Cari presbiteri,
pensando a come incontrarvi tutti in maniera un po’ più fraterna e familiare, nell’attesa di potervi conoscere di persona, ho creduto bene, in occasione dell’anniversario della mia ordinazione sacerdotale, di consegnarvi una lettera per un primo, affettuoso saluto nel Signore. Desidero anzitutto manifestarvi la mia predilezione: essa non deriva da un fatto umano, visto che non ci conosciamo ancora, ma dalla profonda coscienza dell’unità spirituale che ci caratterizza tutti con il sacramento dell’ordine.
Voglio sottolineare – e il Signore ci dia la grazia di non dimenticarlo mai – che l’unità tra il vescovo ed il presbiterio diocesano, prima che su sentimenti di carattere umano, è fondata su un fatto sacramentale e spirituale. L’umano afflato di amicizia e di amore fraterno, che spero di costruire con il tempo, non dovrebbe far altro che rafforzare il legame spirituale, che c’è, e rimane, e che rappresenta il fondamento di ogni nostro essere ed operare. È in nome di ciò che s. Ignazio di Antiochia parla dell’armonia del presbiterio paragonandola al suono che scaturisce dalle corde di una cetra, il cui suono sarà armonioso nella misura in cui le corde saranno in armonia tra loro.
La comunione presbiterale costituisce l’anima della comunione ecclesiale: un presbiterio unito e animato da sentimenti di autentica fraternità è una testimonianza ben più forte di ogni parola o discorso in mezzo al popolo di Dio. Ed allora, cari confratelli, il mio scritto vuole essere un appello a tutti voi: prima che in ogni altra cosa, impegniamoci, con un autentico sentimento di amore fraterno, a dare il giusto contenuto al vincolo sacramentale. Offriamo al popolo che il Signore ci ha affidato la predica del buon esempio, prima che quella delle parole. Il sacerdote, ci ricorda Léon Bloy, è uno strumento soprannaturale, un generatore di Infinito.
L’amore fraterno è il segno distintivo del cristiano: «Vi riconosceranno da come vi amerete». Non da un vestito, né da una carica, meno ancora da un’etichetta, ma dal vincolo dell’amore che dà sostanza e contenuto al vincolo sacramentale. Il comandamento nuovo è il vero segno dei cristiani, è il nostro distintivo. L’amore rende grandi le cose piccole, facili le difficili e possibili le impossibili.
Sta a noi favorire la fraternità sacerdotale che ci spinge alla fraternità ed all’aiuto vicendevole: agapi fraterne, incontri, visite personali soprattutto a chi è in difficoltà, condividendo speranze, iniziative, preoccupazioni ecc.
Per questo mi permetto di esortarvi a riaprire gli occhi sul cammino di Emmaus. L’incontro tra Gesù e i due discepoli di Emmaus diradò i loro dubbi, diede vigore e slancio missionario. Del noto brano del Vangelo di Luca vorrei qui offrire una lettura spirituale, alla luce dell’esperienza umana di chi ha ormai alle spalle la maggior parte degli anni della propria vita. Quanto più si avanza nell’età, tanto più la vita si riduce all’essenziale e alla fine di una cosa sola ci si pentirà: di non aver amato abbastanza. Tutto il resto apparirà relativo: i soldi, la carriera, il successo e quant’altro abbiamo ritenuto più importante, sono “conquiste” e fatti che sono passati come un treno in corsa. Ma il vostro amore, le vostre parole di conforto, la vostra solidarietà, il vostro calore umano, i vostri sorrisi e le vostre lacrime versate assieme ad una persona resteranno per sempre scolpite nel cuore dei fedeli e nel libro della vita, nostra e loro.
Vi sono beni che si consumano ed altri che vivono nel tempo dell’eternità. Questi ultimi sono i più preziosi, perché fatti di gesti silenziosi di chi sa amare oltre il rumore e i proclami di vane parole.
Il segreto del viaggio della vita consiste nel condividere sempre con qualcuno forza e coraggio, sostegno e fiducia, amore e speranza. Il senso della vita, in fondo è tutto qui: trasformarci per trasformare ciò che è negativo in positivo, il dolore in gioia, la solitudine in amicizia, l’ingiustizia in giustizia, la disperazione in speranza.
Ecco il punto: imparare a ridare e a riaccendere la speranza attorno a noi, anche e soprattutto in una realtà socialmente e culturalmente difficile.
Sempre più spesso, infatti, nell’esercizio quotidiano del nostro ministero pastorale ci vengono poste domande complicate (penso a tutti i problemi che oggi travagliano l’umanità intera e che interrogano anche noi nelle nostre piccole comunità), le cui risposte non possono essere prerogative solo dei teologi o dei dotti, ma di ogni sacerdote che vive questo tempo, pur con le fragilità personali e gli inevitabili limiti. Più che alla sapienza dei libri, dobbiamo bussare alla sapienza del cuore. Offriremo così al nostro popolo non l’immagine di un sacerdote-funzionario, ma la cordialità sincera, gioiosa e schietta di testimoni della presenza di Dio che rendono credibile, con la propria vita, la speranza del Cristo risorto.
Cristo Gesù è e resta l’unica roccia cui appoggiarci e la fonte a cui attingere per ritrovare la forza, la sicurezza e la speranza: «Haurietis aquas de fontibus Salvatoris!». Il segreto per esser felici, dunque, sta nel condividere e nel donare come Cristo Gesù che ha spezzato il pane, ha dato se stesso. Più doneremo e più saremo felici: è proprio allora che, nello Spirito, lo riconosceremo. Quando celebriamo la santa messa abbiamo tra le mani quel Gesù che si è fatto vittima d’amore e che ha riportato con il suo sacrificio l’uomo nella comunione della santissima Trinità: non avrebbe senso celebrare questo mistero e non tentare di viverlo come meglio possiamo poi nel nostro quotidiano, pur consapevoli della nostra fragilità personale e della nostra debolezza:infatti, «abbiamo un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7).
L’amore tra noi presbiteri è la testimonianza più grande che possiamo dare: imperfetta, come tutte le cose umane, ma sincera, tanto che il popolo di Dio sarà disposto a perdonarci molte cose, se percepisce, anche nel cumulo di difetti, che una cosa non ci fa difetto: la volontà di vivere il comandamento dell’amore.
Auguri, dunque, a me e a voi insieme. Iniziamo questa avventura umana e divina all’insegna dell’amore vicendevole. La grazia di Dio fecondi i nostri buoni propositi e arrivi laddove non arrivano le nostre povere forze.
E… non dimenticate di raccomandarmi alla santa Vergine, Regina degli apostoli e Madre di misericordia, perché possa essere in mezzo a voi un pastore secondo il cuore di Cristo.
Vi abbraccio tutti nel Signore. Amen.
Vincenzo Bertolone S.d.P.
vescovo di Cassano all’Jonio
giovedì 12 luglio 2007
LA CHIESA DAVANTI ALLE INGIUSTIZIE
Cara Settimana,
basta fare un viaggio nei paesi del così detto terzo mondo, e in modo particolare in uno dei più poveri come il Burundi, per capire ogni volta che si rientra in Italia che viviamo in un mondo assai strano. Paesi europei che non hanno materie prime né risorse naturali come l’Italia, o densamente popolate se comparate al loro territorio come l’Olanda e il Belgio, hanno un tenore di vita incredibilmente alto mentre nazioni come il Congo, l’Angola, la Tanzania ecc., pur essendo adagiate su enormi giacimenti di oro, diamanti, petrolio, rame, coltan ecc., sono invece tra i più poveri del mondo. Evidentemente qualcosa non quadra se ci sono macroscopiche differenze come quelle accennate che allargano il fossato in maniera sempre più evidente tra il mondo ricco e il mondo povero.
Sempre tenendo fisso lo sguardo sull’Africa, scopriamo che ogni cinque secondi muore un bambino sotto i dieci anni per fame e malnutrizione. L’anno scorso nel continente nero sono morte di aids quasi tre milioni di persone e, rispetto solo a dieci anni fa, ci sono quaranta milioni di affamati in più che implorano aiuto, ma, paradosso ancora più sconvolgente, è che, mentre l’Africa si riempie di poveri e di disperati e aumenta la mortalità per fame, essa continua a pagare trentacinque milioni di dollari di interessi relativi a debiti contratti negli anni sessanta/settanta, già abbondantemente ripagati, ma che, a causa dei perversi meccanismi dei tassi di interesse creati dalle istituzioni internazionali che gestiscono i prestiti, non riesce ad estinguere.
Qualche studioso ha calcolato che con questi soldi che i poveri “donano” ai ricchi dell’Occidente, si potrebbero salvare ventun milioni di vite ogni anno. A voler essere ancor più analitici, in una lettura già di per sé tragica si deve aggiungere che milioni di africani vivono in maleodoranti baraccopoli e che un’intera generazione di bambini e ragazzi vive rovistando la spazzatura delle megalopoli africane.
Occorre tener presente sempre questi dati, proprio perché, di fronte al dramma della miseria mondiale, esiste il rischio di leggere questa realtà come se essa fosse una specie di “seccatura” da lasciare a quelle anime belle come i missionari, ai volontari laici o, al massimo, da togliersi l’eventuale scrupolo di coscienza con un’offerta magari un tantino più generosa della volta precedente. Non ci stancheremo mai di ripetere che questo stato di cose non può essere il frutto del caso. Come ricordava don Milani, un carro armato non fa danni solo perché qualcuno preme il grilletto da cui parte un colpo mortale; in una certa qual misura esiste una responsabilità globale che non può essere sempre taciuta. Se noi pensiamo, ad esempio, che da due anni le spese per gli armamenti di tutti gli stati del mondo hanno sforato per la prima volta i mille miliardi annui di dollari, avremmo chiaro il concetto che le risorse per vincere fame, povertà e malattie endemiche ci sono; il problema sta nel fatto che queste risorse vengono investite in strumenti di morte, in guerre preventive e in apparati polizieschi costituiti solo ed esclusivamente per difendere gli interessi di pochi.Al recente “Forum Sociale” che si è tenuto a Nairobi, alcuni teologi dei paesi del Sud del mondo hanno espresso il concetto che «il cristianesimo (soprattutto quello praticato dalle nazioni di antica cristianità) ha bisogno di un battesimo d’immersione nel calvario dei popoli. Se non si ha il coraggio, non dico di fare questo passo ma semplicemente di prendere in considerazione questa prospettiva pastorale da cui partire per il nostro agire da credenti in un mondo globalizzato, rischieremmo davvero di presentarci come i difensori dello status quo, dove chi è ricco diventa sempre più ricco e chi è povero diventa sempre più povero, senza essere minimamente sfiorati dal dubbio che anche noi abbiamo bisogno di conversione. Qualche anno fa ebbi la possibilità di visitare l’isola di Goré in Senegal. Goré è poco più di un isolotto a neanche un chilometro dalla costa di Dakar, su cui sorge una costruzione nella quale nei secoli scorsi venivano rinchiusi e ammassati uomini e donne catturati in ogni parte dell’Africa per essere incatenati e successivamente imbarcati per le Americhe. Gli schiavi uscivano da una porticina che li immetteva, tramite una passerella, direttamente sulle navi negriere. Un giovane studente che illustrava i meccanismi infernali che regolavano questo flusso di poveri cristi sottratti alla loro terra, alzando la voce e rivolgendosi in modo particolare ai bianchi presenti disse: «Voi siete ricchi perché da questa porta avete rubato il tesoro più grande dell’Africa, da questa porta sono passate le nostre forze migliori che i vostri paesi hanno depredato senza neanche porsi il problema di risarcire il danno causato».
È chiaro che non si può vivere il messaggio evangelico senza tenere presente questa storia e ciò che vi è racchiuso. Il Vangelo non può essere scippato ed edulcorato, per non dire tradito dalla tribù dei bianchi che si arrogano il privilegio di dettarne le regole al resto del mondo. Recentemente il premio Nobel per la pace Desmond Tutu ha ribadito un concetto che gli è caro: «Quando arrivarono i bianchi in Sudafrica, essi avevano la parola di Dio e i neri la terra, questi ultimi li accolsero e si ritrovarono loro con la parola di Dio tra le mani e i bianchi con la terra dei neri! Come si fa – prosegue Desmond Tutu – a credere in un messaggio così rivoluzionario come il Vangelo e restare indifferenti di fronte al dramma della povertà, della fame e della miseria, che investe milioni di persone?».
Solo ascoltando la voce dei poveri, si può capire quale direzione intraprendere per uscire dall’angusto schema mentale tutto nostrano, che riduce la fede ad autorevole pulpito in difesa di solenni principi etici, mentre le sfide che interpellano i credenti sono di ben altro spessore.
Una purificazione interiore e un discernimento dei cuori e delle coscienze, è un cammino urgente e necessario da percorrere al fine di recuperare quella novità rivoluzionaria insita nel Vangelo, capace di trasformare la società e le coscienze dei cristiani del Nord come del Sud del mondo.
Mario Bandera (NO)
basta fare un viaggio nei paesi del così detto terzo mondo, e in modo particolare in uno dei più poveri come il Burundi, per capire ogni volta che si rientra in Italia che viviamo in un mondo assai strano. Paesi europei che non hanno materie prime né risorse naturali come l’Italia, o densamente popolate se comparate al loro territorio come l’Olanda e il Belgio, hanno un tenore di vita incredibilmente alto mentre nazioni come il Congo, l’Angola, la Tanzania ecc., pur essendo adagiate su enormi giacimenti di oro, diamanti, petrolio, rame, coltan ecc., sono invece tra i più poveri del mondo. Evidentemente qualcosa non quadra se ci sono macroscopiche differenze come quelle accennate che allargano il fossato in maniera sempre più evidente tra il mondo ricco e il mondo povero.
Sempre tenendo fisso lo sguardo sull’Africa, scopriamo che ogni cinque secondi muore un bambino sotto i dieci anni per fame e malnutrizione. L’anno scorso nel continente nero sono morte di aids quasi tre milioni di persone e, rispetto solo a dieci anni fa, ci sono quaranta milioni di affamati in più che implorano aiuto, ma, paradosso ancora più sconvolgente, è che, mentre l’Africa si riempie di poveri e di disperati e aumenta la mortalità per fame, essa continua a pagare trentacinque milioni di dollari di interessi relativi a debiti contratti negli anni sessanta/settanta, già abbondantemente ripagati, ma che, a causa dei perversi meccanismi dei tassi di interesse creati dalle istituzioni internazionali che gestiscono i prestiti, non riesce ad estinguere.
Qualche studioso ha calcolato che con questi soldi che i poveri “donano” ai ricchi dell’Occidente, si potrebbero salvare ventun milioni di vite ogni anno. A voler essere ancor più analitici, in una lettura già di per sé tragica si deve aggiungere che milioni di africani vivono in maleodoranti baraccopoli e che un’intera generazione di bambini e ragazzi vive rovistando la spazzatura delle megalopoli africane.
Occorre tener presente sempre questi dati, proprio perché, di fronte al dramma della miseria mondiale, esiste il rischio di leggere questa realtà come se essa fosse una specie di “seccatura” da lasciare a quelle anime belle come i missionari, ai volontari laici o, al massimo, da togliersi l’eventuale scrupolo di coscienza con un’offerta magari un tantino più generosa della volta precedente. Non ci stancheremo mai di ripetere che questo stato di cose non può essere il frutto del caso. Come ricordava don Milani, un carro armato non fa danni solo perché qualcuno preme il grilletto da cui parte un colpo mortale; in una certa qual misura esiste una responsabilità globale che non può essere sempre taciuta. Se noi pensiamo, ad esempio, che da due anni le spese per gli armamenti di tutti gli stati del mondo hanno sforato per la prima volta i mille miliardi annui di dollari, avremmo chiaro il concetto che le risorse per vincere fame, povertà e malattie endemiche ci sono; il problema sta nel fatto che queste risorse vengono investite in strumenti di morte, in guerre preventive e in apparati polizieschi costituiti solo ed esclusivamente per difendere gli interessi di pochi.Al recente “Forum Sociale” che si è tenuto a Nairobi, alcuni teologi dei paesi del Sud del mondo hanno espresso il concetto che «il cristianesimo (soprattutto quello praticato dalle nazioni di antica cristianità) ha bisogno di un battesimo d’immersione nel calvario dei popoli. Se non si ha il coraggio, non dico di fare questo passo ma semplicemente di prendere in considerazione questa prospettiva pastorale da cui partire per il nostro agire da credenti in un mondo globalizzato, rischieremmo davvero di presentarci come i difensori dello status quo, dove chi è ricco diventa sempre più ricco e chi è povero diventa sempre più povero, senza essere minimamente sfiorati dal dubbio che anche noi abbiamo bisogno di conversione. Qualche anno fa ebbi la possibilità di visitare l’isola di Goré in Senegal. Goré è poco più di un isolotto a neanche un chilometro dalla costa di Dakar, su cui sorge una costruzione nella quale nei secoli scorsi venivano rinchiusi e ammassati uomini e donne catturati in ogni parte dell’Africa per essere incatenati e successivamente imbarcati per le Americhe. Gli schiavi uscivano da una porticina che li immetteva, tramite una passerella, direttamente sulle navi negriere. Un giovane studente che illustrava i meccanismi infernali che regolavano questo flusso di poveri cristi sottratti alla loro terra, alzando la voce e rivolgendosi in modo particolare ai bianchi presenti disse: «Voi siete ricchi perché da questa porta avete rubato il tesoro più grande dell’Africa, da questa porta sono passate le nostre forze migliori che i vostri paesi hanno depredato senza neanche porsi il problema di risarcire il danno causato».
È chiaro che non si può vivere il messaggio evangelico senza tenere presente questa storia e ciò che vi è racchiuso. Il Vangelo non può essere scippato ed edulcorato, per non dire tradito dalla tribù dei bianchi che si arrogano il privilegio di dettarne le regole al resto del mondo. Recentemente il premio Nobel per la pace Desmond Tutu ha ribadito un concetto che gli è caro: «Quando arrivarono i bianchi in Sudafrica, essi avevano la parola di Dio e i neri la terra, questi ultimi li accolsero e si ritrovarono loro con la parola di Dio tra le mani e i bianchi con la terra dei neri! Come si fa – prosegue Desmond Tutu – a credere in un messaggio così rivoluzionario come il Vangelo e restare indifferenti di fronte al dramma della povertà, della fame e della miseria, che investe milioni di persone?».
Solo ascoltando la voce dei poveri, si può capire quale direzione intraprendere per uscire dall’angusto schema mentale tutto nostrano, che riduce la fede ad autorevole pulpito in difesa di solenni principi etici, mentre le sfide che interpellano i credenti sono di ben altro spessore.
Una purificazione interiore e un discernimento dei cuori e delle coscienze, è un cammino urgente e necessario da percorrere al fine di recuperare quella novità rivoluzionaria insita nel Vangelo, capace di trasformare la società e le coscienze dei cristiani del Nord come del Sud del mondo.
Mario Bandera (NO)
LA MESSA DI SAN PIO V: CHIUSUA O APERTURA DELLA CHIESA?
Cara Settimana,
il giorno 29 giugno la rubrica curata da M. Gramellini sulla prima pagina de La Stampa aveva per titolo Libertà di messa e presentava alcune brevi riflessioni sulla annunciata «reintroduzione» della messa tridentina nella chiesa cattolica. Vale la pena riassumere le idee espresse in quelle poche righe.
Anzitutto si esprime un giudizio duro sulla riforma liturgica, riducendola alla «messa in chitarra e jeans» e pensando la «messa in volgare» come una sorta di volgarizzazione della «versione originale», che sarebbe quella di Pio V. Si aggiunge poi che la scelta che il papa starebbe per compiere appare «rivoluzionaria soprattutto nella forma», poiché non toglie, ma aggiunge: «aumenta le possibilità di scelta senza ridurre la libertà di nessuno». A margine viene anche indicata la preminenza del latino sulle lingue volgari con la seguente argomentazione: «la lingua del cattolicesimo è il latino e le tradizioni si smarriscono anche per colpa delle traduzioni». Infine – ma forse qui sta il fulcro dell'intero percorso – Gramellini esorta a tener conto che questo metodo «liberale» di approccio alla liturgia dovrebbe essere esteso anche alle questioni di diritto civile, come il rapporto tra unioni di fatto e di diritto, uscendo da una lettura solo pedagogica della legge.
Poiché concentra in sé una serie di luoghi comuni abbastanza ovvii nella coscienza civile contemporanea, questo breve articolo merita una serie di accurate puntualizzazioni.
In primo luogo bisogna ricordare che la riforma liturgica viene da molto prima del 1968: già ai primi del 1800 vi erano uomini che lamentavano la grande crisi della “messa di Pio V”!
Coloro che prima hanno scritto il concilio e poi la riforma liturgica si sono preoccupati di dare risposta ad una crisi della messa che durava da almeno 150 anni. Accusarli di aver determinato la «messa in jeans e chitarra» è come minimo una grave imprecisione. Esattamente come considerare la «messa in volgare» una brutta copia dell'«originale».
Qui bisogna essere molto precisi. La messa “volgare” in italiano, come quella in francese o in tedesco, ha un suo originale latino che è molto diverso e molto più ricco della messa di Pio V. La messa tridentina non è l'«originale» della messa in volgare, ma è il rito che è stato riformato dopo il concilio a causa delle sue lacune, per formulare quel diverso rito latino – più ricco e più sobrio – che noi celebriamo ordinariamente nella traduzione in lingua volgare. È un grave fraintendimento non distinguere tra ciò che determinava la crisi (la messa di Pio V) e ciò che ha contribuito al suo superamento (il nuovo rito postconciliare).
Qui bisogna poi inserire una piccola precisazione circa il rapporto tra tradizione e traduzione. Non è affatto vero che le traduzioni siano la corruzione delle tradizioni. Almeno per il cristianesimo, l'unica possibilità di mantenere la tradizione è quella di tradurre. È sempre stato così, fin da quando l'aramaico si è fatto greco, il greco latino e poi il latino le molte lingue che l'uomo parla, fino alle nostre. Quando non si è più disposti a tradurre, allora si perde la tradizione, cadendo nelle forme del tradizionalismo senza futuro. La liturgia non è un museo con una grande offerta di “beni culturali” e la chiesa non è un’agenzia di servizi religiosi, che da domani avrà un nuovo prodotto a disposizione dei clienti.
Infine, merita un’ultima osservazione proprio la valutazione conclusiva di Gramellini. È vero, la logica «liberale» che sembra ispirare molti luoghi comuni intorno alla liturgia nella chiesa di oggi potrebbe far pensare che la soluzione pluralista in liturgia possa essere estesa anche al campo morale o giuridico, con bella coerenza.
Io sarei invece del parere che si possa capovolgere il paragone. L'identità cristiana non può sopportare un’identità liturgica che non sia capace di vera unità. Proprio quando acquisisce senza traumi la logica di una “nuova liturgia”, che rilegge autorevolmente la tradizione secondo nuove lingue e nuove culture, allora la chiesa è in grado di affrontare le questioni politiche, etiche e giuridiche con quella apertura e quella serenità che può tenerla lontana da ogni forma di rigida contrapposizione.
Ma, in fondo, questo sta scritto irreversibilmente nella storia della chiesa degli ultimi 40 anni. Da 40 anni noi formiamo i cristiani e gli stessi preti secondo le lingue, le culture, le teologie e le spiritualità scritte nei gesti e nei silenzi, nei riti e nei canti della nuova liturgia. Ciò è tanto vero che non è affatto escluso che, se domani qualche cristiano in buona coscienza si recherà dal proprio parroco per chiedere la celebrazione della messa secondo il rito di Pio V, potrà sentirsi rispondere, in totale buona fede: «Mi perdoni, ma non ne sono capace: questa non è né la chiesa né la liturgia in cui ho imparato a credere, a vivere e a pregare».
Noi tutti, che siamo stati formati dopo il concilio Vaticano II, siamo “oltre” la messa di Pio V: lo si voglia o no, indietro non si torna.
Andrea Grillo
il giorno 29 giugno la rubrica curata da M. Gramellini sulla prima pagina de La Stampa aveva per titolo Libertà di messa e presentava alcune brevi riflessioni sulla annunciata «reintroduzione» della messa tridentina nella chiesa cattolica. Vale la pena riassumere le idee espresse in quelle poche righe.
Anzitutto si esprime un giudizio duro sulla riforma liturgica, riducendola alla «messa in chitarra e jeans» e pensando la «messa in volgare» come una sorta di volgarizzazione della «versione originale», che sarebbe quella di Pio V. Si aggiunge poi che la scelta che il papa starebbe per compiere appare «rivoluzionaria soprattutto nella forma», poiché non toglie, ma aggiunge: «aumenta le possibilità di scelta senza ridurre la libertà di nessuno». A margine viene anche indicata la preminenza del latino sulle lingue volgari con la seguente argomentazione: «la lingua del cattolicesimo è il latino e le tradizioni si smarriscono anche per colpa delle traduzioni». Infine – ma forse qui sta il fulcro dell'intero percorso – Gramellini esorta a tener conto che questo metodo «liberale» di approccio alla liturgia dovrebbe essere esteso anche alle questioni di diritto civile, come il rapporto tra unioni di fatto e di diritto, uscendo da una lettura solo pedagogica della legge.
Poiché concentra in sé una serie di luoghi comuni abbastanza ovvii nella coscienza civile contemporanea, questo breve articolo merita una serie di accurate puntualizzazioni.
In primo luogo bisogna ricordare che la riforma liturgica viene da molto prima del 1968: già ai primi del 1800 vi erano uomini che lamentavano la grande crisi della “messa di Pio V”!
Coloro che prima hanno scritto il concilio e poi la riforma liturgica si sono preoccupati di dare risposta ad una crisi della messa che durava da almeno 150 anni. Accusarli di aver determinato la «messa in jeans e chitarra» è come minimo una grave imprecisione. Esattamente come considerare la «messa in volgare» una brutta copia dell'«originale».
Qui bisogna essere molto precisi. La messa “volgare” in italiano, come quella in francese o in tedesco, ha un suo originale latino che è molto diverso e molto più ricco della messa di Pio V. La messa tridentina non è l'«originale» della messa in volgare, ma è il rito che è stato riformato dopo il concilio a causa delle sue lacune, per formulare quel diverso rito latino – più ricco e più sobrio – che noi celebriamo ordinariamente nella traduzione in lingua volgare. È un grave fraintendimento non distinguere tra ciò che determinava la crisi (la messa di Pio V) e ciò che ha contribuito al suo superamento (il nuovo rito postconciliare).
Qui bisogna poi inserire una piccola precisazione circa il rapporto tra tradizione e traduzione. Non è affatto vero che le traduzioni siano la corruzione delle tradizioni. Almeno per il cristianesimo, l'unica possibilità di mantenere la tradizione è quella di tradurre. È sempre stato così, fin da quando l'aramaico si è fatto greco, il greco latino e poi il latino le molte lingue che l'uomo parla, fino alle nostre. Quando non si è più disposti a tradurre, allora si perde la tradizione, cadendo nelle forme del tradizionalismo senza futuro. La liturgia non è un museo con una grande offerta di “beni culturali” e la chiesa non è un’agenzia di servizi religiosi, che da domani avrà un nuovo prodotto a disposizione dei clienti.
Infine, merita un’ultima osservazione proprio la valutazione conclusiva di Gramellini. È vero, la logica «liberale» che sembra ispirare molti luoghi comuni intorno alla liturgia nella chiesa di oggi potrebbe far pensare che la soluzione pluralista in liturgia possa essere estesa anche al campo morale o giuridico, con bella coerenza.
Io sarei invece del parere che si possa capovolgere il paragone. L'identità cristiana non può sopportare un’identità liturgica che non sia capace di vera unità. Proprio quando acquisisce senza traumi la logica di una “nuova liturgia”, che rilegge autorevolmente la tradizione secondo nuove lingue e nuove culture, allora la chiesa è in grado di affrontare le questioni politiche, etiche e giuridiche con quella apertura e quella serenità che può tenerla lontana da ogni forma di rigida contrapposizione.
Ma, in fondo, questo sta scritto irreversibilmente nella storia della chiesa degli ultimi 40 anni. Da 40 anni noi formiamo i cristiani e gli stessi preti secondo le lingue, le culture, le teologie e le spiritualità scritte nei gesti e nei silenzi, nei riti e nei canti della nuova liturgia. Ciò è tanto vero che non è affatto escluso che, se domani qualche cristiano in buona coscienza si recherà dal proprio parroco per chiedere la celebrazione della messa secondo il rito di Pio V, potrà sentirsi rispondere, in totale buona fede: «Mi perdoni, ma non ne sono capace: questa non è né la chiesa né la liturgia in cui ho imparato a credere, a vivere e a pregare».
Noi tutti, che siamo stati formati dopo il concilio Vaticano II, siamo “oltre” la messa di Pio V: lo si voglia o no, indietro non si torna.
Andrea Grillo
L'OMELIA È FATTA BENE?
Caro don Franco,
ho ascoltato domenica scorsa la sua predica alla messa di mezzogiorno, e debbo dire –pur con tutta la stima che ho per lei – che mi ha un po’ deluso. Lei mi perdonerà se con estrema sincerità dirò quello che penso. Premetto: appartengo a quella schiera di cattolici che chiamerei “dialoganti”, convinti che l’obbedienza e il silenzio non siano le massime virtù di un credente. Anzi. Penso che tutto possa essere discusso tranne i dogmi, figuriamoci poi una predica domenicale.
Sarò dunque sincero, e le dirò da semplice credente la mia opinione.
Lei appartiene a quella categoria di sacerdoti che si sono convertiti al foglietto scritto. La vedo, caro don Franco, mentre legge quello che ha buttato giù la sera prima. Non sbircia velocemente una scaletta per poi andare a braccio. No. Lei recita la sua omelia come un attore che abbia imparato la parte, e ogni parola sembra essenziale come se si trattasse di un documento politico in cui anche una sfumatura riveste un significato particolare. Ma, così facendo, la sua predica è già morta prima di essere pronunciata per due ragioni: innanzi tutto perché perde di immediatezza, e non c’è più comunicazione fra fedeli e sacerdote. I vecchi oratori sapevano dosare gli effetti a seconda della rispondenza del pubblico. Se avessero visto qualcuno che sbadigliava, cambiavano strada. La predica scritta la sera prima è come un pesce surgelato: sarà anche buono ma il sapore di quello fresco è diverso. E la seconda ragione è che, nella maggioranza dei casi, l’omelia è tratta, sia pure a grandi linee, da qualche manuale di predicazione, salvo ritocchi e modifiche, e dunque diventa asettica, impersonale e, quel che più conta, noiosa.
Quand’ero bambino ero abituato al pulpito. Allora – eravamo in periodo preconciliare – anche durante la messa, salvo che all’elevazione, il sacerdote predicava per tutta la durata del rito. E anche la sera, nelle chiese principali come S. Ignazio o al Gesù, si esibivano i grandi oratori che sapevano tener desto l’uditorio con tutti gli arnesi del mestiere: il gesto, la mano levata a mo’ di ammonimento, la voce ora minacciosa ora suadente, le pause studiate. È probabile che molte di quelle prediche fossero troppo artefatte, troppo sceneggiate. Non lo nego. Ma avevano il pregio di farsi ascoltare anche se facevano ricorso a tutto l’armamentario un po’ consunto di apparizioni, miracoli e storie edificanti.
I predicatori di oggi – salvo naturalmente le debite eccezioni – non hanno nemmeno quei vecchi pregi. Conosco alcune parrocchie dove il risultato finale dell’omelia è la noia mortale. Il fedele dentro di sé pensa: “Dio mio, ma quando finisce?”.
La seconda osservazione che mi viene da fare è la lunghezza. Viviamo tutti in un’epoca di velocità, con dei ritmi estremamente serrati. Chi le scrive ha fatto l’inviato in tante parti del mondo. Il tempo massimo permesso dai telegiornali e giornali radio era di due minuti se l’avvenimento era importante, ma si riduceva a un minuto e mezzo se il fatto era di secondaria importanza. E allora mi chiedo: perché costringere la gente inchiodata al banco per venti minuti quando i tempi vanno contati sul metro dell’attualità? Ora non dico che un’omelia debba durare un minuto, ma deve essere stringata e viaggiare su misure alle quali il fedele è abituato. Del resto, la stessa televisione e radio danno esempi di brevità anche nelle rubriche religiose dove una meditazione non supera i tre minuti. Fra i tanti programmi andati in onda, ricordo qui una serie di Piero Gheddo che era esemplare per sintesi.
Ma, caro don Franco, lei mi potrebbe obiettare che quello che conta non è né il tempo, né il foglietto scritto. Ma quello che c’è dentro la predica, cioè il pensiero, il messaggio, l’essenza.
Concordo con lei. Il messaggio è la cosa più importante. Ma è proprio qui che si colgono in tanti predicatori domenicali i limiti della comunicazione. Non si può imbottire la coscienza del fedele di tanti precetti che, finita la messa, svaniscono come neve al sole. Non si può dire alla gente che dev’essere casta, devota, caritatevole, mite, di preghiera, di sacrificio, ligia ai propri doveri di stato, buoni mariti o buone mogli, e tutto questo in venti minuti. Il risultato è che di tanti saggi consigli non resta niente se non un vago invito ad essere buoni.
Sono del parere che la predica debba dare al fedele un concetto, uno solo. Qualcosa che lo accompagni durante la settimana. Un pensiero chiaro, limpido, essenziale che non muoia, appunto, all’uscita della chiesa. E questo consiglio resterà impresso quanto più sarà stato lineare. Ma tutto questo esige dal sacerdote preparazione, cultura, senso del pubblico e capacità di comunicazione. Lo so, è un lavoro che richiede fatica e intelligenza. A fare una predica infarcita di luoghi comuni ci vuole poco. Per colpire il fedele e lasciare un segno, ci vuole molto. Come diceva Montanelli, la chiarezza costa una grande fatica. Vale per un articolo e per una predica. Occorre sfrondare il testo da tutte le cose accessorie e puntare all’essenziale.
C’è poi una cosa, caro don Franco, che nella predica di tanti sacerdoti trovo astruso: il distacco dalla vita reale.
Provo a chiedere a me stesso: cosa cerchi in un’omelia? Ecco, io cerco qualcosa che si inserisca nella mia vita di ogni giorno. L’omelia dev’essere – mi piace usare questo termine – esistenziale, deve calarsi nella mia vita personale, di famiglia, di ufficio, politica, civile. Deve trattare con quello che tocca la mia sfera personale, il dolore, la malattia, la morte, la disoccupazione, il clientelismo, le disillusioni, le amarezze, i figli, la suocera, la professione, il successo o l’insuccesso, la solitudine, la vecchiaia. Qualcuno dirà: ma la domenica il sacerdote deve spiegare il vangelo. D’accordo. Ma il vangelo deve parlare all’esistenza di ognuno, dev’essere attualizzato, dev’essere una verità rimodellata sulla vita di oggi, resa contemporanea.
Sento invece sempre di più in giro un vangelo asettico che non incide sui miei problemi personali, sui problemi quotidiani della gente, un vangelo rarefatto, sospeso a mezz’aria, buono per tutte le stagioni, ieri come oggi. E proprio perché così, non incide nella mia coscienza, mi passa sopra come acqua che scivola via. Riassumere i fatti del vangelo con altre parole, sbrodolare una parabola succinta con un riassunto abborracciato non serve a niente. Irrita solamente.
Faccio qualche esempio perché il mio discorso non sembri solo teorico. Vivo in una parrocchia dove i fedeli sono in maggioranza professionisti, alti dirigenti di stato o di banche, politici, giornalisti. Quali saranno i peccati di questa gente? Solo l’amante, l’adulterio, il tradimento come è ormai un consumato cliché?
Conoscendo qualcuno di loro, so che si sentono a posto con la coscienza perché non hanno divorziato, non hanno praticato l’aborto e non hanno tradito la moglie. La vita cristiana finisce dunque tutta qui? Proprio perché ne conosco personalmente alcuni, so che esistono altre forme di peccato sulle quali non si richiama mai l’attenzione. Molti di costoro improntano il loro lavoro al più bieco clientelismo. Se non si è della stessa parrocchia politica, non c’è spazio. E dunque favoriscono appalti truccati, falsi concorsi in cui si sa già chi è il vincitore. Direttori generali e dirigenti che umiliano chi non ha santi in paradiso e che emarginano i meritevoli. I quali magari porteranno questa ferita per chissà quanti anni. Ebbene, io penso che un’omelia “esistenziale” non possa prescindere da problemi come questi. È inutile parlare di giustizia in termini vaghi che lasciano il tempo che trovano, occorre risvegliare nel fedele una sensibilità per questi temi del nostro tempo.
Mi sembra, caro don Franco, che vi sia oggi molto formalismo religioso che si appaga di formule vuote. Faccio un esempio: ogni volta che dopo il Pater noster viene l’invito a stringere la mano in segno di pace, penso sempre che si tratta di un simbolo che bisognerebbe caricare di significati concreti. Mi piacerebbe che il sacerdote dicesse: “Perdonate dentro di voi la persona che non amate, vostra suocera, vostra moglie, la segretaria, il capufficio. Perdonate in cuor vostro la persona che odiate”.
Ecco, allora il segno di pace diventerebbe un segno tangibile, tale da incidere nella nostra vita quotidiana. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Lei mi chiederà a questo punto, caro don Franco, perché si verificano fra i sacerdoti questi che potremmo chiamare disguidi di formazione. La ragione, a mio modo di vedere, sta nella crisi che investe il clero sempre meno sicuro della sua identità e della sua funzione sociale. Ricordo nella mia infanzia parroci di paese che si sentivano veramente pastori della comunità, e la comunità li considerava una guida. Oggi incontro nelle campagne poveri parroci che non hanno più nemmeno la perpetua, che si cucinano da soli e che vivono spesso trascurati o dimenticati dal paese. Non è possibile che una situazione sociale così disastrata non si ripercuota in modo sensibile sul clero.
C’è inoltre un deficit di cultura. Non che la cultura basti di per se stessa. Un sant’uomo irraggia attorno a sé un alone di amore e di carità che vale diecimila prediche intelligenti. Ma qui parliamo di gente normale. QQQuando si ha una cultura modesta e non si è santi, allora il difetto è visibile. Un sacerdote deve essere in sintonia col proprio tempo, deve leggere i giornali (non solo Avvenire e l’Osservatore), deve guardare – anche se stanca – la televisione per sapere cosa bolle in pentola. Solo così si entra in sintonia con lo stesso ambiente dei propri parrocchiani. Solo così quel brano di vangelo può essere attualizzato, immerso nella realtà, e non un vangelo atemporale ed evanescente che sa di supermercato sacro, buono per ogni domenica e per tutti gli ambienti.
Mi rendo conto, caro don Franco, delle difficoltà che questo tipo di catechesi incontra. A mio parere, occorre battere la strada della “riqualificazione” come si usa in tutte le aziende del mondo. Gli anni di seminario non bastano per tutta una vita. Penso che dei corsi veloci, essenziali, sintetici potrebbero migliorare la situazione. Non capisco perché industriali e uomini politici si affidano a esperti di comunicazione, e un sacerdote può fare a meno di questi sussidi. Resto convinto che un po’ di tecnica e di buono studio potrebbe darci dei risultati. Non si tratta di organizzare dei corsi di lunga durata ma semplicemente di tanto in tanto una “tre giorni” che rinfreschi la mente e rimetta in circolo nuove idee.
Caro don Franco, quello che le ho scritto è la mia modesta esperienza di fedele, suscettibile di critica e di disaccordo. Non pretendo di aver ragione. Avanzo solo dubbi e perplessità. Se queste righe potranno suscitare un dibattito, ne sarò lieto. Chi avrà da guadagnarne sarà la spiritualità di tutti noi.
Mi creda sempre con affetto, suo
Carlo Napoli
carlo.napoli5@tin.it
ho ascoltato domenica scorsa la sua predica alla messa di mezzogiorno, e debbo dire –pur con tutta la stima che ho per lei – che mi ha un po’ deluso. Lei mi perdonerà se con estrema sincerità dirò quello che penso. Premetto: appartengo a quella schiera di cattolici che chiamerei “dialoganti”, convinti che l’obbedienza e il silenzio non siano le massime virtù di un credente. Anzi. Penso che tutto possa essere discusso tranne i dogmi, figuriamoci poi una predica domenicale.
Sarò dunque sincero, e le dirò da semplice credente la mia opinione.
Lei appartiene a quella categoria di sacerdoti che si sono convertiti al foglietto scritto. La vedo, caro don Franco, mentre legge quello che ha buttato giù la sera prima. Non sbircia velocemente una scaletta per poi andare a braccio. No. Lei recita la sua omelia come un attore che abbia imparato la parte, e ogni parola sembra essenziale come se si trattasse di un documento politico in cui anche una sfumatura riveste un significato particolare. Ma, così facendo, la sua predica è già morta prima di essere pronunciata per due ragioni: innanzi tutto perché perde di immediatezza, e non c’è più comunicazione fra fedeli e sacerdote. I vecchi oratori sapevano dosare gli effetti a seconda della rispondenza del pubblico. Se avessero visto qualcuno che sbadigliava, cambiavano strada. La predica scritta la sera prima è come un pesce surgelato: sarà anche buono ma il sapore di quello fresco è diverso. E la seconda ragione è che, nella maggioranza dei casi, l’omelia è tratta, sia pure a grandi linee, da qualche manuale di predicazione, salvo ritocchi e modifiche, e dunque diventa asettica, impersonale e, quel che più conta, noiosa.
Quand’ero bambino ero abituato al pulpito. Allora – eravamo in periodo preconciliare – anche durante la messa, salvo che all’elevazione, il sacerdote predicava per tutta la durata del rito. E anche la sera, nelle chiese principali come S. Ignazio o al Gesù, si esibivano i grandi oratori che sapevano tener desto l’uditorio con tutti gli arnesi del mestiere: il gesto, la mano levata a mo’ di ammonimento, la voce ora minacciosa ora suadente, le pause studiate. È probabile che molte di quelle prediche fossero troppo artefatte, troppo sceneggiate. Non lo nego. Ma avevano il pregio di farsi ascoltare anche se facevano ricorso a tutto l’armamentario un po’ consunto di apparizioni, miracoli e storie edificanti.
I predicatori di oggi – salvo naturalmente le debite eccezioni – non hanno nemmeno quei vecchi pregi. Conosco alcune parrocchie dove il risultato finale dell’omelia è la noia mortale. Il fedele dentro di sé pensa: “Dio mio, ma quando finisce?”.
La seconda osservazione che mi viene da fare è la lunghezza. Viviamo tutti in un’epoca di velocità, con dei ritmi estremamente serrati. Chi le scrive ha fatto l’inviato in tante parti del mondo. Il tempo massimo permesso dai telegiornali e giornali radio era di due minuti se l’avvenimento era importante, ma si riduceva a un minuto e mezzo se il fatto era di secondaria importanza. E allora mi chiedo: perché costringere la gente inchiodata al banco per venti minuti quando i tempi vanno contati sul metro dell’attualità? Ora non dico che un’omelia debba durare un minuto, ma deve essere stringata e viaggiare su misure alle quali il fedele è abituato. Del resto, la stessa televisione e radio danno esempi di brevità anche nelle rubriche religiose dove una meditazione non supera i tre minuti. Fra i tanti programmi andati in onda, ricordo qui una serie di Piero Gheddo che era esemplare per sintesi.
Ma, caro don Franco, lei mi potrebbe obiettare che quello che conta non è né il tempo, né il foglietto scritto. Ma quello che c’è dentro la predica, cioè il pensiero, il messaggio, l’essenza.
Concordo con lei. Il messaggio è la cosa più importante. Ma è proprio qui che si colgono in tanti predicatori domenicali i limiti della comunicazione. Non si può imbottire la coscienza del fedele di tanti precetti che, finita la messa, svaniscono come neve al sole. Non si può dire alla gente che dev’essere casta, devota, caritatevole, mite, di preghiera, di sacrificio, ligia ai propri doveri di stato, buoni mariti o buone mogli, e tutto questo in venti minuti. Il risultato è che di tanti saggi consigli non resta niente se non un vago invito ad essere buoni.
Sono del parere che la predica debba dare al fedele un concetto, uno solo. Qualcosa che lo accompagni durante la settimana. Un pensiero chiaro, limpido, essenziale che non muoia, appunto, all’uscita della chiesa. E questo consiglio resterà impresso quanto più sarà stato lineare. Ma tutto questo esige dal sacerdote preparazione, cultura, senso del pubblico e capacità di comunicazione. Lo so, è un lavoro che richiede fatica e intelligenza. A fare una predica infarcita di luoghi comuni ci vuole poco. Per colpire il fedele e lasciare un segno, ci vuole molto. Come diceva Montanelli, la chiarezza costa una grande fatica. Vale per un articolo e per una predica. Occorre sfrondare il testo da tutte le cose accessorie e puntare all’essenziale.
C’è poi una cosa, caro don Franco, che nella predica di tanti sacerdoti trovo astruso: il distacco dalla vita reale.
Provo a chiedere a me stesso: cosa cerchi in un’omelia? Ecco, io cerco qualcosa che si inserisca nella mia vita di ogni giorno. L’omelia dev’essere – mi piace usare questo termine – esistenziale, deve calarsi nella mia vita personale, di famiglia, di ufficio, politica, civile. Deve trattare con quello che tocca la mia sfera personale, il dolore, la malattia, la morte, la disoccupazione, il clientelismo, le disillusioni, le amarezze, i figli, la suocera, la professione, il successo o l’insuccesso, la solitudine, la vecchiaia. Qualcuno dirà: ma la domenica il sacerdote deve spiegare il vangelo. D’accordo. Ma il vangelo deve parlare all’esistenza di ognuno, dev’essere attualizzato, dev’essere una verità rimodellata sulla vita di oggi, resa contemporanea.
Sento invece sempre di più in giro un vangelo asettico che non incide sui miei problemi personali, sui problemi quotidiani della gente, un vangelo rarefatto, sospeso a mezz’aria, buono per tutte le stagioni, ieri come oggi. E proprio perché così, non incide nella mia coscienza, mi passa sopra come acqua che scivola via. Riassumere i fatti del vangelo con altre parole, sbrodolare una parabola succinta con un riassunto abborracciato non serve a niente. Irrita solamente.
Faccio qualche esempio perché il mio discorso non sembri solo teorico. Vivo in una parrocchia dove i fedeli sono in maggioranza professionisti, alti dirigenti di stato o di banche, politici, giornalisti. Quali saranno i peccati di questa gente? Solo l’amante, l’adulterio, il tradimento come è ormai un consumato cliché?
Conoscendo qualcuno di loro, so che si sentono a posto con la coscienza perché non hanno divorziato, non hanno praticato l’aborto e non hanno tradito la moglie. La vita cristiana finisce dunque tutta qui? Proprio perché ne conosco personalmente alcuni, so che esistono altre forme di peccato sulle quali non si richiama mai l’attenzione. Molti di costoro improntano il loro lavoro al più bieco clientelismo. Se non si è della stessa parrocchia politica, non c’è spazio. E dunque favoriscono appalti truccati, falsi concorsi in cui si sa già chi è il vincitore. Direttori generali e dirigenti che umiliano chi non ha santi in paradiso e che emarginano i meritevoli. I quali magari porteranno questa ferita per chissà quanti anni. Ebbene, io penso che un’omelia “esistenziale” non possa prescindere da problemi come questi. È inutile parlare di giustizia in termini vaghi che lasciano il tempo che trovano, occorre risvegliare nel fedele una sensibilità per questi temi del nostro tempo.
Mi sembra, caro don Franco, che vi sia oggi molto formalismo religioso che si appaga di formule vuote. Faccio un esempio: ogni volta che dopo il Pater noster viene l’invito a stringere la mano in segno di pace, penso sempre che si tratta di un simbolo che bisognerebbe caricare di significati concreti. Mi piacerebbe che il sacerdote dicesse: “Perdonate dentro di voi la persona che non amate, vostra suocera, vostra moglie, la segretaria, il capufficio. Perdonate in cuor vostro la persona che odiate”.
Ecco, allora il segno di pace diventerebbe un segno tangibile, tale da incidere nella nostra vita quotidiana. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Lei mi chiederà a questo punto, caro don Franco, perché si verificano fra i sacerdoti questi che potremmo chiamare disguidi di formazione. La ragione, a mio modo di vedere, sta nella crisi che investe il clero sempre meno sicuro della sua identità e della sua funzione sociale. Ricordo nella mia infanzia parroci di paese che si sentivano veramente pastori della comunità, e la comunità li considerava una guida. Oggi incontro nelle campagne poveri parroci che non hanno più nemmeno la perpetua, che si cucinano da soli e che vivono spesso trascurati o dimenticati dal paese. Non è possibile che una situazione sociale così disastrata non si ripercuota in modo sensibile sul clero.
C’è inoltre un deficit di cultura. Non che la cultura basti di per se stessa. Un sant’uomo irraggia attorno a sé un alone di amore e di carità che vale diecimila prediche intelligenti. Ma qui parliamo di gente normale. QQQuando si ha una cultura modesta e non si è santi, allora il difetto è visibile. Un sacerdote deve essere in sintonia col proprio tempo, deve leggere i giornali (non solo Avvenire e l’Osservatore), deve guardare – anche se stanca – la televisione per sapere cosa bolle in pentola. Solo così si entra in sintonia con lo stesso ambiente dei propri parrocchiani. Solo così quel brano di vangelo può essere attualizzato, immerso nella realtà, e non un vangelo atemporale ed evanescente che sa di supermercato sacro, buono per ogni domenica e per tutti gli ambienti.
Mi rendo conto, caro don Franco, delle difficoltà che questo tipo di catechesi incontra. A mio parere, occorre battere la strada della “riqualificazione” come si usa in tutte le aziende del mondo. Gli anni di seminario non bastano per tutta una vita. Penso che dei corsi veloci, essenziali, sintetici potrebbero migliorare la situazione. Non capisco perché industriali e uomini politici si affidano a esperti di comunicazione, e un sacerdote può fare a meno di questi sussidi. Resto convinto che un po’ di tecnica e di buono studio potrebbe darci dei risultati. Non si tratta di organizzare dei corsi di lunga durata ma semplicemente di tanto in tanto una “tre giorni” che rinfreschi la mente e rimetta in circolo nuove idee.
Caro don Franco, quello che le ho scritto è la mia modesta esperienza di fedele, suscettibile di critica e di disaccordo. Non pretendo di aver ragione. Avanzo solo dubbi e perplessità. Se queste righe potranno suscitare un dibattito, ne sarò lieto. Chi avrà da guadagnarne sarà la spiritualità di tutti noi.
Mi creda sempre con affetto, suo
Carlo Napoli
carlo.napoli5@tin.it
OSSERVAZIONI SULL'OMELIA
Spettabile Settimana,
ho letto con curiosità e interesse l’articolo di Carlo Napoli sulle omelie e sui gesti della santa messa.
Sono un organista liturgico, per cui abitualmente seguo la messa domenicale con lo stesso predicatore. La nostra è una messa extraparrocchiale in quanto vengono persone anche occasionali, anche se lo “zoccolo duro” è il medesimo. Concordo, comunque, con Carlo Napoli praticamente in tutto.
1. Durata dell’omelia: è proprio con 5 minuti che si raggiungono di più i cuori, magari sviscerando i concetti chiave della nostra fede: la risurrezione, l’annuncio, le tasse, il lavoro, il sacrificio di tirare avanti tutti i giorni ecc., e sui questi problemi lanciare un’àncora, come per esempio il personale confronto con la Parola, l’affidarsi in modo reale, non emotivo a Dio come a colui che vede e provvede il nostro vero bene.
2. Ho sperimentato proprio di recente come l’avere affidato nella preghiera la mia voglia di riconciliazione con i nemici quotidiani (clienti, concorrenti, persone che mi hanno denigrato per ignoranza, colleghi di lavoro, conoscenti….), dentro il sacrificio eucaristico ha dato veramente esiti quantomeno “strani”: durante la settimana successiva ho potuto sperimentare come la preghiera a cui ho cercato di applicare il desiderio autentico dell’azione è stata veramente efficace o comunque mi si sono aperti orizzonti insperati.
3. Sulla considerazione della formazione del clero sono molto più perplesso: per il mio lavoro opero in collaborazione con alcune associazioni culturali ecclesiali e conosco bene la realtà del clero della mia diocesi. Esempio lampante un recente incontro serale con una personalità di livello nazionale dell’AC (il vescovo Lambiasi, all’epoca assistente nazionale e ora arcivescovo nominato di Rimini), nel quale si discuteva la pastorale del “dopo Verona” – quindi il tema fondante dell’azione delle parrocchie e dei parroci dei prossimi dieci anni – al quale erano presenti il vescovo e non più di 5 preti, su oltre 200 (!) della diocesi. Se non si ha il tempo di ascoltare, meditare, recepire le linee della pastorale, come si fa a non pensare che tutto è improvvisato e tutto è nelle mani di sentimenti, sensazioni e non si è parte di una famiglia (la chiesa) che dovrebbe essere veramente una, consapevole del ruolo che incarna…?
4. Anche il ruolo laicale è ancora molto mortificato nella assemblea liturgica e nella chiesa in genere, spesso frutto di deleghe in bianco di qualche prete troppo o troppo poco attivo o frutto di nomine autoreferenziali dove, per motivi vari, alcune persone si incaricano da sé di compiere gesti e azioni che trovano la condiscendenza di sacerdoti timorosi o di comunità menefreghiste.
Grazie della vostra missione.
Luca Ferrari
ho letto con curiosità e interesse l’articolo di Carlo Napoli sulle omelie e sui gesti della santa messa.
Sono un organista liturgico, per cui abitualmente seguo la messa domenicale con lo stesso predicatore. La nostra è una messa extraparrocchiale in quanto vengono persone anche occasionali, anche se lo “zoccolo duro” è il medesimo. Concordo, comunque, con Carlo Napoli praticamente in tutto.
1. Durata dell’omelia: è proprio con 5 minuti che si raggiungono di più i cuori, magari sviscerando i concetti chiave della nostra fede: la risurrezione, l’annuncio, le tasse, il lavoro, il sacrificio di tirare avanti tutti i giorni ecc., e sui questi problemi lanciare un’àncora, come per esempio il personale confronto con la Parola, l’affidarsi in modo reale, non emotivo a Dio come a colui che vede e provvede il nostro vero bene.
2. Ho sperimentato proprio di recente come l’avere affidato nella preghiera la mia voglia di riconciliazione con i nemici quotidiani (clienti, concorrenti, persone che mi hanno denigrato per ignoranza, colleghi di lavoro, conoscenti….), dentro il sacrificio eucaristico ha dato veramente esiti quantomeno “strani”: durante la settimana successiva ho potuto sperimentare come la preghiera a cui ho cercato di applicare il desiderio autentico dell’azione è stata veramente efficace o comunque mi si sono aperti orizzonti insperati.
3. Sulla considerazione della formazione del clero sono molto più perplesso: per il mio lavoro opero in collaborazione con alcune associazioni culturali ecclesiali e conosco bene la realtà del clero della mia diocesi. Esempio lampante un recente incontro serale con una personalità di livello nazionale dell’AC (il vescovo Lambiasi, all’epoca assistente nazionale e ora arcivescovo nominato di Rimini), nel quale si discuteva la pastorale del “dopo Verona” – quindi il tema fondante dell’azione delle parrocchie e dei parroci dei prossimi dieci anni – al quale erano presenti il vescovo e non più di 5 preti, su oltre 200 (!) della diocesi. Se non si ha il tempo di ascoltare, meditare, recepire le linee della pastorale, come si fa a non pensare che tutto è improvvisato e tutto è nelle mani di sentimenti, sensazioni e non si è parte di una famiglia (la chiesa) che dovrebbe essere veramente una, consapevole del ruolo che incarna…?
4. Anche il ruolo laicale è ancora molto mortificato nella assemblea liturgica e nella chiesa in genere, spesso frutto di deleghe in bianco di qualche prete troppo o troppo poco attivo o frutto di nomine autoreferenziali dove, per motivi vari, alcune persone si incaricano da sé di compiere gesti e azioni che trovano la condiscendenza di sacerdoti timorosi o di comunità menefreghiste.
Grazie della vostra missione.
Luca Ferrari
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