“Inchiesta su Gesù”
Pesce risponde a don Giavini
Caro direttore,
ringrazio anzitutto don Giovanni Giavini per essersi occupato del libro Inchiesta su Gesù (cf. Sett. n. 39/06, p. 15). Dopo aver scritto per circa quarant’anni di esegesi per un pubblico di specialisti, è la prima volta che tento di fare un'opera di divulgazione seguendo le domande di uno scrittore e gionalista non cristiano e laico. Ho voluto spiegare ad un pubblico vasto quali sono i pareri, spesso diversi, presenti oggi nell'esegesi scientifica.
Io credo che la ricerca esegetica non debba leggere i testi alla luce della fede, ma neppure alla luce della non-fede. È analisi razionale dei testi e ovviamente parziale, modificabile, sottoposta all'errore e alla soggettività ineliminabile.
La ricerca storica, se è onesta e rigorosa, non offre un’immagine parziale di Gesù. L'esegeta cattolico Spicq, in polemica aspra con J. Daniélou e H. de Lubac, diceva che l'esegesi storica ci porta al centro del mistero, ma ovviamente in modo storico. Se l'immagine di Gesù che si ricava dalla mia intervista è troppo "parziale", ciò può dipendere dalla mia mediocrità e aridità, ma non dal metodo.
Ho molta stima di Giavini come esegeta e persona. Mi sembra però che abbiamo non pochi pareri discordi in esegesi. E Giavini fa molto bene ad esprimere pubblicamente il suo dissenso. Con la dovuta serenità, sottolineo alcuni punti su cui non sono d'accordo con la sua recensione.
1. Ho parlato di una distanza del cristianesimo da Gesù, ma ho anche detto che alcuni considerano lo sviluppo come un tradimento e altri come legittima evoluzione.
2. Che ci sia continuità tra i vangeli (e la chiesa primitiva) e vari elementi del Gesù storico è cosa sempre ripetuta dall’esegesi protestante e cattolica almeno dopo Käsemann. Io, però, distinguo il fatto che un autore della metà o della fine del I secolo o del II secolo ritenga di essere in continuità con Gesù, dal fatto che Gesù abbia detto e fatto ciò che pensano di lui coloro che ritengono di essere in continuità con lui.
3. Sul rapporto Paolo-Gesù, ci sono così tante diverse opinioni esegetiche e teologiche che non mi sembra che, se io aderissi anche alla più radicale, questo mi metterebbe fuori dal normale dibattito legittimo nella più seria delle Facoltà teologiche. Lo stesso vale per la questione di Gal 1 e 2. Le mie tesi sono estremamente diffuse nell'esegesi internazionale.
4. Che il “Padre nostro” sia preghiera che un qualunque pio giudeo poteva pregare senza essere cristiano in nulla lo dice anche Gnilka. Ritengo, invece, che la cristologia di Mt sia matteana non gesuana. Qui c'è veramente un dissenso. La concezione gesuana del perdono dei peccati espressa in Mt 6,12 è, a mio parere, diversa da quella espressa dalla cristologia matteana che si fa luce nelle parole matteane dell'ultima cena. Ma anche questa è una tesi esegetica diffusa. Ovviamente, qui si fa luce la mia personale e perciò limitata interpretazione, presenatata in passato in alcuni articoli riservati ad un pubblico di specialisti.
5. Sì, Gesù non è un cristiano. Qui c’è tutto il problema della nascita del cristianesimo. Come, quando, dove? C’è oggi in corso un dibattito estremamente sviluppato e io sono in ricerca. Non ho raggiunto una risposta che mi soddisfi, come anche ho scritto in una discussione con Giorgio Jossa. Credo che di cristianesimo come lo intenderà la chiesa dei secoli IV-VI si possa cominciare a parlare solo nella seconda metà del II secolo.
6. Sulla bibliografia credo abbia ragione Giavini a criticarne la debolezza. Mi avevano chiesto di citare solo le cose di cui si parlava nell'intervista (che in origine è la sbobinatura di un dialogo). Avrei dovuto resistere alle pressioni dell'editore. Mi auguro però che qualcuno legga i libri consigliati, di Theissen, Sanders o anche solo uno dei tre libri scritti da me con Adriana Destro e citati in copertina dove troverà una bibliografia scientifica con centinaia di titoli.
Grazie, comunque, per avermi obbligato a riflettere ancora.
Mauro Pesce
martedì 19 dicembre 2006
A PARTIRE DAL CONFRONTO TRA DUE CELEBRAZIONI EUCARISTICHE TELETRASMESSE
Una liturgia fedele
al concilio Vaticano II
Caro direttore,
domenica 19 novembre, sono state teletrasmesse, purtroppo quasi in contemporanea, almeno per una parte, due celebrazioni eucaristiche (alle ore 10 su SAT2000 dalla basilica di S. Pietro e alle ore 11 su Rai1 dalla parrocchiale di S. Abbondio in Cremona); ambedue, grazie a Dio, secondo il Messale di Paolo VI, notevolmente diverse, però, sia per il tipo di partecipanti, sia, soprattutto, per l’accompagnamento musicale e i canti.
Nella prima, in S. Pietro, ovviamente la qualità dei fedeli era molto eterogenea, quasi elitaria, con personaggi politici o esponenti sociali ben noti, immancabilmente in prima fila bene inquadrati dalle telecamere; decisamente era predominante l’orchestra di altissimo livello chiamata ad eseguire la famosa Messa di Mozart.
Nella seconda, quella parrocchiale di Cremona, invece, l’assemblea liturgica era composta prettamente dai nostri semplici e umili – verrebbe da dire “ruspanti” – fedeli, tipici della nostre comunità urbane e rurali, costanti nella loro partecipazione domenicale (bellissimi i volti dei ragazzini attenti e compresi, impeccabili nel loro servizio!). Un coro di laici ha animato il canto eseguendo le parti fisse in melodia gregoriana ma non in modo esclusivo bensì coinvolgendo pure gli altri fedeli (esemplarmente il direttore non guidava solo il coro ma pure l’assemblea, come la chiesa insegna). La celebrazione, presieduta dal parroco, semplice, dignitosa, sapeva di autentico, espressione viva di una vera comunità parrocchiale che celebra il Signore risorto nel suo giorno di festa e non altro.
Nel quasi obbligato confronto tra le due messe, motivato dal casuale stretto ravvicinamento, è difficile non cedere alla forte tentazione di porre interrogativi in proposito.
La musica sacra di qualunque autore e tempo, in qualunque sede e celebrazione, deve essere a servizio dell’eucaristia, oppure è possibile e accettabile anche il contrario? Per la messa di Cremona, certamente, non vi sono dubbi; oltre tutto, il contesto e la composizione dell’assemblea, il canto e l’accompagnamento musicale erano chiaramente e direttamente in funzione esclusiva dell’eucaristia. Tra l’altro il canto gregoriano, ovviamente, era in latino a chiara dimostrazione, contro molte falsità sbandierate, che è possibilissimo valorizzarlo, in modo equilibrato, anche usando il Messale di Paolo VI.
Queste celebrazioni, fedeli alle norme e insieme profondamente incarnate nella vera vita del nostro popolo cristiano, non possono non apportare grande conforto a chi ha creduto e crede alla validità della riforma liturgica conciliare, soprattutto in questi tempi in cui pare che si rimettano in moto e in gioco pericolosi riflussi al riguardo, con possibili gravi conseguenze che potrebbero andare ben oltre la liturgia, già importantissima per se stessa, fino a intaccare l’unità e la comunione nelle nostre chiese. Se infatti – stando, per ora, a voci ufficiose –, si giungesse veramente a liberalizzare del tutto l’uso del Messale di san Pio V, lasciando al singolo sacerdote o al gruppetto dei fedeli la scelta di questo in piena parità di quello di Paolo VI, il rischio di una “messa à la carte” non sarebbe per nulla ipotetico. Già i vescovi francesi hanno espresso all’unanimità con grande chiarezza e coraggio le loro serie preoccupazioni in proposito.
Non sarebbe bene e giusto che anche nelle nostre comunità si sentisse il “sensus fidelium” di laici e di pastori fedeli al Vaticano II?
Sebastiano Dho
vescovo di Alba
al concilio Vaticano II
Caro direttore,
domenica 19 novembre, sono state teletrasmesse, purtroppo quasi in contemporanea, almeno per una parte, due celebrazioni eucaristiche (alle ore 10 su SAT2000 dalla basilica di S. Pietro e alle ore 11 su Rai1 dalla parrocchiale di S. Abbondio in Cremona); ambedue, grazie a Dio, secondo il Messale di Paolo VI, notevolmente diverse, però, sia per il tipo di partecipanti, sia, soprattutto, per l’accompagnamento musicale e i canti.
Nella prima, in S. Pietro, ovviamente la qualità dei fedeli era molto eterogenea, quasi elitaria, con personaggi politici o esponenti sociali ben noti, immancabilmente in prima fila bene inquadrati dalle telecamere; decisamente era predominante l’orchestra di altissimo livello chiamata ad eseguire la famosa Messa di Mozart.
Nella seconda, quella parrocchiale di Cremona, invece, l’assemblea liturgica era composta prettamente dai nostri semplici e umili – verrebbe da dire “ruspanti” – fedeli, tipici della nostre comunità urbane e rurali, costanti nella loro partecipazione domenicale (bellissimi i volti dei ragazzini attenti e compresi, impeccabili nel loro servizio!). Un coro di laici ha animato il canto eseguendo le parti fisse in melodia gregoriana ma non in modo esclusivo bensì coinvolgendo pure gli altri fedeli (esemplarmente il direttore non guidava solo il coro ma pure l’assemblea, come la chiesa insegna). La celebrazione, presieduta dal parroco, semplice, dignitosa, sapeva di autentico, espressione viva di una vera comunità parrocchiale che celebra il Signore risorto nel suo giorno di festa e non altro.
Nel quasi obbligato confronto tra le due messe, motivato dal casuale stretto ravvicinamento, è difficile non cedere alla forte tentazione di porre interrogativi in proposito.
La musica sacra di qualunque autore e tempo, in qualunque sede e celebrazione, deve essere a servizio dell’eucaristia, oppure è possibile e accettabile anche il contrario? Per la messa di Cremona, certamente, non vi sono dubbi; oltre tutto, il contesto e la composizione dell’assemblea, il canto e l’accompagnamento musicale erano chiaramente e direttamente in funzione esclusiva dell’eucaristia. Tra l’altro il canto gregoriano, ovviamente, era in latino a chiara dimostrazione, contro molte falsità sbandierate, che è possibilissimo valorizzarlo, in modo equilibrato, anche usando il Messale di Paolo VI.
Queste celebrazioni, fedeli alle norme e insieme profondamente incarnate nella vera vita del nostro popolo cristiano, non possono non apportare grande conforto a chi ha creduto e crede alla validità della riforma liturgica conciliare, soprattutto in questi tempi in cui pare che si rimettano in moto e in gioco pericolosi riflussi al riguardo, con possibili gravi conseguenze che potrebbero andare ben oltre la liturgia, già importantissima per se stessa, fino a intaccare l’unità e la comunione nelle nostre chiese. Se infatti – stando, per ora, a voci ufficiose –, si giungesse veramente a liberalizzare del tutto l’uso del Messale di san Pio V, lasciando al singolo sacerdote o al gruppetto dei fedeli la scelta di questo in piena parità di quello di Paolo VI, il rischio di una “messa à la carte” non sarebbe per nulla ipotetico. Già i vescovi francesi hanno espresso all’unanimità con grande chiarezza e coraggio le loro serie preoccupazioni in proposito.
Non sarebbe bene e giusto che anche nelle nostre comunità si sentisse il “sensus fidelium” di laici e di pastori fedeli al Vaticano II?
Sebastiano Dho
vescovo di Alba
IN ASCOLTO DI QUANTO È STATO DETTO AL CONVEGNO DI VERONA
Un dialogo più stretto fra vescovi e laici
Cara Settimana,
prima, durante e dopo il convegno ecclesiale di Verona è emerso sempre più chiaramente che uno dei problemi fondamentali della chiesa in Italia è una maggiore valorizzazione dei laici nella chiesa; più esattamente, un dialogo più stretto fra vescovi e fedeli laici, per comprendere meglio «quello che lo Spirito dice oggi alla sua chiesa», per leggere «con discernimento evangelico i segni dei tempi» (le sfide epocali!), per scrutare l’aurora e capire quale modello di cristianesimo sognare e progettare per il futuro della chiesa in Italia.
Qualcuno ha osservato che c’è una specie di afasia del laicato nella fase di ricerca e di preparazione di decisioni importanti. Qualcuno si è domandato se è possibile accettare una pura e semplice identificazione fra chiesa italiana e conferenza episcopale.
Addirittura, da più parti si è proposto di dare vita ad un organismo permanente di partecipazione dei laici alla vita della chiesa, una specie di “Consiglio pastorale nazionale”, ovviamente in piena comunione con i propri pastori.
Insomma, è fortemente avvertito il desiderio di un maggior “dialogo domestico” (Paolo VI), l’urgenza di uno “spazio” di ascolto reciproco e di confronto fra tutte le componenti ecclesiali, in modo franco e leale.
Proprio a sostegno di questo desiderio, voglio ricordare un testo bellissimo, audace e molto pertinente al nostro problema, di un grande pontefice: s. Gregorio Magno (papa dal 590 al 604). Il testo appartiene alla sua opera Moralia in Job, XXX, 27, 81: PL 76, 569C. Nell’approfondimento di un passo difficile della Scrittura, presenta due possibili interpretazioni, ma aggiunge: «Lascio al giudizio del lettore scegliere l’interpretazione che preferisce. Se poi nessuna delle due spiegazioni che io propongo soddisfa il mio lettore, ben volentieri io seguirò lui, se riesce a trovarne una più consona al testo e più profonda; lo seguirò come un discepolo segue il maestro («velut magistrum discipulus sequar»!), perché ritengo donato a me personalmente ciò che egli intende meglio di me. Infatti tutti noi che, pieni di fede, osiamo parlare di Dio, siamo strumenti della Verità («omnes organa veritatis sumus»!). E la Verità può far sentire la sua voce tanto per mezzo mio ad un altro, quanto per mezzo di un altro a me. Essa sta in mezzo a noi e ci tratta tutti con equità, anche se noi non sempre ci comportiamo con equità».
Se questa parola, sublime e audace, di s. Gregorio Magno vale per l’interpretazione della Scrittura, a maggior ragione può valere per il discernimento evangelico dei segni dei tempi.
Come sarebbe stato bello se qualche vescovo a Verona avesse avuto il coraggio (la parresia) di ricordare queste parole del grande Gregorio!
Grazie per l’attenzione e auguri per il vostro lavoro.
don Giovanni Marcandalli (MI)
Cara Settimana,
prima, durante e dopo il convegno ecclesiale di Verona è emerso sempre più chiaramente che uno dei problemi fondamentali della chiesa in Italia è una maggiore valorizzazione dei laici nella chiesa; più esattamente, un dialogo più stretto fra vescovi e fedeli laici, per comprendere meglio «quello che lo Spirito dice oggi alla sua chiesa», per leggere «con discernimento evangelico i segni dei tempi» (le sfide epocali!), per scrutare l’aurora e capire quale modello di cristianesimo sognare e progettare per il futuro della chiesa in Italia.
Qualcuno ha osservato che c’è una specie di afasia del laicato nella fase di ricerca e di preparazione di decisioni importanti. Qualcuno si è domandato se è possibile accettare una pura e semplice identificazione fra chiesa italiana e conferenza episcopale.
Addirittura, da più parti si è proposto di dare vita ad un organismo permanente di partecipazione dei laici alla vita della chiesa, una specie di “Consiglio pastorale nazionale”, ovviamente in piena comunione con i propri pastori.
Insomma, è fortemente avvertito il desiderio di un maggior “dialogo domestico” (Paolo VI), l’urgenza di uno “spazio” di ascolto reciproco e di confronto fra tutte le componenti ecclesiali, in modo franco e leale.
Proprio a sostegno di questo desiderio, voglio ricordare un testo bellissimo, audace e molto pertinente al nostro problema, di un grande pontefice: s. Gregorio Magno (papa dal 590 al 604). Il testo appartiene alla sua opera Moralia in Job, XXX, 27, 81: PL 76, 569C. Nell’approfondimento di un passo difficile della Scrittura, presenta due possibili interpretazioni, ma aggiunge: «Lascio al giudizio del lettore scegliere l’interpretazione che preferisce. Se poi nessuna delle due spiegazioni che io propongo soddisfa il mio lettore, ben volentieri io seguirò lui, se riesce a trovarne una più consona al testo e più profonda; lo seguirò come un discepolo segue il maestro («velut magistrum discipulus sequar»!), perché ritengo donato a me personalmente ciò che egli intende meglio di me. Infatti tutti noi che, pieni di fede, osiamo parlare di Dio, siamo strumenti della Verità («omnes organa veritatis sumus»!). E la Verità può far sentire la sua voce tanto per mezzo mio ad un altro, quanto per mezzo di un altro a me. Essa sta in mezzo a noi e ci tratta tutti con equità, anche se noi non sempre ci comportiamo con equità».
Se questa parola, sublime e audace, di s. Gregorio Magno vale per l’interpretazione della Scrittura, a maggior ragione può valere per il discernimento evangelico dei segni dei tempi.
Come sarebbe stato bello se qualche vescovo a Verona avesse avuto il coraggio (la parresia) di ricordare queste parole del grande Gregorio!
Grazie per l’attenzione e auguri per il vostro lavoro.
don Giovanni Marcandalli (MI)
UNA DISCUTIBILE INIZIATIVA PER SVELTIRE I PROCESSI DI NULLITÀ
Tribunali ecclesiastici
siamo al collasso?
Caro direttore,
permettimi di dire la mia opinione su un argomento spinoso per la sua delicatezza e per le professionalità che vi vengono coinvolte.
Dà vistosi segni di cedimento la complessa struttura dei tribunali ecclesiastici matrimoniali, chiamata a risolvere il problema di quei fedeli cristiani che, dopo il fallimento del loro matrimonio, desiderano rifarsi una vita.
All’aumento vertiginoso delle richieste di nullità risponde una carenza di personale in possesso dei requisiti previsti dalle norme canoniche per dare una sollecita risposta alle legittime attese di fedeli.
Chi ha alle spalle un matrimonio fallito, e vuole osservare fino in fondo le direttive del magistero, non può attendere per anni la risposta del tribunale. Perciò si spiegano le lamentele e le proteste dinanzi alle lunghe attese per l’avvio del processo e per la sua conclusione nei termini ragionevoli fissati dalle norme canoniche.
Affidare a laici di buona volontà l’ufficio di giudice istruttore? Di fronte a questa drammatica situazione, i responsabili di qualche tribunale ecclesiastico matrimoniale hanno trovato un facile rimedio: visto che non è possibile improvvisare un giudice ecclesiastico, hanno pensato di chiamare laici, con una certa esperienza di diritto e di tribunali (magistrati civili in pensione, avvocati, cancellieri...), per nominarli uditori a norma del can. 1428 del Codice di diritto canonico e affidare loro l’istruttoria dei processi matrimoniali. In tal modo i giudici che dovranno emettere la sentenza saranno sgravati del lavoro più oneroso di ascoltare le parti e i testimoni e di verbalizzare le loro deposizioni.
L’ipotesi formulata da questi tribunali ha un qualche riferimento alle norme canoniche. Infatti il § 2 del can. 1428 recita: «Il vescovo può approvare all’incarico di uditore chierici e laici, che rifulgano per buoni costumi, prudenza e dottrina».
Si tratta, però, di spiegare che cosa intende il legislatore per “dottrina”. Mi sembra fuori discussione che il termine “dottrina” debba riferirsi alla teologia e al diritto canonico. Inoltre, non può trattarsi di una generica conoscenza di problemi giuridici, perché il processo di nullità matrimoniale suppone anzitutto la conoscenza della natura, delle proprietà e del fine del matrimonio/sacramento e, in secondo luogo, la cognizione delle norme procedurali previste dal legislatore canonico per acquisire le prove necessarie al pronunciamento dei giudici.
Queste conoscenze non possono essere acquisite in una serie di “lezioni” alle quali gli aspiranti uditori potranno essere obbligati a partecipare prima di ricevere la nomina e l’incarico.
Qualsiasi ordinamento giuridico richiede come garanzia minima per esercitare l’ufficio di giudice: un regolare corso di studi, il conseguimento di uno specifico titolo accademico, il possesso di una certa esperienza. Né si può ritenere che un corso di laurea in giurisprudenza conseguita nelle università statali sia sufficiente per ricoprire nei tribunali ecclesiastici l’ufficio di giudice istruttore e l’esperienza accumulata nei tribunali civili e penali dello stato sia equivalente a quella necessaria per istruire un processo di nullità matrimoniale.
Una soluzione contraria all’indirizzo del magistero. Proprio qualche anno fa, una discussa riforma del corso di laurea in diritto canonico nelle università pontificie ha imposto agli studenti, che vogliono iscriversi alla facoltà di diritto canonico, il conseguimento di un titolo di studio in teologia.
Il nuovo indirizzo, fortemente voluto dalla Congregazione per l’educazione cattolica, mira ad assicurare che sia garantita una conoscenza teologica di base soprattutto a quei laici che intendono conseguire la laurea in diritto canonico per svolgere la professione di avvocato nei tribunali ecclesiastici.
Mentre le autorità ecclesiastiche si sono dimostrate decise a intraprendere una riforma impopolare, superando aperte critiche e comprensibili malumori, la scelta che intendono fare i responsabili di questo tribunale ecclesiastico matrimoniale sembra andare in senso opposto. Non si riesce a capire come mai per svolgere l’ufficio di avvocato nei tribunali ecclesiastici si debba pretendere una licenza in teologia e una laurea in diritto canonico, mentre per svolgere l’ufficio molto più impegnativo di giudice istruttore non sia necessario uno specifico titolo di studio.
L’istruttoria è una fase marginale del processo? Alla base di questa discutibile scelta c’è anche un’errata valutazione del ruolo del giudice istruttore. Chi ha esperienza in questo settore sa bene che il vero e proprio processo si svolge in istruttoria. È il giudice istruttore che incontra le parti e i testimoni, che pone loro le domande appropriate, che verbalizza le risposte, che valuta l’opportunità di approfondire o meno un filone di indizi. I giudici che emetteranno la sentenza conoscono il caso solo attraverso gli atti istruttori. Il loro compito, per quanto importante e decisivo, è condizionato da chi ha raccolto le prove. Non per nulla il giudice che emette la sentenza deve raggiungere la certezza morale «dagli atti e da quanto è stato dimostrato» (can. 1608 § 2).
Una diversa prassi per risolvere il problema de matrimoni falliti. Se, per smaltire il gran numero di processi di nullità matrimoniale che attendono di essere portati a termine nei tribunali ecclesiastici la via da seguire è quella ipotizzata, tanto vale dichiararsi incapaci di affrontare e risolvere il grave problema dei matrimoni falliti o decidersi una volta per sempre di affrontarlo in modo diverso. Di tanto in tanto qualche autorevole uomo di chiesa accende le speranze delle persone che attendono di trovare una soluzione ai loro problemi, avanzando ipotesi alternative all’attuale prassi.
Dinanzi alle crescenti difficoltà in cui versano i tribunali ecclesiastici sembra giunto il momento di mettere da parte le discussioni teoriche per passare alle attuazioni pratiche. In caso contrario, si dà adito ad iniziative, come quella illustrata, che svuotano di significato il processo di nullità matrimoniale per ridurlo ad una inutile formalità.
Adolfo Longhitano
siamo al collasso?
Caro direttore,
permettimi di dire la mia opinione su un argomento spinoso per la sua delicatezza e per le professionalità che vi vengono coinvolte.
Dà vistosi segni di cedimento la complessa struttura dei tribunali ecclesiastici matrimoniali, chiamata a risolvere il problema di quei fedeli cristiani che, dopo il fallimento del loro matrimonio, desiderano rifarsi una vita.
All’aumento vertiginoso delle richieste di nullità risponde una carenza di personale in possesso dei requisiti previsti dalle norme canoniche per dare una sollecita risposta alle legittime attese di fedeli.
Chi ha alle spalle un matrimonio fallito, e vuole osservare fino in fondo le direttive del magistero, non può attendere per anni la risposta del tribunale. Perciò si spiegano le lamentele e le proteste dinanzi alle lunghe attese per l’avvio del processo e per la sua conclusione nei termini ragionevoli fissati dalle norme canoniche.
Affidare a laici di buona volontà l’ufficio di giudice istruttore? Di fronte a questa drammatica situazione, i responsabili di qualche tribunale ecclesiastico matrimoniale hanno trovato un facile rimedio: visto che non è possibile improvvisare un giudice ecclesiastico, hanno pensato di chiamare laici, con una certa esperienza di diritto e di tribunali (magistrati civili in pensione, avvocati, cancellieri...), per nominarli uditori a norma del can. 1428 del Codice di diritto canonico e affidare loro l’istruttoria dei processi matrimoniali. In tal modo i giudici che dovranno emettere la sentenza saranno sgravati del lavoro più oneroso di ascoltare le parti e i testimoni e di verbalizzare le loro deposizioni.
L’ipotesi formulata da questi tribunali ha un qualche riferimento alle norme canoniche. Infatti il § 2 del can. 1428 recita: «Il vescovo può approvare all’incarico di uditore chierici e laici, che rifulgano per buoni costumi, prudenza e dottrina».
Si tratta, però, di spiegare che cosa intende il legislatore per “dottrina”. Mi sembra fuori discussione che il termine “dottrina” debba riferirsi alla teologia e al diritto canonico. Inoltre, non può trattarsi di una generica conoscenza di problemi giuridici, perché il processo di nullità matrimoniale suppone anzitutto la conoscenza della natura, delle proprietà e del fine del matrimonio/sacramento e, in secondo luogo, la cognizione delle norme procedurali previste dal legislatore canonico per acquisire le prove necessarie al pronunciamento dei giudici.
Queste conoscenze non possono essere acquisite in una serie di “lezioni” alle quali gli aspiranti uditori potranno essere obbligati a partecipare prima di ricevere la nomina e l’incarico.
Qualsiasi ordinamento giuridico richiede come garanzia minima per esercitare l’ufficio di giudice: un regolare corso di studi, il conseguimento di uno specifico titolo accademico, il possesso di una certa esperienza. Né si può ritenere che un corso di laurea in giurisprudenza conseguita nelle università statali sia sufficiente per ricoprire nei tribunali ecclesiastici l’ufficio di giudice istruttore e l’esperienza accumulata nei tribunali civili e penali dello stato sia equivalente a quella necessaria per istruire un processo di nullità matrimoniale.
Una soluzione contraria all’indirizzo del magistero. Proprio qualche anno fa, una discussa riforma del corso di laurea in diritto canonico nelle università pontificie ha imposto agli studenti, che vogliono iscriversi alla facoltà di diritto canonico, il conseguimento di un titolo di studio in teologia.
Il nuovo indirizzo, fortemente voluto dalla Congregazione per l’educazione cattolica, mira ad assicurare che sia garantita una conoscenza teologica di base soprattutto a quei laici che intendono conseguire la laurea in diritto canonico per svolgere la professione di avvocato nei tribunali ecclesiastici.
Mentre le autorità ecclesiastiche si sono dimostrate decise a intraprendere una riforma impopolare, superando aperte critiche e comprensibili malumori, la scelta che intendono fare i responsabili di questo tribunale ecclesiastico matrimoniale sembra andare in senso opposto. Non si riesce a capire come mai per svolgere l’ufficio di avvocato nei tribunali ecclesiastici si debba pretendere una licenza in teologia e una laurea in diritto canonico, mentre per svolgere l’ufficio molto più impegnativo di giudice istruttore non sia necessario uno specifico titolo di studio.
L’istruttoria è una fase marginale del processo? Alla base di questa discutibile scelta c’è anche un’errata valutazione del ruolo del giudice istruttore. Chi ha esperienza in questo settore sa bene che il vero e proprio processo si svolge in istruttoria. È il giudice istruttore che incontra le parti e i testimoni, che pone loro le domande appropriate, che verbalizza le risposte, che valuta l’opportunità di approfondire o meno un filone di indizi. I giudici che emetteranno la sentenza conoscono il caso solo attraverso gli atti istruttori. Il loro compito, per quanto importante e decisivo, è condizionato da chi ha raccolto le prove. Non per nulla il giudice che emette la sentenza deve raggiungere la certezza morale «dagli atti e da quanto è stato dimostrato» (can. 1608 § 2).
Una diversa prassi per risolvere il problema de matrimoni falliti. Se, per smaltire il gran numero di processi di nullità matrimoniale che attendono di essere portati a termine nei tribunali ecclesiastici la via da seguire è quella ipotizzata, tanto vale dichiararsi incapaci di affrontare e risolvere il grave problema dei matrimoni falliti o decidersi una volta per sempre di affrontarlo in modo diverso. Di tanto in tanto qualche autorevole uomo di chiesa accende le speranze delle persone che attendono di trovare una soluzione ai loro problemi, avanzando ipotesi alternative all’attuale prassi.
Dinanzi alle crescenti difficoltà in cui versano i tribunali ecclesiastici sembra giunto il momento di mettere da parte le discussioni teoriche per passare alle attuazioni pratiche. In caso contrario, si dà adito ad iniziative, come quella illustrata, che svuotano di significato il processo di nullità matrimoniale per ridurlo ad una inutile formalità.
Adolfo Longhitano
IN FIDUCIOSA ATTESA DELLA NOTA PASTORALE DEI NOSTRI VESCOVI
Cinque nodi
del dopo-Verona
Cara Settimana,
a suo tempo, i nostri vescovi ci scriveranno del dopo Verona. Nel frattempo è iniziata un’opera importante di auscultazione di ciò che lo Spirito ha detto alle chiese. Queste note senza pretesa si inseriscono in questo tempo di sedimentazione e di contemplazione.
C’è qualcosa nell’aria che non riusciamo adeguatamente a captare. E sarebbe così salutare ammettere che di questo si tratta. Da anni si dice che l’idea centrale della visione di chiesa è la comunione. Ma poi, se osserviamo con umile realismo prima di tutto la nostra esperienza personale, dobbiamo ammettere varie forme e livelli di distanza tra la parola e il vissuto. Tanto più se interroghiamo la prassi pastorale. Ci accorgiamo che nessuna parola è più contesa di questa.
Non possiamo attenderci una ripresa della speranza nella nostra missione di chiesa, se non passiamo attraverso “la via angusta e stretta” del vivere la comunione che diciamo e del dire la comunione che viviamo. Mistica e pastorale si coesigono: «L’atto di fede non termina sull’enunciato, ma sulla cosa», insegna san Tommaso.
C’è una serie di nodi critici da sciogliere per dare visibilità storica a un modello o immagine di chiesa-comunione testimone di speranza. Ed è solo “sciogliendo” questi nodi che potremo edificare delle chiese che siano “segno e fermento” di speranza nella complessa e affaticata storia di oggi.
Un primo nodo ecclesiale: una visione condivisa di chiesa riconducibile alla comunione: corale, organica e dinamica. Che renda plausibile e possibile non separare, ma unire – esaltandoli e integrandoli – i gruppi più vivi e i fedeli che danno il famoso volto popolare (ma lo riteniamo un talento o un peso…?). Da qui dovrebbe derivare una legge non discutibile: “ogni battezzato una voce”! Senza stile sinodale, dialogale, colloquiale, senza spazio e strumenti per la pluralità delle opinioni, senza la nostalgia del… “dis-senso” come via per il discernimento, non si rende possibile una chiesa comunione, testimone di speranza.
Un secondo nodo culturale: una valutazione condivisa del mondo e della nostra situazione culturale, che sia espressione di una coscienza profetica. Se il nostro ragionamento sul mondo – offeso dalla forbice crescente della disparità tra pochissimi e i più, dal dramma degli impoveriti – non si fa interpretazione cristiana della realtà, se lo stesso non avviene nella nostra visione dell’Europa e della sua razionalità post-illuministica, se la stessa lettura non si fa – nel quadro del dialogo interreligioso in un mondo carico di tensioni – delle cause del neo-terrorismo tecnologico e internazionale, come potremmo dar ragione ai nostri contemporanei e alle folle degli impoveriti della nostra speranza?
Un terzo nodo ministeriale: una visione condivisa del nuovo posto che spetta al ministero del vescovo e del suo presbiterio come soggetto collegiale del discernimento e della conferma nella fede. In una visione di chiesa comunione si tratta di un atto finale: per essere tale, deve decidere il percorso che lo precede. Deve esaltare – vincendo immagini e precomprensioni ataviche – l’“organizzazione dell’ascolto”, con il sussidio delle competenze interdisciplinari, umane e teologiche: ascolto della fede narrata dalla chiesa e nella chiesa (si inserisce qui la titolarità secolare dei laici!).
Sulla scia dei cinque ministeri fondanti di Ef 4,16 ss. e alla luce della magistrale lezione del dialogo vissuto in concilio tra teologi e vescovi, occorre un’alleanza tra il dono globale del teologo e il dono globale dell’apostolo, in ordine alla conduzione episcopale/presbiterale. Solo nel silenzio – esercitato come corpo collegiale – emerge la voce della Tradizione. Solo nel silenzio, il vescovo con i suoi presbiteri può discernere le forme per una “leadership” sacramentale. Superata la psicologia dell’assedio dei problemi, essa potrà esprimere la guida di Cristo buon pastore che abilita la chiesa a “governare il futuro”.
Un quarto nodo pastorale: una visione condivisa della missione evangelizzatrice. Per fare della pastorale un’epifania progettuale della speranza, una pastorale escatologica, ci sono almeno due basi!
Il primo pilastro è antropologico: ogni essere umano è/ha un germe divino! Lo enuncia con una luminosità abbagliante la Gaudium et spes al n. 3: «Il concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione». Questa è la scelta di campo del concilio. È anche la nostra scelta?
Il secondo pilastro è teologico: ogni battezzato è integrato per via sacramentale nel corpo di Cristo! Su questa roccia si fonda la vera profezia della chiesa nel suo farsi dialogo, azione, organizzazione. La profezia fiorisce nel passaggio (pasquale) dall’avere “tutti come destinatari” all’avere “tutti come soggetto e soggetti”. È qui la conversione che rende profetica la chiesa ed esperimentabile la sua speranza.
Un quinto nodo spirituale: una visione condivisa della spiritualità. Per sciogliere quei quattro nodi occorre un “potere” che Dio ha in serbo per noi: il suo Spirito. Ci occorre una nuova esperienza del Dio-Trinità. Personale e comunitaria. Siamo pure noi un microcosmo ecclesiale che rimanda alla condizione comune e globale della chiesa, nel suo faticoso lasciarsi tras-formare. È la “passio ecclesiae”. Ne portiamo le stimmate nel nostro corpo. Sappiamo che ci è stata indicata dallo Spirito una strada nel deserto, ma le nostre mappe non sono state ancora disegnate adeguatamente. Sarebbe decisivo riconoscerlo: la comunione non è ancora diventata operativamente, in maniera diffusa e convinta, la misura – scossa, pigiata, traboccante – della nostra spiritualità.
Così non è agile il nostro «correre con perseveranza nella corsa che ci sta dinanzi» (Eb 12,1). È affaticato il nostro esodo corale dalla non-fede alla fede, dalla pratica devozionale alla fede pensosa, dal non-popolo al popolo-di-Dio. Se questo approccio fosse vero, non disporremmo di un criterio chiave per capire il nostro momento di chiesa? E, conseguentemente, per delineare il suo futuro? Il documento che i nostri vescovi ci doneranno, entrerà nel vivo di tali questioni?
Prima che diventare e per diventare “casa”, la chiesa deve decidersi di diventare “scuola” di comunione. Passa di qui non solo la speranza del futuro, ma soprattutto il futuro della speranza.
don Gino Moro
del dopo-Verona
Cara Settimana,
a suo tempo, i nostri vescovi ci scriveranno del dopo Verona. Nel frattempo è iniziata un’opera importante di auscultazione di ciò che lo Spirito ha detto alle chiese. Queste note senza pretesa si inseriscono in questo tempo di sedimentazione e di contemplazione.
C’è qualcosa nell’aria che non riusciamo adeguatamente a captare. E sarebbe così salutare ammettere che di questo si tratta. Da anni si dice che l’idea centrale della visione di chiesa è la comunione. Ma poi, se osserviamo con umile realismo prima di tutto la nostra esperienza personale, dobbiamo ammettere varie forme e livelli di distanza tra la parola e il vissuto. Tanto più se interroghiamo la prassi pastorale. Ci accorgiamo che nessuna parola è più contesa di questa.
Non possiamo attenderci una ripresa della speranza nella nostra missione di chiesa, se non passiamo attraverso “la via angusta e stretta” del vivere la comunione che diciamo e del dire la comunione che viviamo. Mistica e pastorale si coesigono: «L’atto di fede non termina sull’enunciato, ma sulla cosa», insegna san Tommaso.
C’è una serie di nodi critici da sciogliere per dare visibilità storica a un modello o immagine di chiesa-comunione testimone di speranza. Ed è solo “sciogliendo” questi nodi che potremo edificare delle chiese che siano “segno e fermento” di speranza nella complessa e affaticata storia di oggi.
Un primo nodo ecclesiale: una visione condivisa di chiesa riconducibile alla comunione: corale, organica e dinamica. Che renda plausibile e possibile non separare, ma unire – esaltandoli e integrandoli – i gruppi più vivi e i fedeli che danno il famoso volto popolare (ma lo riteniamo un talento o un peso…?). Da qui dovrebbe derivare una legge non discutibile: “ogni battezzato una voce”! Senza stile sinodale, dialogale, colloquiale, senza spazio e strumenti per la pluralità delle opinioni, senza la nostalgia del… “dis-senso” come via per il discernimento, non si rende possibile una chiesa comunione, testimone di speranza.
Un secondo nodo culturale: una valutazione condivisa del mondo e della nostra situazione culturale, che sia espressione di una coscienza profetica. Se il nostro ragionamento sul mondo – offeso dalla forbice crescente della disparità tra pochissimi e i più, dal dramma degli impoveriti – non si fa interpretazione cristiana della realtà, se lo stesso non avviene nella nostra visione dell’Europa e della sua razionalità post-illuministica, se la stessa lettura non si fa – nel quadro del dialogo interreligioso in un mondo carico di tensioni – delle cause del neo-terrorismo tecnologico e internazionale, come potremmo dar ragione ai nostri contemporanei e alle folle degli impoveriti della nostra speranza?
Un terzo nodo ministeriale: una visione condivisa del nuovo posto che spetta al ministero del vescovo e del suo presbiterio come soggetto collegiale del discernimento e della conferma nella fede. In una visione di chiesa comunione si tratta di un atto finale: per essere tale, deve decidere il percorso che lo precede. Deve esaltare – vincendo immagini e precomprensioni ataviche – l’“organizzazione dell’ascolto”, con il sussidio delle competenze interdisciplinari, umane e teologiche: ascolto della fede narrata dalla chiesa e nella chiesa (si inserisce qui la titolarità secolare dei laici!).
Sulla scia dei cinque ministeri fondanti di Ef 4,16 ss. e alla luce della magistrale lezione del dialogo vissuto in concilio tra teologi e vescovi, occorre un’alleanza tra il dono globale del teologo e il dono globale dell’apostolo, in ordine alla conduzione episcopale/presbiterale. Solo nel silenzio – esercitato come corpo collegiale – emerge la voce della Tradizione. Solo nel silenzio, il vescovo con i suoi presbiteri può discernere le forme per una “leadership” sacramentale. Superata la psicologia dell’assedio dei problemi, essa potrà esprimere la guida di Cristo buon pastore che abilita la chiesa a “governare il futuro”.
Un quarto nodo pastorale: una visione condivisa della missione evangelizzatrice. Per fare della pastorale un’epifania progettuale della speranza, una pastorale escatologica, ci sono almeno due basi!
Il primo pilastro è antropologico: ogni essere umano è/ha un germe divino! Lo enuncia con una luminosità abbagliante la Gaudium et spes al n. 3: «Il concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione». Questa è la scelta di campo del concilio. È anche la nostra scelta?
Il secondo pilastro è teologico: ogni battezzato è integrato per via sacramentale nel corpo di Cristo! Su questa roccia si fonda la vera profezia della chiesa nel suo farsi dialogo, azione, organizzazione. La profezia fiorisce nel passaggio (pasquale) dall’avere “tutti come destinatari” all’avere “tutti come soggetto e soggetti”. È qui la conversione che rende profetica la chiesa ed esperimentabile la sua speranza.
Un quinto nodo spirituale: una visione condivisa della spiritualità. Per sciogliere quei quattro nodi occorre un “potere” che Dio ha in serbo per noi: il suo Spirito. Ci occorre una nuova esperienza del Dio-Trinità. Personale e comunitaria. Siamo pure noi un microcosmo ecclesiale che rimanda alla condizione comune e globale della chiesa, nel suo faticoso lasciarsi tras-formare. È la “passio ecclesiae”. Ne portiamo le stimmate nel nostro corpo. Sappiamo che ci è stata indicata dallo Spirito una strada nel deserto, ma le nostre mappe non sono state ancora disegnate adeguatamente. Sarebbe decisivo riconoscerlo: la comunione non è ancora diventata operativamente, in maniera diffusa e convinta, la misura – scossa, pigiata, traboccante – della nostra spiritualità.
Così non è agile il nostro «correre con perseveranza nella corsa che ci sta dinanzi» (Eb 12,1). È affaticato il nostro esodo corale dalla non-fede alla fede, dalla pratica devozionale alla fede pensosa, dal non-popolo al popolo-di-Dio. Se questo approccio fosse vero, non disporremmo di un criterio chiave per capire il nostro momento di chiesa? E, conseguentemente, per delineare il suo futuro? Il documento che i nostri vescovi ci doneranno, entrerà nel vivo di tali questioni?
Prima che diventare e per diventare “casa”, la chiesa deve decidersi di diventare “scuola” di comunione. Passa di qui non solo la speranza del futuro, ma soprattutto il futuro della speranza.
don Gino Moro
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