesso proclamiamo. Diffido di coloro che difendono strenuamente la famiglia vivendo storie personali di separazioni o di più matrimoni. Non li sento credibili. Molte coppie di separati riaccompagnati stanno sulle soglie delle nostre chiese ad aspettare un gesto d’accoglienza. Non vorrei che per la troppa insistenza sulle affermazioni di principio perdessimo l’occasione dell’incontro vero con la persona. La pastorale spesso interroga la dottrina, ma nel momento in cui pastorale e dottrina dialogano tra loro allora si aprono cammini di verità nell’amore e si svela il valore pregnante della persona che non può essere asservita a nessun principio, a nessuna idea, a nessun altro valore che non sia la possibilità di vivere una vita in pienezza.
Con stima e rispetto,


Cheli Maria Laura

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Cara Settimana,
ho visto e accolto con molto interesse il sussidio pastorale Trasformò l’acqua in vino (EDB), curato da don Enrico Solmi, che, partendo dal Direttorio di pastorale familiare della Cei, propone principi di orientamento e percorsi formativi per le formazioni familiari irregolari.
È un segno incoraggiante e positivo per quelle situazioni difficili, oggi purtroppo sempre più numerose, che non devono sentirsi abbandonate dalla chiesa, bensì seguite con attenzione e premura materna.
Ma qui io non posso fare a meno di chiedermi perché si debba vietare allo stato di interessarsi a quelle stesse situazioni con i mezzi e gli strumenti propri di una società secolare e pluriculturale, che ha a cuore la dignità, i diritti, i dovuti riconoscimenti ai cittadini che, secondo le proprie convinzioni, vivono da soli o in forma familiare tradizionale o in altre forme di convivenza nate da scelta d’amore, rispetto e assistenza reciproca.
Non dovremmo essere contenti anche noi credenti di vedere in quelle condizioni di vita un principio di valore e di benevolenza (spesso esemplare) da incoraggiare e orientare verso la sua più piena realizzazione e maturazione?
Mi viene da concludere col richiamo evangelico: «Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22,21).

don Faustino Pinelli (MO)