Caro direttore,
fortemente sollecitato dalla lettera apparsa su Settimana dell’11 febbraio scorso, scrivo di getto alcune osservazioni, sull’onda emotiva del dibattito in corso a proposito di politica e vescovi, coppie di fatto ed etica, Cei e realtà pastorale italiana. Condivido il tono e il contenuto della lettera citata: pacata, seriamente articolata nelle sue argomentazioni, con ampio respiro di amore al vangelo, all’uomo e alla chiesa, vista come mater et magistra. Mater et magistra, appunto, secondo l’ineguagliabile definizione che ne ha dato l’indimenticabile papa Giovanni XXIII nell’omonima enciclica.
Maternità e magisterialità della chiesa: un binomio inscindibile a servizio del mondo per amarlo e illuminarlo. Maternità, come capacità di esprimere compassione; magisterialità, come capacità di proporre la “buona notizia” del vangelo. Buona notizia che non è buonismo pacioso e pressappochista ma annuncio profetico e testimonianza di misericordia. Una buona notizia offerta a due mani: una mano che indica il progetto ideale e l’altra mano che sostiene con amorevolezza il cammino accidentato della vita degli uomini.
Qualche mese fa, in diocesi di Treviso, è stato celebrato il 50° anniversario della morte del vescovo Antonio Mantiero che, per il suo impegno civile a favore dei poveri e dei perseguitati durante l’occupazione tedesca, è stato riconosciuto come defensor civitatis nel primo consiglio comunale di Treviso liberata. Questo vescovo amava ripetere argutamente: «Non bisogna adoperare il pastorale per darlo in testa alla gente, ma per servire amando!». Il pastorale, che come strumento simbolico rappresenta il ministero episcopale e la sua funzione magisteriale, in questo caso diventava per Mantiero la metafora di una testimonianza di vita che metteva al centro dell’azione pastorale il cuore del vangelo che è, appunto, il servizio, la misericordia e l’agape. E così, infatti, è stato per il vescovo trevigiano negli anni dell’ultima guerra mondiale quando ha sottratto alle torture e al carcere nazifascista centinaia di preti e di civili. Così è stato quando, nell’immediato dopoguerra, in una Treviso distrutta dai bombardamenti, ha aperto le porte del suo episcopio per una mensa popolare a favore dei senzatetto.
I vecchi trevigiani, dopo oltre 50 anni dalla morte di Mantiero, non conoscono affatto il titolo delle sue lettere pastorali dove certamente veniva proposta la dottrina ecclesiale ma conservano intatta nel cuore la memoria profetica di un vescovo, pater et magister, che si chinava per estrarre dalle macerie le vittime del devastante bombardamento del venerdì santo 1944 o a detergere le piaghe dei feriti superstiti o a supplicare clemenza presso i carnefici nazifascisti.
Mentre scrivevo queste righe ho tenuto davanti a me il brano del vangelo di domenica 18 febbraio dove si leggeva: «Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro! Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato!» (Lc 6,37). Sono gocce di balsamo purificante che scendono a lenire e a detergere il cuore ferito degli uomini, anche degli uomini di chiesa. E sognavo che quel “lieto messaggio” fosse proclamato, con verità e umiltà, dai pulpiti italiani.
don Giorgio Morlin
Mogliano Veneto (TV)
mercoledì 21 febbraio 2007
PRESBITERI: MENO ESTERIORITÀ E PROTAGONISMI
Cara Settimana,
da tempo rimugino dentro di me una domanda che mi inquieta e non riesco a liberarmene: dove va la chiesa? So benissimo che essa è nelle mani di Dio e che, malgrado tutto e tutti, giungerà a salvezza.
Anche il popolo di Abramo era nelle mani di Dio e da lui benedetto, ma giunse il tempo in cui dovette sperimentare l’esilio dalla sua terra e vivere da schiavo nelle mani degli egiziani. Che ci sia un tempo simile anche per la chiesa a causa della perdita della sua specifica identità, per l’oscuramento della sua bellezza interiore, per essersi smarrita nel suo cammino sfociato in un vero e proprio deserto?
Se i giovani non sono più attratti dal sacerdozio, come scelta di vita, non è forse perché dal nostro cuore non è balzato fuori il suo alto significato, il suo assoluto valore e la sua necessità? La scarsità dei sacerdoti, ridotti quasi al lumicino, è sotto gli occhi di tutti.
Vedo elevati al ministero di vescovi – anche se non è loro colpa – sacerdoti dotati di lauree guadagnate in svariate università teologiche, ma che difettano dell’esperienza diretta in una qualsiasi parrocchia, pur essendo vivaci programmatori di pastorale globale.
Vedo sacerdoti nelle parrocchie che, anziché essere “profumo di Cristo”, spandono a piene mani l’odore di se stessi. Sembra che essi abbiano una sola preoccupazione: farsi ammirare stando in vetrina, sempre sfornatori di affastellate programmazioni per tutti i gusti e per tutte le ore, sovente per racimolare denaro. Dove sono i sacerdoti che celebrano con fede luminosa l’eucaristia e vivono in povertà come Cristo, che dedicano tempo e cuore per assistere gli infermi, visto che la quasi totalità di essi muore priva di ogni sacramentalità?
Mi si dice che i sacerdoti hanno tante cose da fare, seduti al computer o al telefonino per scambiarsi un po’ di chiacchiere, o che hanno da pensare al percorso delle gite da fare, oppure hanno da organizzare le merende a prezzo libero e le cene a prezzo fisso, e anche i “festivalbar” con annesse canzoni.
Sì, tutte cose belle. Ma non sono, casomai, cose che possono fare i laici avendone competenza e diritto? Non hanno i preti il compito di essere canali della grazia di Dio, operatori del mistero di Dio, trasmettitori del soffio dello Spirito Santo, testimoni autentici e limpidi della parola di Dio che da loro dev’essere innanzitutto vissuta e poi annunciata in tutta la sua limpidezza e in tutta la sua carica di attrazione, così da scendere e depositarsi nel cuore della gente, fino ad essere provocatrice di conversione?
Se le omelie sono sciatte e noiose è perché non si avvicinano abbastanza al “verbo di Dio”, ma si camuffano di eloquio pieno di cultura, sono prive di afflato interiore, spirituale, autenticamente biblico e carismatico. Mi sembrano talora al passo con questo nostro tempo, appiattito e povero di significati alti.
È serio e dignitoso fare la comunione eucaristica e appena messa in bocca l’ostia consacrata, sentirsi offrire un volantino che programma una commedia al teatro oppure una cena all’aperto con annessa lotteria? Se la pastorale è a questo livello di “mercato rionale”, come può la gente incontrare gli occhi di Cristo e sentire i battiti del suo cuore misericordioso e salvifico?
La gente è alla ricerca di preti che abbiano i “calli alle ginocchia”, perché costoro hanno la capacità di far nascere speranze, di rendere preziose le loro fatiche, di ascoltare con tenerezza materna i loro ingarbugliati problemi.
La gente oggi non cerca nel prete lo spettacolo o il passatempo: ha già la televisione per restarne inchiodata e addormentata. Cerca delle mani che sappiano indicare un cammino sicuro, un cuore che sappia comunicare amore, una corda alla quale attaccarsi per scalare la montagna della vita così da poter contemplare dalla sua vetta il vasto orizzonte di Dio e cominciare finalmente a cantare l’alleluia.
Se la chiesa non torna ad essere “come nel primo giorno della pentecoste”, sarà un bel guaio. Poiché questo non sembra accadere, dobbiamo aspettarci, come succede ai figli che non capiscono le ragioni del padre, qualche schiaffo di Dio o qualche sua bastonata. Le spese della sua “arrabbiatura” resteranno a nostro carico. Se la chiesa è “nel mondo, ma non del mondo”, non può essere trattata e gestita come le cose del mondo, ma come si conviene a Dio e alle cose di Dio.
Cristo non si è fatto inchiodare ad una croce per lasciare nel mondo uno “specchietto per le allodole”, ma per incastrare, nel sottofondo della terra, l’energia di un vulcano che, in permanente attività, la facesse esplodere così da cambiarle cuore e volto, non più vestita da prostituta ma da vergine sposa, “tutta bella e immacolata”, immagine e specchio della bellezza di Dio.
Chiedo perdono, se sono stato un po’ “graffiante”.
Averardo Dini (Firenze)
La lettera di don Averardo dipinge un “modello” di prete che può essere presente nel panorama ecclesiale italiano. Riteniamo in ogni caso ingeneroso “generalizzare” la descrizione che egli ne fa, a tratti molto radicale e pessimista. La chiesa è «nelle mani di Dio», come afferma lo stesso don Averardo all’inizio della lettera. Quindi, non può venir meno la nostra fiducia nella sua assistenza e nella sua guida. Siamo convinti che – anche in quel “deserto” odierno che si chiama secolarismo o indifferenza – ci sono molti presbiteri in Italia che donano la vita al gregge loro affidato, con “i calli alle ginocchia” e senza “fare rumore”, e che usano della modernità e della tecnologia in modo sobrio e appropriato. Accogliamo, comunque, il richiamo a tenere nella massima considerazione quel “proprium” che caratterizza i presbiteri e che dovrebbe dissuaderli dal disperdersi in attività che non riguardano “direttamente” il loro ministero specifico. E accogliamo questo intervento “graffiante” per aiutarci a ridefinire sempre meglio un “modello” di pastore che sappia evangelizzare, con la corresponsabilità dei laici, il “nostro” mondo che cambia. (M. Pizzighini)
da tempo rimugino dentro di me una domanda che mi inquieta e non riesco a liberarmene: dove va la chiesa? So benissimo che essa è nelle mani di Dio e che, malgrado tutto e tutti, giungerà a salvezza.
Anche il popolo di Abramo era nelle mani di Dio e da lui benedetto, ma giunse il tempo in cui dovette sperimentare l’esilio dalla sua terra e vivere da schiavo nelle mani degli egiziani. Che ci sia un tempo simile anche per la chiesa a causa della perdita della sua specifica identità, per l’oscuramento della sua bellezza interiore, per essersi smarrita nel suo cammino sfociato in un vero e proprio deserto?
Se i giovani non sono più attratti dal sacerdozio, come scelta di vita, non è forse perché dal nostro cuore non è balzato fuori il suo alto significato, il suo assoluto valore e la sua necessità? La scarsità dei sacerdoti, ridotti quasi al lumicino, è sotto gli occhi di tutti.
Vedo elevati al ministero di vescovi – anche se non è loro colpa – sacerdoti dotati di lauree guadagnate in svariate università teologiche, ma che difettano dell’esperienza diretta in una qualsiasi parrocchia, pur essendo vivaci programmatori di pastorale globale.
Vedo sacerdoti nelle parrocchie che, anziché essere “profumo di Cristo”, spandono a piene mani l’odore di se stessi. Sembra che essi abbiano una sola preoccupazione: farsi ammirare stando in vetrina, sempre sfornatori di affastellate programmazioni per tutti i gusti e per tutte le ore, sovente per racimolare denaro. Dove sono i sacerdoti che celebrano con fede luminosa l’eucaristia e vivono in povertà come Cristo, che dedicano tempo e cuore per assistere gli infermi, visto che la quasi totalità di essi muore priva di ogni sacramentalità?
Mi si dice che i sacerdoti hanno tante cose da fare, seduti al computer o al telefonino per scambiarsi un po’ di chiacchiere, o che hanno da pensare al percorso delle gite da fare, oppure hanno da organizzare le merende a prezzo libero e le cene a prezzo fisso, e anche i “festivalbar” con annesse canzoni.
Sì, tutte cose belle. Ma non sono, casomai, cose che possono fare i laici avendone competenza e diritto? Non hanno i preti il compito di essere canali della grazia di Dio, operatori del mistero di Dio, trasmettitori del soffio dello Spirito Santo, testimoni autentici e limpidi della parola di Dio che da loro dev’essere innanzitutto vissuta e poi annunciata in tutta la sua limpidezza e in tutta la sua carica di attrazione, così da scendere e depositarsi nel cuore della gente, fino ad essere provocatrice di conversione?
Se le omelie sono sciatte e noiose è perché non si avvicinano abbastanza al “verbo di Dio”, ma si camuffano di eloquio pieno di cultura, sono prive di afflato interiore, spirituale, autenticamente biblico e carismatico. Mi sembrano talora al passo con questo nostro tempo, appiattito e povero di significati alti.
È serio e dignitoso fare la comunione eucaristica e appena messa in bocca l’ostia consacrata, sentirsi offrire un volantino che programma una commedia al teatro oppure una cena all’aperto con annessa lotteria? Se la pastorale è a questo livello di “mercato rionale”, come può la gente incontrare gli occhi di Cristo e sentire i battiti del suo cuore misericordioso e salvifico?
La gente è alla ricerca di preti che abbiano i “calli alle ginocchia”, perché costoro hanno la capacità di far nascere speranze, di rendere preziose le loro fatiche, di ascoltare con tenerezza materna i loro ingarbugliati problemi.
La gente oggi non cerca nel prete lo spettacolo o il passatempo: ha già la televisione per restarne inchiodata e addormentata. Cerca delle mani che sappiano indicare un cammino sicuro, un cuore che sappia comunicare amore, una corda alla quale attaccarsi per scalare la montagna della vita così da poter contemplare dalla sua vetta il vasto orizzonte di Dio e cominciare finalmente a cantare l’alleluia.
Se la chiesa non torna ad essere “come nel primo giorno della pentecoste”, sarà un bel guaio. Poiché questo non sembra accadere, dobbiamo aspettarci, come succede ai figli che non capiscono le ragioni del padre, qualche schiaffo di Dio o qualche sua bastonata. Le spese della sua “arrabbiatura” resteranno a nostro carico. Se la chiesa è “nel mondo, ma non del mondo”, non può essere trattata e gestita come le cose del mondo, ma come si conviene a Dio e alle cose di Dio.
Cristo non si è fatto inchiodare ad una croce per lasciare nel mondo uno “specchietto per le allodole”, ma per incastrare, nel sottofondo della terra, l’energia di un vulcano che, in permanente attività, la facesse esplodere così da cambiarle cuore e volto, non più vestita da prostituta ma da vergine sposa, “tutta bella e immacolata”, immagine e specchio della bellezza di Dio.
Chiedo perdono, se sono stato un po’ “graffiante”.
Averardo Dini (Firenze)
La lettera di don Averardo dipinge un “modello” di prete che può essere presente nel panorama ecclesiale italiano. Riteniamo in ogni caso ingeneroso “generalizzare” la descrizione che egli ne fa, a tratti molto radicale e pessimista. La chiesa è «nelle mani di Dio», come afferma lo stesso don Averardo all’inizio della lettera. Quindi, non può venir meno la nostra fiducia nella sua assistenza e nella sua guida. Siamo convinti che – anche in quel “deserto” odierno che si chiama secolarismo o indifferenza – ci sono molti presbiteri in Italia che donano la vita al gregge loro affidato, con “i calli alle ginocchia” e senza “fare rumore”, e che usano della modernità e della tecnologia in modo sobrio e appropriato. Accogliamo, comunque, il richiamo a tenere nella massima considerazione quel “proprium” che caratterizza i presbiteri e che dovrebbe dissuaderli dal disperdersi in attività che non riguardano “direttamente” il loro ministero specifico. E accogliamo questo intervento “graffiante” per aiutarci a ridefinire sempre meglio un “modello” di pastore che sappia evangelizzare, con la corresponsabilità dei laici, il “nostro” mondo che cambia. (M. Pizzighini)
giovedì 15 febbraio 2007
A PROPOSITO DELL'ARTICOLO SU "L'ESPRESSO" DAL TITOLO "BENEDETTA ASSOLUZIONE"
Gentile direttore,
e se fosse uno dei confessionali della cattedrale di Cesena quello che alcuni giornalisti de L’Espresso (n. 4 dell’1° febbraio 2007), con atteggiamento rozzo e incompetente, hanno violato fingendosi penitenti desiderosi di assoluzione? Chi ci difenderà da una prepotenza che profana un luogo così sacro e ferisce chi vi opera, nonostante tutte le leggi sulla privacy?
Circa tre mesi fa, seguendo una proposta del mio vescovo, ho lasciato la parrocchia di San Piero in Bagno per svolgere il compito di penitenziere nella cattedrale di Cesena. Sono stupito e commosso, perché da quell’osservatorio il mondo si vede in una luce che non appare normalmente e si tocca con mano che Dio è continuamente all’opera: «Il Padre mio opera sempre», dice il Vangelo.
Anche dentro l’esperienza umanamente più ripugnante, il cuore e il desiderio non vengono meno. Spesso ripenso le parole di Milosz nel Miguel Manara: «Ho compiuto tutto quello che può fare un povero diavolo d’uomo, e vedete?... Come colmarlo, questo abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai»? Ora comprendo come non mai le parole di sant’Agostino all’inizio delle Confessioni: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».
L’esperienza del confessionale ringiovanisce la vita perché, io sacerdote peccatore e il penitente siamo lì tutti e due per Gesù, e quando dico le parole «Io ti assolvo» capisco che tempo e spazio si comprimono e lui, la felicità della vita, è «Qui come il primo giorno» (Peguy).
Ma al solo pensiero che una persona possa essere entrata in quel luogo senza alcun dolore, ma con l’atteggiamento dei farisei che di fronte a Gesù «cercavano di coglierlo in fallo», da un lato, mi fa pena perché vedo che c’è una malizia peggiore di tutte quelle che ascolto normalmente, ma ho il profondo conforto di vedere che Cristo è vero ieri come oggi, perché Cristo è amato e odiato ancora.
Un consiglio mi permetto di rivolgere a quei giornalisti che sorrideranno con sufficienza di queste mie osservazioni. Non è serietà professionale documentarsi prima di scrivere? Non dico che dobbiate studiare teologia, ma almeno gli elementi del catechismo che conoscono i bambini che si preparano alla prima confessione. Tra la norma morale e l’atto compiuto c’è la libertà della coscienza che solo Dio può conoscere e giudicare.
Entrando in confessionale con l’intenzione di sorprendere in fallo il confessore, avete compromesso non solo il rapporto con Cristo ma anche col sacerdote che avevate di fronte. Qualunque risposta possa egli avervi dato, era condizionata dal vostro atteggiamento. Voi non desideravate il perdono, ma solo essere confermati nel vostro pregiudizio. L’ideologia pone fuori dalla realtà. Aveva ragione Einstein: «È più facile frantumare un atomo che un pregiudizio».
Sarete riusciti a sfuggire al giudizio dei confessori di fronte ai quali vi siete inginocchiati, ma non sfuggite al giudizio di Cristo, e poco importa che voi non ci crediate: guardate solo il Giudizio universale della Cappella Sistina, e se quella mano che giudica fosse reale?
L’ultima speranza che mi rimane è quella di augurarvi che possiate incontrare un cristiano che vi faccia conoscere il fascino ragionevole della persona di Cristo così che, colpiti come Zaccheo, l’adultera o Pietro, possiate sentire il desiderio del suo abbraccio e torniate a confessarvi, ma questa volta con il dolore. Il protagonista della confessione non sono i nostri peccati, ma l’amore di Cristo.
don Onerio Manduca
e se fosse uno dei confessionali della cattedrale di Cesena quello che alcuni giornalisti de L’Espresso (n. 4 dell’1° febbraio 2007), con atteggiamento rozzo e incompetente, hanno violato fingendosi penitenti desiderosi di assoluzione? Chi ci difenderà da una prepotenza che profana un luogo così sacro e ferisce chi vi opera, nonostante tutte le leggi sulla privacy?
Circa tre mesi fa, seguendo una proposta del mio vescovo, ho lasciato la parrocchia di San Piero in Bagno per svolgere il compito di penitenziere nella cattedrale di Cesena. Sono stupito e commosso, perché da quell’osservatorio il mondo si vede in una luce che non appare normalmente e si tocca con mano che Dio è continuamente all’opera: «Il Padre mio opera sempre», dice il Vangelo.
Anche dentro l’esperienza umanamente più ripugnante, il cuore e il desiderio non vengono meno. Spesso ripenso le parole di Milosz nel Miguel Manara: «Ho compiuto tutto quello che può fare un povero diavolo d’uomo, e vedete?... Come colmarlo, questo abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai»? Ora comprendo come non mai le parole di sant’Agostino all’inizio delle Confessioni: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».
L’esperienza del confessionale ringiovanisce la vita perché, io sacerdote peccatore e il penitente siamo lì tutti e due per Gesù, e quando dico le parole «Io ti assolvo» capisco che tempo e spazio si comprimono e lui, la felicità della vita, è «Qui come il primo giorno» (Peguy).
Ma al solo pensiero che una persona possa essere entrata in quel luogo senza alcun dolore, ma con l’atteggiamento dei farisei che di fronte a Gesù «cercavano di coglierlo in fallo», da un lato, mi fa pena perché vedo che c’è una malizia peggiore di tutte quelle che ascolto normalmente, ma ho il profondo conforto di vedere che Cristo è vero ieri come oggi, perché Cristo è amato e odiato ancora.
Un consiglio mi permetto di rivolgere a quei giornalisti che sorrideranno con sufficienza di queste mie osservazioni. Non è serietà professionale documentarsi prima di scrivere? Non dico che dobbiate studiare teologia, ma almeno gli elementi del catechismo che conoscono i bambini che si preparano alla prima confessione. Tra la norma morale e l’atto compiuto c’è la libertà della coscienza che solo Dio può conoscere e giudicare.
Entrando in confessionale con l’intenzione di sorprendere in fallo il confessore, avete compromesso non solo il rapporto con Cristo ma anche col sacerdote che avevate di fronte. Qualunque risposta possa egli avervi dato, era condizionata dal vostro atteggiamento. Voi non desideravate il perdono, ma solo essere confermati nel vostro pregiudizio. L’ideologia pone fuori dalla realtà. Aveva ragione Einstein: «È più facile frantumare un atomo che un pregiudizio».
Sarete riusciti a sfuggire al giudizio dei confessori di fronte ai quali vi siete inginocchiati, ma non sfuggite al giudizio di Cristo, e poco importa che voi non ci crediate: guardate solo il Giudizio universale della Cappella Sistina, e se quella mano che giudica fosse reale?
L’ultima speranza che mi rimane è quella di augurarvi che possiate incontrare un cristiano che vi faccia conoscere il fascino ragionevole della persona di Cristo così che, colpiti come Zaccheo, l’adultera o Pietro, possiate sentire il desiderio del suo abbraccio e torniate a confessarvi, ma questa volta con il dolore. Il protagonista della confessione non sono i nostri peccati, ma l’amore di Cristo.
don Onerio Manduca
ANDIAMO PIANO A DIRE "LA CHIESA SONO IO!"
Caro direttore,
l’affermazione drastica, riportata nel titolo, fatta da un sacerdote (giovane, per giunta) ad un gruppetto di laici che gli contestava una certa decisione, esprime purtroppo una convinzione assai diffusa tra il clero. A parte il fatto che quel pretino avrebbe dovuto essere certo che quella era non la “sua” linea personale, ma almeno quella comune tra i suoi confratelli… I quali, a loro volta, avrebbero dovuto essere convinti che quello era l’orientamento dei vescovi, e non solo – ad esempio – di qualche cardinale, anche se autorevole per l’incarico che riveste, a loro volta in collegamento con il papa.
Ma il papa stesso non deve a sua volta essere collegato con il popolo di Dio? La sua infallibilità, definita nel concilio Vaticano I, si attua quando parla “ex cathedra”, che non vuol dire quando è seduto sulla sua cattedra, ma quando esprime l’infallibilità che Cristo ha garantito all’insieme della sua chiesa, di cui il papa è maestro in quanto interprete. È quello che “in soldoni” io esprimo indicandolo come il carisma dell’ultima parola, che è appunto l’ultima se viene dopo le altre parole.
Credo che l’impressione di una certa crisi della chiesa (ma forse è solo un’impressione…), di una certa stanchezza, di una certa frammentazione, possa nascere nel popolo di Dio (specialmente nelle fasce più giovani, ma non solo in quelle) dal sentirsi considerati usufruttuari di una chiesa che è solo il clero, anzi l’alto clero, anzi alcune pur legittime autorità, con giardini riservati entro cui vi sono autorità che decidono senza consultare, ma anche senza collegamento tra di loro. A Verona più di uno ha osservato che, dopo tre mezze giornate di gruppi di studio dove i laici – già selezionati, fra l’altro – avevano potuto parlare apertamente, è giunto il papa. Che ha fatto un discorso, molto bello ovviamente, ma preparato prima che il convegno potesse esprimersi. E anche gli interventi nella vita sociale troppe volte calano dall’alto su un popolo di Dio sconcertato, come sconcertato sembra ne rimanga anche tanta parte del clero, ai diversi livelli.
Ho molta fiducia in Benedetto XVI, anche per il suo richiamo alla collegialità, cioè all’allargamento di responsabilità ai vescovi, e soprattutto per il suo ricollegarsi al concilio che riconosce la chiesa nel popolo di Dio e in ogni suo membro, puntualizzando che compito della gerarchia – necessaria, funzionale – è proprio quello del “ministero”, cioè del servizio, e che solo servendo può realizzare la sua responsabilità.
Forse davvero dobbiamo tutti pregare di più, perché ciascuno abbia a compiere nella verità e nella generosità la propria missione.
Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea
l’affermazione drastica, riportata nel titolo, fatta da un sacerdote (giovane, per giunta) ad un gruppetto di laici che gli contestava una certa decisione, esprime purtroppo una convinzione assai diffusa tra il clero. A parte il fatto che quel pretino avrebbe dovuto essere certo che quella era non la “sua” linea personale, ma almeno quella comune tra i suoi confratelli… I quali, a loro volta, avrebbero dovuto essere convinti che quello era l’orientamento dei vescovi, e non solo – ad esempio – di qualche cardinale, anche se autorevole per l’incarico che riveste, a loro volta in collegamento con il papa.
Ma il papa stesso non deve a sua volta essere collegato con il popolo di Dio? La sua infallibilità, definita nel concilio Vaticano I, si attua quando parla “ex cathedra”, che non vuol dire quando è seduto sulla sua cattedra, ma quando esprime l’infallibilità che Cristo ha garantito all’insieme della sua chiesa, di cui il papa è maestro in quanto interprete. È quello che “in soldoni” io esprimo indicandolo come il carisma dell’ultima parola, che è appunto l’ultima se viene dopo le altre parole.
Credo che l’impressione di una certa crisi della chiesa (ma forse è solo un’impressione…), di una certa stanchezza, di una certa frammentazione, possa nascere nel popolo di Dio (specialmente nelle fasce più giovani, ma non solo in quelle) dal sentirsi considerati usufruttuari di una chiesa che è solo il clero, anzi l’alto clero, anzi alcune pur legittime autorità, con giardini riservati entro cui vi sono autorità che decidono senza consultare, ma anche senza collegamento tra di loro. A Verona più di uno ha osservato che, dopo tre mezze giornate di gruppi di studio dove i laici – già selezionati, fra l’altro – avevano potuto parlare apertamente, è giunto il papa. Che ha fatto un discorso, molto bello ovviamente, ma preparato prima che il convegno potesse esprimersi. E anche gli interventi nella vita sociale troppe volte calano dall’alto su un popolo di Dio sconcertato, come sconcertato sembra ne rimanga anche tanta parte del clero, ai diversi livelli.
Ho molta fiducia in Benedetto XVI, anche per il suo richiamo alla collegialità, cioè all’allargamento di responsabilità ai vescovi, e soprattutto per il suo ricollegarsi al concilio che riconosce la chiesa nel popolo di Dio e in ogni suo membro, puntualizzando che compito della gerarchia – necessaria, funzionale – è proprio quello del “ministero”, cioè del servizio, e che solo servendo può realizzare la sua responsabilità.
Forse davvero dobbiamo tutti pregare di più, perché ciascuno abbia a compiere nella verità e nella generosità la propria missione.
Luigi Bettazzi
vescovo emerito di Ivrea
PER UNA CATECHESI FORTE E SERENA SULLA FAMIGLIA
Caro padre,
ringrazio Settimana che ci consente di scambiare con i confratelli, al di là dell’ufficialità, riflessioni sui problemi più vivi della vita pastorale.
In questo momento ci sono i problemi della famiglia e delle unioni di fatto. Lasciando, con rispetto e fiducia, a chi ha responsabilità politica il compito di tutelare i diritti della famiglia e i diritti individuali dei cittadini – è la vocazione specifica dei laici cristiani nel mondo –, sotto l’aspetto pastorale, nel momento in cui tutti i riflettori sono concentrati su questi problemi, non sarebbe l’occasione provvidenziale, in sintonia con quanto richiamato dal papa e dai vescovi, per fare una forte catechesi sulle basi e sui contenuti essenziali del matrimonio e della famiglia, perché chi li vive sia incoraggiato a farlo con gioia e perché i giovani possano vedere in essi un ideale per cui vale la pena di impegnare con gioia la propria vita?
Cioè, illustrare il luminoso piano di Dio sul valore del corpo, della sessualità, dell’amore che si dona, sulla splendida missione di collaborare con Dio nella creazione della vita umana e nella costruzione della chiesa e della società umana, sul sacramento del matriomonio?
Forse una serena ma forte catechesi su questi valori può aiutare quei nostri fratelli che si illudono di trovare la felicità in un progetto diverso da quello che Dio Padre ha per loro, può aiutarli a comprendere che sono sulla strada sbagliata e che per quella strada non possono raccogliere che infelicità, già in questa vita.
Perché questo è il vero problema: o si accetta il progetto di amore di Dio o lo si rifiuta; alla radice è un problema di fede. Le unioni di fatto sono il rifiuto del progetto di Dio che è progetto di amore. La chiesa ha il compito e la responsabilità di richiamarlo con forza, con amore e con sofferenza perché chi sostiene le unioni di fatto sono quasi sempre cristiani battezzati che rifiutano il progetto di amore di Dio per loro: e la chiesa conosce anche le sofferenze che ci sono dietro a questi fallimenti.
La chiesa ha pure il compito e la responsabilità di chiedere alle pubbliche istituzioni che, in conformità alla Costituzione, creino le situazioni che rendano più facile la realizzazione del progetto di Dio per la famiglia: abitazione, lavoro, servizi per i minori e per gli anziani, pensioni adeguate: non basta affermare il valore della famiglia. Però non è sufficiente la legge a garantire la famiglia secondo il progetto di Dio: «L’uomo lascierà suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa e saranno due in una sola carne», «L’uomo non divida ciò che Dio ha unito»; la legge ha il compito e la responsabilità di creare le condizioni perché i cittadini siano aiutati a costruire la famiglia fondata sul matrimonio.
La chiesa ha il compito e la responsabilità di proporre, richiamare e illuminare il progetto di Dio per la famiglia sostenendo le persone che lo accolgono a realizzarlo con gioia.
Qualche sera fa, in una trasmissione televisiva, un popolare personaggio comico protestava con fastidio per la lunga fila di no che la chiesa pone: no alla procreazione assistita, no all’eutanasia, no ai pacs, no alle unioni di omossessuali ecc. Il progetto di Dio per l’amore umano – che la chiesa ha il compito di custodire e trasmettere – non è un no alla felicità, è un grande sì che costruisce vita e felicità.
sac. Giovanni Nervo
ringrazio Settimana che ci consente di scambiare con i confratelli, al di là dell’ufficialità, riflessioni sui problemi più vivi della vita pastorale.
In questo momento ci sono i problemi della famiglia e delle unioni di fatto. Lasciando, con rispetto e fiducia, a chi ha responsabilità politica il compito di tutelare i diritti della famiglia e i diritti individuali dei cittadini – è la vocazione specifica dei laici cristiani nel mondo –, sotto l’aspetto pastorale, nel momento in cui tutti i riflettori sono concentrati su questi problemi, non sarebbe l’occasione provvidenziale, in sintonia con quanto richiamato dal papa e dai vescovi, per fare una forte catechesi sulle basi e sui contenuti essenziali del matrimonio e della famiglia, perché chi li vive sia incoraggiato a farlo con gioia e perché i giovani possano vedere in essi un ideale per cui vale la pena di impegnare con gioia la propria vita?
Cioè, illustrare il luminoso piano di Dio sul valore del corpo, della sessualità, dell’amore che si dona, sulla splendida missione di collaborare con Dio nella creazione della vita umana e nella costruzione della chiesa e della società umana, sul sacramento del matriomonio?
Forse una serena ma forte catechesi su questi valori può aiutare quei nostri fratelli che si illudono di trovare la felicità in un progetto diverso da quello che Dio Padre ha per loro, può aiutarli a comprendere che sono sulla strada sbagliata e che per quella strada non possono raccogliere che infelicità, già in questa vita.
Perché questo è il vero problema: o si accetta il progetto di amore di Dio o lo si rifiuta; alla radice è un problema di fede. Le unioni di fatto sono il rifiuto del progetto di Dio che è progetto di amore. La chiesa ha il compito e la responsabilità di richiamarlo con forza, con amore e con sofferenza perché chi sostiene le unioni di fatto sono quasi sempre cristiani battezzati che rifiutano il progetto di amore di Dio per loro: e la chiesa conosce anche le sofferenze che ci sono dietro a questi fallimenti.
La chiesa ha pure il compito e la responsabilità di chiedere alle pubbliche istituzioni che, in conformità alla Costituzione, creino le situazioni che rendano più facile la realizzazione del progetto di Dio per la famiglia: abitazione, lavoro, servizi per i minori e per gli anziani, pensioni adeguate: non basta affermare il valore della famiglia. Però non è sufficiente la legge a garantire la famiglia secondo il progetto di Dio: «L’uomo lascierà suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa e saranno due in una sola carne», «L’uomo non divida ciò che Dio ha unito»; la legge ha il compito e la responsabilità di creare le condizioni perché i cittadini siano aiutati a costruire la famiglia fondata sul matrimonio.
La chiesa ha il compito e la responsabilità di proporre, richiamare e illuminare il progetto di Dio per la famiglia sostenendo le persone che lo accolgono a realizzarlo con gioia.
Qualche sera fa, in una trasmissione televisiva, un popolare personaggio comico protestava con fastidio per la lunga fila di no che la chiesa pone: no alla procreazione assistita, no all’eutanasia, no ai pacs, no alle unioni di omossessuali ecc. Il progetto di Dio per l’amore umano – che la chiesa ha il compito di custodire e trasmettere – non è un no alla felicità, è un grande sì che costruisce vita e felicità.
sac. Giovanni Nervo
giovedì 8 febbraio 2007
POLITICA, QUESTIONI ETICHE E IMPLICAZIONI PASTORALI
Caro direttore,
si accavallano nel confronto politico problematiche di rilevanza etica, con forte impatto mediatico. Dopo le questioni che ruotano intorno all’eutanasia, sotto la pressione del caso Welby, è adesso il turno delle cosiddette unioni civili o di fatto.
Vorrei proporre qualche riflessione, sperando nell’avvio di un confronto anche sulle colonne di Settimana, intorno alle implicazioni pastorali dei temi sul tappeto, inclusi i possibili “effetti collaterali” dei pronunciamenti delle autorità ecclesiastiche sul cammino della chiesa italiana. Una chiesa che in questi anni è cresciuta nella consapevolezza dell’attenzione missionaria verso la società italiana, pienamente confermata nel convegno di Verona. Infatti, la crescente diffusione di termini come “nuova evangelizzazione”, “primo annuncio” e “parrocchia missionaria” tra gli operatori pastorali di base (a partire dai parroci e dai catechisti) si accompagna alla consapevolezza di stare dentro una società secolarizzata, post-cristiana e per certi versi neo-pagana. Oggi in Italia si può essere “anche” cristiani e cattolici, ma senza che molti trovino nel messaggio cristiano il proprio quadro di riferimento etico, o si sentano moralmente vincolati in momenti cruciali dell’esistenza.
Per stare alle questioni di scottante attualità: una cosa è parlare di eutanasia a partire da una visione cristiana della malattia (la vita come dono di Dio, la sofferenza come partecipazione alla croce di Gesù, la morte nella prospettiva dei “novissimi”), altra cosa ritenere la vita una casualità biologica, la sofferenza una non-vita e la morte la fine di tutto. Analoghi ragionamenti sulle differenze di valore e di senso – secondo che si accolga o no una visione di fede – si possono fare sui tempi e i modi del procreare e generare, sul legame d’amore tra un uomo e una donna, sul senso dell’educazione religiosa dei figli. Bisognerebbe, casomai, evidenziare la scarsa attenzione su altre questioni di confine tra etica e politica: il lavoro, la salvaguardia del creato, la pace e la guerra, l’attenzione ai poveri e agli ultimi… Senza peraltro dare per scontato che, da una “lettura cristiana” di fenomeni sociali complessi, derivino necessariamente e sempre giudizi univoci.
È comunque chiaro che, nella società pluralista e diversificata, una parte consistente degli italiani, di fronte a questioni eticamente rilevanti, non assume come riferimento decisivo i principi e i precetti che poggiano sulla rivelazione divina e che il magistero propone alla comunità ecclesiale. E che quei principi e precetti non sono immediatamente spendibili in sedi civili “esterne” alla comunità ecclesiale: decreti del governo e leggi del parlamento non sono deducibili dalla parola di Dio e dalla dottrina sociale della chiesa; e anche la rivendicazione dei principi “non negoziabili” vale all’interno della compagine ecclesiale, mentre in ambito civile è inevitabile la mediazione con quelle componenti sociali e culturali che si ispirano ad altri quadri valoriali e sono portatrici di altri “interessi” e altre sensibilità.
È questo lo spazio e il ruolo dei laici credenti, di donne e uomini spiritualmente ricchi, culturalmente attrezzati, tecnicamente preparati e quindi capaci di stare in campo aperto a tradurre l’ispirazione cristiana in formulazioni proponibili e difendibili nella pluralità di idee e di schieramenti, nella raccolta e gestione del consenso, nell’inevitabile negoziazione del gioco democratico di una politica “plurale”.
Non dovrebbe essere compito del “personale ecclesiastico”, neanche dei vertici della Cei (lo dico con molto rispetto ma con altrettanta preoccupazione), passare dalla legittima e necessaria proposta e tutela dei valori in gioco all’indicazione delle strategie d’azione e addirittura degli strumenti giuridici per affermarli.
La conseguenza – e per certi versi anche la concausa – dell’eccessiva esposizione politico/mediatica dell’autorità ecclesiastica sarà la rarefazione di laici credenti adulti, liberi e responsabili, capaci di autonoma responsabilità politica. La chiesa italiana, a partire dai nostri vescovi, deve chiedersi che tipo di laici sta allevando. Per avere personalità adulte capaci di giocare “fuori casa”, bisogna che in casa – cioè nella chiesa, a partire dalle parrocchie – ci sia più discussione e più passione per gli andamenti sociali, per la politica come servizio alla comunità, per il bene comune. Non basta drizzare le antenne e magari stracciarsi le vesti quando il dibattito tocca questioni di bioetica, se a trattare tali questioni, a confrontarsi e magari a scontrarsi, non abbiamo saputo preparare persone trasparenti, generose, competenti, capaci di giocare “a tutto campo”. Quanto investiamo sull’educazione sociopolitica dei giovani e degli adulti per farli appassionare alla pace, alla giustizia, alla difesa della dignità di ogni persona, alla solidarietà locale e planetaria? Nella comunità cristiana, prima e più che ingaggiare polemiche con i “laicisti” (o coltivare amicizie con i “laici devoti”), c’è bisogno di ripartire dal Vangelo per mostrare che la potenza (dynamis) della risurrezione è fonte di vera novità.
Solo un rilancio di tensione sociale e civile, solo un amore appassionato e critico verso la politica potranno abilitare i credenti adulti a un confronto che non consista nel contrapporre a valori e progetti “soltanto” umani la dottrina sociale cristiana. La costruzione del bene comune, perché sia bene e perché sia comune, chiede ogni sforzo di dialogo per una sintesi “alta”, quanto più possibile inclusiva. E richiede accoglienza di tutti i germi di bene che il Creatore ha posto nel cuore di ogni persona.
L’altro versante di tutto questo discorso riguarda le esigenze dell’evangelizzazione in quanto impegno pastorale diretto, a partire dal primo annuncio ai “lontani” ad opera di una chiesa che si accorge di essere una delle “parti” di cui la società è composta e non più l’anima, o la coscienza critica, della società intera. Ed è qui che si gioca lo stile e forse la stessa impostazione dell’opzione missionaria della chiesa in Italia. L’anima della missione – dovrebbe essere chiaro almeno dal Vaticano II in qua – non è la conquista ma la proposta, la capacità di accostare le persone all’interno di contesti diversi e “altri” per consegnare non la morale cattolica, ma la buona notizia di Gesù di Nazaret, che parla al cuore di ogni persona, illumina i concreti cammini di vita, spalanca sui progetti umani l’orizzonte del regno di Dio. Fino a porre il “caso serio” della morte e della risurrezione che è offerta gratuita di salvezza e richiesta impegnativa di sequela.
Una chiesa che apparisse propensa a lanciare condanne e anatemi, incline più al giudizio che alla misericordia, non rischia di inficiare quella “simpatia” di cui hanno bisogno i nuovi evangelizzatori? Non è avvenuto qualcosa di ciò nel rifiuto di un qualche “segno” religioso cattolico in occasione della morte di Piergiorgio Welby?
Per la questione delle unioni di fatto, pacs e dintorni, è chiaro che si tratta di situazioni riguardanti un crescente numero di persone, una parte delle quali continuano a cercare la chiesa, soprattutto per chiedere i sacramenti dell’iniziazione cristiana per i loro figli. Molti dei fidanzati che prepariamo al matrimonio hanno già dato vita a “coppie di fatto”: dobbiamo sanzionarli come concubini o aiutarli a crescere nella scoperta di un amore più grande? Ma non andrebbe sorvolata la situazione dei vedovi cui concediamo il matrimonio solo religioso per mantenere la pensione di reversibilità del precedente coniuge, perché in questo caso è l’autorità ecclesiastica che concede la dispensa a dare vita a delle unioni di fatto… E dobbiamo aspettarci che queste persone, se potranno ottenere qualche diritto e opportunità, si iscrivano nel registro dei pacs.
Al di là del rischio di “usare” la richiesta dei sacramenti come espediente per annunciare un po’ di Vangelo, bisogna aver chiaro che è dall’incontro col Risorto che scaturisce la proposta di una vita nuova. Solo chi sarà affascinato dalla buona notizia, dalla storia di un Dio a cui stanno davvero a cuore le nostre storie potrà aprirsi a un autentico cammino di conversione. È difficile affascinare le persone a partire da prescrizioni e divieti… Insomma, a fondamento di una chiesa missionaria c’è la convinzione che ci salva il Vangelo e non la morale.
Mi rendo conto che questa è solo una parte del discorso, che la chiesa deve vigilare sui costumi e gli orientamenti etici, far risplendere la verità anche quando risulti sgradita. Ma sarà soprattutto una chiesa capace di presentarsi al mondo nel segno della misericordia e della prossimità a offrire alla gente la possibilità di interrogarsi sul senso profondo della vita e lasciarsi condurre dal vento dello Spirito.
lettera firmata
si accavallano nel confronto politico problematiche di rilevanza etica, con forte impatto mediatico. Dopo le questioni che ruotano intorno all’eutanasia, sotto la pressione del caso Welby, è adesso il turno delle cosiddette unioni civili o di fatto.
Vorrei proporre qualche riflessione, sperando nell’avvio di un confronto anche sulle colonne di Settimana, intorno alle implicazioni pastorali dei temi sul tappeto, inclusi i possibili “effetti collaterali” dei pronunciamenti delle autorità ecclesiastiche sul cammino della chiesa italiana. Una chiesa che in questi anni è cresciuta nella consapevolezza dell’attenzione missionaria verso la società italiana, pienamente confermata nel convegno di Verona. Infatti, la crescente diffusione di termini come “nuova evangelizzazione”, “primo annuncio” e “parrocchia missionaria” tra gli operatori pastorali di base (a partire dai parroci e dai catechisti) si accompagna alla consapevolezza di stare dentro una società secolarizzata, post-cristiana e per certi versi neo-pagana. Oggi in Italia si può essere “anche” cristiani e cattolici, ma senza che molti trovino nel messaggio cristiano il proprio quadro di riferimento etico, o si sentano moralmente vincolati in momenti cruciali dell’esistenza.
Per stare alle questioni di scottante attualità: una cosa è parlare di eutanasia a partire da una visione cristiana della malattia (la vita come dono di Dio, la sofferenza come partecipazione alla croce di Gesù, la morte nella prospettiva dei “novissimi”), altra cosa ritenere la vita una casualità biologica, la sofferenza una non-vita e la morte la fine di tutto. Analoghi ragionamenti sulle differenze di valore e di senso – secondo che si accolga o no una visione di fede – si possono fare sui tempi e i modi del procreare e generare, sul legame d’amore tra un uomo e una donna, sul senso dell’educazione religiosa dei figli. Bisognerebbe, casomai, evidenziare la scarsa attenzione su altre questioni di confine tra etica e politica: il lavoro, la salvaguardia del creato, la pace e la guerra, l’attenzione ai poveri e agli ultimi… Senza peraltro dare per scontato che, da una “lettura cristiana” di fenomeni sociali complessi, derivino necessariamente e sempre giudizi univoci.
È comunque chiaro che, nella società pluralista e diversificata, una parte consistente degli italiani, di fronte a questioni eticamente rilevanti, non assume come riferimento decisivo i principi e i precetti che poggiano sulla rivelazione divina e che il magistero propone alla comunità ecclesiale. E che quei principi e precetti non sono immediatamente spendibili in sedi civili “esterne” alla comunità ecclesiale: decreti del governo e leggi del parlamento non sono deducibili dalla parola di Dio e dalla dottrina sociale della chiesa; e anche la rivendicazione dei principi “non negoziabili” vale all’interno della compagine ecclesiale, mentre in ambito civile è inevitabile la mediazione con quelle componenti sociali e culturali che si ispirano ad altri quadri valoriali e sono portatrici di altri “interessi” e altre sensibilità.
È questo lo spazio e il ruolo dei laici credenti, di donne e uomini spiritualmente ricchi, culturalmente attrezzati, tecnicamente preparati e quindi capaci di stare in campo aperto a tradurre l’ispirazione cristiana in formulazioni proponibili e difendibili nella pluralità di idee e di schieramenti, nella raccolta e gestione del consenso, nell’inevitabile negoziazione del gioco democratico di una politica “plurale”.
Non dovrebbe essere compito del “personale ecclesiastico”, neanche dei vertici della Cei (lo dico con molto rispetto ma con altrettanta preoccupazione), passare dalla legittima e necessaria proposta e tutela dei valori in gioco all’indicazione delle strategie d’azione e addirittura degli strumenti giuridici per affermarli.
La conseguenza – e per certi versi anche la concausa – dell’eccessiva esposizione politico/mediatica dell’autorità ecclesiastica sarà la rarefazione di laici credenti adulti, liberi e responsabili, capaci di autonoma responsabilità politica. La chiesa italiana, a partire dai nostri vescovi, deve chiedersi che tipo di laici sta allevando. Per avere personalità adulte capaci di giocare “fuori casa”, bisogna che in casa – cioè nella chiesa, a partire dalle parrocchie – ci sia più discussione e più passione per gli andamenti sociali, per la politica come servizio alla comunità, per il bene comune. Non basta drizzare le antenne e magari stracciarsi le vesti quando il dibattito tocca questioni di bioetica, se a trattare tali questioni, a confrontarsi e magari a scontrarsi, non abbiamo saputo preparare persone trasparenti, generose, competenti, capaci di giocare “a tutto campo”. Quanto investiamo sull’educazione sociopolitica dei giovani e degli adulti per farli appassionare alla pace, alla giustizia, alla difesa della dignità di ogni persona, alla solidarietà locale e planetaria? Nella comunità cristiana, prima e più che ingaggiare polemiche con i “laicisti” (o coltivare amicizie con i “laici devoti”), c’è bisogno di ripartire dal Vangelo per mostrare che la potenza (dynamis) della risurrezione è fonte di vera novità.
Solo un rilancio di tensione sociale e civile, solo un amore appassionato e critico verso la politica potranno abilitare i credenti adulti a un confronto che non consista nel contrapporre a valori e progetti “soltanto” umani la dottrina sociale cristiana. La costruzione del bene comune, perché sia bene e perché sia comune, chiede ogni sforzo di dialogo per una sintesi “alta”, quanto più possibile inclusiva. E richiede accoglienza di tutti i germi di bene che il Creatore ha posto nel cuore di ogni persona.
L’altro versante di tutto questo discorso riguarda le esigenze dell’evangelizzazione in quanto impegno pastorale diretto, a partire dal primo annuncio ai “lontani” ad opera di una chiesa che si accorge di essere una delle “parti” di cui la società è composta e non più l’anima, o la coscienza critica, della società intera. Ed è qui che si gioca lo stile e forse la stessa impostazione dell’opzione missionaria della chiesa in Italia. L’anima della missione – dovrebbe essere chiaro almeno dal Vaticano II in qua – non è la conquista ma la proposta, la capacità di accostare le persone all’interno di contesti diversi e “altri” per consegnare non la morale cattolica, ma la buona notizia di Gesù di Nazaret, che parla al cuore di ogni persona, illumina i concreti cammini di vita, spalanca sui progetti umani l’orizzonte del regno di Dio. Fino a porre il “caso serio” della morte e della risurrezione che è offerta gratuita di salvezza e richiesta impegnativa di sequela.
Una chiesa che apparisse propensa a lanciare condanne e anatemi, incline più al giudizio che alla misericordia, non rischia di inficiare quella “simpatia” di cui hanno bisogno i nuovi evangelizzatori? Non è avvenuto qualcosa di ciò nel rifiuto di un qualche “segno” religioso cattolico in occasione della morte di Piergiorgio Welby?
Per la questione delle unioni di fatto, pacs e dintorni, è chiaro che si tratta di situazioni riguardanti un crescente numero di persone, una parte delle quali continuano a cercare la chiesa, soprattutto per chiedere i sacramenti dell’iniziazione cristiana per i loro figli. Molti dei fidanzati che prepariamo al matrimonio hanno già dato vita a “coppie di fatto”: dobbiamo sanzionarli come concubini o aiutarli a crescere nella scoperta di un amore più grande? Ma non andrebbe sorvolata la situazione dei vedovi cui concediamo il matrimonio solo religioso per mantenere la pensione di reversibilità del precedente coniuge, perché in questo caso è l’autorità ecclesiastica che concede la dispensa a dare vita a delle unioni di fatto… E dobbiamo aspettarci che queste persone, se potranno ottenere qualche diritto e opportunità, si iscrivano nel registro dei pacs.
Al di là del rischio di “usare” la richiesta dei sacramenti come espediente per annunciare un po’ di Vangelo, bisogna aver chiaro che è dall’incontro col Risorto che scaturisce la proposta di una vita nuova. Solo chi sarà affascinato dalla buona notizia, dalla storia di un Dio a cui stanno davvero a cuore le nostre storie potrà aprirsi a un autentico cammino di conversione. È difficile affascinare le persone a partire da prescrizioni e divieti… Insomma, a fondamento di una chiesa missionaria c’è la convinzione che ci salva il Vangelo e non la morale.
Mi rendo conto che questa è solo una parte del discorso, che la chiesa deve vigilare sui costumi e gli orientamenti etici, far risplendere la verità anche quando risulti sgradita. Ma sarà soprattutto una chiesa capace di presentarsi al mondo nel segno della misericordia e della prossimità a offrire alla gente la possibilità di interrogarsi sul senso profondo della vita e lasciarsi condurre dal vento dello Spirito.
lettera firmata
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