Nei confronti di quei giovani
come mi devo comportare?
Rev.do direttore,
mi è stato affidato il servizio di seguire e accompagnare ragazzi e giovani in ricerca vocazionale, non esclusa quella presbiterale o già messa positivamente in conto.
Pensando alla recente istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica “Circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri” (4 novembre 2005), mi sto domandando se si debba fare subito un discorso su questa situazione che comporti indirettamente l’autoritirarsi, da un cammino vocazionale presbiterale per il semplice fatto che uno ha questa inclinazione. Tale scelta opportunamente potrebbe magari essere diluita nel tempo per non dare motivo di indebite supposizioni negative verso chi si ritira.
È ipotizzabile quest’altro comportamento: lasciar proseguire i soggetti, come se il problema non esistesse, fin tanto che la cosa non venga a conoscenza in foro esterno da parte dei formatori?
Un confessore che venisse a sapere di questa tendenza dovrebbe o sarebbe bene che dissuadesse subito il soggetto da una prospettiva vocazionale presbiterale o religiosa?
Nel caso che il soggetto, pur avendo questa tendenza e anche qualche esperienza in merito, se se ne fosse fatta una ragione per dare un taglio convinto, non assecondarla minimamente, voler vivere la castità, avere un dialogo schietto e ultratrasparente con un amico dell’anima e un formatore, il tutto fosse corroborato e sostenuto da una robusta e verificata vita spirituale, un tale soggetto potrebbe essere lasciato proseguire?
In altre parole, la semplice tendenza omosessuale esclude tassativamente la possibilità di diventare preti?
Un giovane incontrato per caso mi ha detto la sua intenzione di abbracciare la vita sacerdotale; mi ha anche messo al corrente della sua tendenza omosessuale. Quando gli ho fatto presente qualche perplessità in base al documento ricordato, mi ha controbattuto: ma come mai ci sono preti ad ogni livello, e ne conosco, che non solo hanno ma anche esprimono questa inclinazione? Confesso che mi sono sentito un po’ spiazzato.
Se fosse possibile una parola autorevole che mi illumini per servire correttamente la pastorale vocazionale, ne sarei molto grato.
lettera firmata
Caro sacerdote educatore, la lettera risolleva la questione emersa poco più di un anno fa a seguito dell’uscita del documento della Congregazione per l’educazione cattolica Circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri, da lei opportunamente richiamata.
È opportuno ricapitolare alcuni elementi del documento per evitare confusioni. Si parla in esso di tre condizioni nelle quali il candidato va fermato, sia rispetto all’ammissione al seminario come rispetto agli ordini sacri: si tratta di chi pratica l'omosessualità, di chi presenta tendenze omosessuali profondamente radicate o di chi sostiene la cosiddetta cultura gay.
Non è la stessa cosa parlare di omosessualità conclamata, praticata e radicata oppure parlare di inclinazione, magari pure transitoria, come nel caso delle tendenze omosessuali adolescenziali.
Va però sottolineato che il documento riguarda non solo chi si prende cura dei seminaristi, ma anche quegli educatori che si occupano dei cammini vocazionali precedenti. Affrontare con i formandi l’ambito della sessualità è certamente importante nel cammino di preparazione, perché la capacità di amare e l’assunzione della disponibilità al celibato sono da presupporre, e dunque da verificare, per un cammino di preparazione agli ordini sacri. Ciò però non va trasformato in una “caccia alle streghe” rispetto all’orientamento sessuale. È facile che, se si instaura un clima di fiducia e di dialogo, il tema emerga; ma questa fiducia verrebbe compromessa da un atteggiamento inquisitorio o investigativo.
Il documento riconosce la possibilità di un cambiamento, e pertanto la presenza di atti omosessuali o di tendenze non è sufficiente in quanto tale ad escludere che una persona non possa essere adatta a percorrere un determinato cammino: in fondo la questione più importante da considerare (non solo per l’ambito della sessualità) è la capacità della persona di cambiare.
Qualora poi si configuri una situazione di incompatibilità per la presenza di uno dei tre casi descritti dal documento, è giusto non dimettere o dissuadere la persona in maniera traumatica, in modo da rispettare una norma essenziale per la dignità delle persone come è quella del Codice di diritto canonico al canone 220: «Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità». La prima funzione di un educatore è quella infatti di educare, di allargare la libertà della persona e di orientarla all’adesione a Cristo, non di tarpare il suo cammino: mettere in pubblico elementi delicati e intimi di una persona o correre il rischio di farlo significherebbe arrogarsi un diritto inaccettabile.
Un’altra delle questioni che lei solleva è la distinzione tra foro esterno e foro interno. Penso sia nell’interesse di chi educa, di chi è educato e della chiesa in genere non rendere antagonisti il foro esterno e quello interno: non svilupperò qui la distinzione, ma ricordo che la formazione dev’essere unitaria, come del resto unici sono l’agire della persona e la sua vocazione.
Venendo allo specifico dell’istruzione, certamente quanti operano nell’ambito del foro esterno sono tenuti a rispettarla. Il documento però coinvolge anche i padri spirituali, che sono chiamati a dissuadere quei candidati che contravvengono le situazioni indicate dal documento.
Nella lettera, lei parla più precisamente del confessore, che in quel momento celebra il sacramento della penitenza e perciò «svolge un compito paterno, perché rivela agli uomini il cuore del Padre, e impersona l'immagine di Cristo, buon Pastore. Si ricordi quindi che il suo ministero è quello stesso di Cristo, che per salvare gli uomini ha operato nella misericordia la loro redenzione»; resta comunque vero che il confessore deve «distinguere le malattie dell'anima per apportarvi i rimedi adatti, ed esercitare con saggezza il suo compito di giudice» (“Praenotanda” al Rito della penitenza). È ben noto che il male si nutre soprattutto di silenzio e di omertà e per questo è importante che il confessore inviti il penitente a non restare isolato e nascosto nel suo peccato o nel suo dubbio.
L’ultima amara considerazione che le è stata rivolta da un giovane pone un problema molto più acuto e doloroso rispetto a quello dello scandalo: le comunità omosessuali tendono ad estendere la loro rete e a trovare nuovi adepti, anche nel caso in cui queste comunità siano formate da presbiteri e si rivolgano a giovani. Questo deve indurre molte attenzioni nei formatori e portare a chiedersi chi siano i sacerdoti frequentati dai giovani in formazione, attraverso quali canali siano entrati in comunicazione e cosa venga perseguito in queste relazioni.
don Luca Balugani
mercoledì 31 gennaio 2007
lunedì 29 gennaio 2007
COSA C’È DIETRO LA RICHIESTA DI TORNARE AL MESSALE DI SAN PIO V?
La liturgia del Vaticano II
tra nostalgie e concessioni
Caro direttore,
ho molto apprezzato, nel silenzio un po' troppo assordante ed eloquente che circonda la questione circa il "ritorno della messa in latino", la lettera di Sebastiano Dho, vescovo di Alba (cf. Sett. n. 44/06, p. 2). L'ho molto apprezzata per la pacatezza e per l'equilibrio.
A proposito ti offro, anch'io, alcune considerazioni, molto personali e perciò opinabili.
1. Il latino non è mai scomparso nell'uso ecclesiastico. È e rimane la lingua ufficiale della chiesa. I documenti importanti sono ancora tutti redatti nella lingua di Cicerone. Il problema oggi è che, per i più, la lingua latina, pur bellissima, nobilissima ed eccellente, è assolutamente ignota e sconosciuta. Quanto alla messa in latino, chi ne è nostalgico o estimatore può partecipare ad una liturgia solenne in San Pietro, e si godrà la messa in latino, ma naturalmente quella frutto del rinnovamento voluto dal Vaticano II e diventata normativa per tutta la chiesa per volontà di Paolo VI.
La messa in latino, dunque, non è mai scomparsa.
2. Diverso è il discorso concernente la messa in latino voluta pervicacemente e senza molto spirito ecclesiale dai tradizionalisti, tanto per capirci dai lefebvriani. Si tratta – come tutti sanno – della messa di papa san Pio V. Il quale, tra l'altro, impetuoso e decisionista qual era, introdusse la sua riforma liturgica nella chiesa con ben altri metodi, mezzi e strumenti che non Paolo VI, il quale usò paziente lungimiranza, confidando più nella forza del convincimento che nel convincimento della forza.
3. Ma, se ho capito bene, il ritorno alla messa in latino – quella di san Pio V – non è che una strategia strumentale; la messa viene usata come un grimaldello per colpire ben altri obiettivi. Bisogna allora vedere e capire cosa ci sta dietro, cosa si vuole colpire. Non ci sta forse il rifiuto del Vaticano II? Non ci sta forse, in particolare, il ripudio e la condanna di alcuni documenti, precisamente quelli sull'ecumenismo, sulla libertà religiosa, sul dialogo interreligioso?
Il problema, allora, non è tanto di riti, cioè di azione liturgica, quanto di teologia, di ecclesiologia, forse anche di politica.
4. Tuttavia, in questo caso, ancora di più, vale l'antico adagio lex orandi lex credendi, cioè fede e preghiera sono inseparabili: la regola della preghiera è la regola della fede; la comunione orante nasce dalla e fluisce nella comunione credente, cioè ecclesiale.
La liturgia del Vaticano II esprime la fede della chiesa, che è la fede di sempre, ma presentata – come affermava il beato Giovanni XXIII convocando il concilio – in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca. La liturgia è fede in atto, la preghiera liturgica è la traduzione della fede in atteggiamento e contenuto orante. Dalla fede alla preghiera e dalla preghiera alla fede c'è un insopprimibile processo e dinamismo di circolarità. Non basta allora pregare, occorre vedere quali contenuti e quale ecclesialità esprime quella preghiera.
5. Attenzione poi a non sottovalutare il rito. Non è vero che un rito vale l'altro.
Il rito dice e suppone una precisa comunità che celebra e che prega, perciò la liturgia non è innocua; solo una liturgia stanca, afasica, sciatta, spossata, ripetitiva, routinaria e morta non dice nulla, ma una liturgia viva, partecipata e consapevole è veramente culmen et fons con tutto ciò che ne consegue; una liturgia autentica è veramente epifania della chiesa e manifestazione piena della sua missione e identità. La liturgia è, in verità, uno straordinario veicolo e mezzo di evangelizzazione, comunicazione e trasmissione della fede; di più, costruisce ed edifica la chiesa. Ma quale chiesa?
6. Non vorrei che il tentativo lodevole ed esemplare di superare lacerazioni, di ricomporre comunione, di fatto non ottenesse l'effetto opposto, cioè dividesse e lacerasse ancora di più il fragile e delicato tessuto ecclesiale. Mi pare che i vescovi francesi, quelli che si sono espressi su questo versante con più coraggio e audacia, paventino questo esito negativo. Invece di unire, si rischia di dividere ancora di più. E l'unità e la comunione della chiesa e nella chiesa, come ci insegna la vivente e sana tradizione della chiesa, non sono valori da salvaguardare e tutelare?
7. Il mio auspicio è che il concilio Vaticano II, che è la grande grazia di cui la chiesa ha beneficiato nel secolo XX, sia e continui ad essere per molto tempo una bussola sicura e autorevole per orientarci nel secolo che si apre, come ha affermato Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte 57. Anche il cammino della chiesa nel terzo millennio sarà concilare? Sì, se la la rotta della chiesa non sarà definita da altro che dalla dottrina conciliare e dallo Spirito, che il concilio ha ispirato e guidato.
8. Mi piacerebbe conoscere, infine, a questo riguardo, anche il parere di altri liturgisti e anche teologi ben più autorevoli e prestigiosi di me, e (perché no?) anche quello di qualche vescovo, oltre al già citato mons. Dho.
Grazie per l'ospitalità.
don Pier Renzo Rulfo
parroco di Pianfei (CN)
tra nostalgie e concessioni
Caro direttore,
ho molto apprezzato, nel silenzio un po' troppo assordante ed eloquente che circonda la questione circa il "ritorno della messa in latino", la lettera di Sebastiano Dho, vescovo di Alba (cf. Sett. n. 44/06, p. 2). L'ho molto apprezzata per la pacatezza e per l'equilibrio.
A proposito ti offro, anch'io, alcune considerazioni, molto personali e perciò opinabili.
1. Il latino non è mai scomparso nell'uso ecclesiastico. È e rimane la lingua ufficiale della chiesa. I documenti importanti sono ancora tutti redatti nella lingua di Cicerone. Il problema oggi è che, per i più, la lingua latina, pur bellissima, nobilissima ed eccellente, è assolutamente ignota e sconosciuta. Quanto alla messa in latino, chi ne è nostalgico o estimatore può partecipare ad una liturgia solenne in San Pietro, e si godrà la messa in latino, ma naturalmente quella frutto del rinnovamento voluto dal Vaticano II e diventata normativa per tutta la chiesa per volontà di Paolo VI.
La messa in latino, dunque, non è mai scomparsa.
2. Diverso è il discorso concernente la messa in latino voluta pervicacemente e senza molto spirito ecclesiale dai tradizionalisti, tanto per capirci dai lefebvriani. Si tratta – come tutti sanno – della messa di papa san Pio V. Il quale, tra l'altro, impetuoso e decisionista qual era, introdusse la sua riforma liturgica nella chiesa con ben altri metodi, mezzi e strumenti che non Paolo VI, il quale usò paziente lungimiranza, confidando più nella forza del convincimento che nel convincimento della forza.
3. Ma, se ho capito bene, il ritorno alla messa in latino – quella di san Pio V – non è che una strategia strumentale; la messa viene usata come un grimaldello per colpire ben altri obiettivi. Bisogna allora vedere e capire cosa ci sta dietro, cosa si vuole colpire. Non ci sta forse il rifiuto del Vaticano II? Non ci sta forse, in particolare, il ripudio e la condanna di alcuni documenti, precisamente quelli sull'ecumenismo, sulla libertà religiosa, sul dialogo interreligioso?
Il problema, allora, non è tanto di riti, cioè di azione liturgica, quanto di teologia, di ecclesiologia, forse anche di politica.
4. Tuttavia, in questo caso, ancora di più, vale l'antico adagio lex orandi lex credendi, cioè fede e preghiera sono inseparabili: la regola della preghiera è la regola della fede; la comunione orante nasce dalla e fluisce nella comunione credente, cioè ecclesiale.
La liturgia del Vaticano II esprime la fede della chiesa, che è la fede di sempre, ma presentata – come affermava il beato Giovanni XXIII convocando il concilio – in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca. La liturgia è fede in atto, la preghiera liturgica è la traduzione della fede in atteggiamento e contenuto orante. Dalla fede alla preghiera e dalla preghiera alla fede c'è un insopprimibile processo e dinamismo di circolarità. Non basta allora pregare, occorre vedere quali contenuti e quale ecclesialità esprime quella preghiera.
5. Attenzione poi a non sottovalutare il rito. Non è vero che un rito vale l'altro.
Il rito dice e suppone una precisa comunità che celebra e che prega, perciò la liturgia non è innocua; solo una liturgia stanca, afasica, sciatta, spossata, ripetitiva, routinaria e morta non dice nulla, ma una liturgia viva, partecipata e consapevole è veramente culmen et fons con tutto ciò che ne consegue; una liturgia autentica è veramente epifania della chiesa e manifestazione piena della sua missione e identità. La liturgia è, in verità, uno straordinario veicolo e mezzo di evangelizzazione, comunicazione e trasmissione della fede; di più, costruisce ed edifica la chiesa. Ma quale chiesa?
6. Non vorrei che il tentativo lodevole ed esemplare di superare lacerazioni, di ricomporre comunione, di fatto non ottenesse l'effetto opposto, cioè dividesse e lacerasse ancora di più il fragile e delicato tessuto ecclesiale. Mi pare che i vescovi francesi, quelli che si sono espressi su questo versante con più coraggio e audacia, paventino questo esito negativo. Invece di unire, si rischia di dividere ancora di più. E l'unità e la comunione della chiesa e nella chiesa, come ci insegna la vivente e sana tradizione della chiesa, non sono valori da salvaguardare e tutelare?
7. Il mio auspicio è che il concilio Vaticano II, che è la grande grazia di cui la chiesa ha beneficiato nel secolo XX, sia e continui ad essere per molto tempo una bussola sicura e autorevole per orientarci nel secolo che si apre, come ha affermato Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte 57. Anche il cammino della chiesa nel terzo millennio sarà concilare? Sì, se la la rotta della chiesa non sarà definita da altro che dalla dottrina conciliare e dallo Spirito, che il concilio ha ispirato e guidato.
8. Mi piacerebbe conoscere, infine, a questo riguardo, anche il parere di altri liturgisti e anche teologi ben più autorevoli e prestigiosi di me, e (perché no?) anche quello di qualche vescovo, oltre al già citato mons. Dho.
Grazie per l'ospitalità.
don Pier Renzo Rulfo
parroco di Pianfei (CN)
giovedì 25 gennaio 2007
IL CASO DI DON MAURO: E' IL CASO?
Attraverso YouTube sta girando un video su un sacerdote anziano che sta celebrando uno dei tanti matrimoni italiani. Dopo averlo visto, sorgono spontanee molte domande: è giusto tutto questo? in quali condizioni troppo spesso precarie svolgono il loro ministero tanti nostri preti anziani, come savalguardare uno stile di celebrazione liturgica...... Che dire?
CLICCA SU "SPECIALE DON MAURO"
venerdì 12 gennaio 2007
SULLE COPPIE DI FATTO
Per le coppie di fatto
una sensibilità solidarista
Caro direttore,
sono convinto che, in uno stato laico, dove si incontrano culture diverse, nel rispetto delle identità di ciascuna, credenti e non credenti devono cercare piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile, consapevoli delle necessarie mediazioni da compiere. Pertanto, la collaborazione politica dei cattolici con «partner» di diverso orientamento culturale nella vita politica va impostata laicamente e nel rispetto delle regole democratiche, senza compromettere, certo, la propria identità e in coerenza con i valori ispiratori. Sono perciò convinto che i cattolici non tradiscano tali valori se, servendosi delle situazioni storiche, dei «segni dei tempi» e del dialogo interculturale, affrontano anche questioni molto delicate che vanno regolamentate.
Una di queste, che oggi va affrontata con molta intelligenza e con le necessarie mediazioni, è quella delle coppie di fatto: sono infatti maturi i tempi, anche perché, secondo indagini non sospette, una percentuale abbastanza ampia del mondo cattolico è di quest’avviso. Perciò una legge sui diritti – e anche i doveri – delle persone che formano coppie di fatto è necessaria.
So bene che molti altri cattolici, soprattutto nel clero, quando si fanno questi discorsi, si allarmano perché un tale provvedimento sarebbe un attentato alla famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 della Costituzione). Ma non è così.
Se, infatti, diamo un’occhiata al nostro ordinamento giuridico, troviamo che la convivenza di fatto, qua e là, viene già riconosciuta. L’articolo 572 del Codice penale, per esempio, considera il convivente una persona della famiglia e lo tutela in caso di maltrattamenti fisici o morali; l’articolo 30 dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975) ammette la possibilità per il detenuto di avere permessi che gli consentano di fare visita non solo al familiare, ma anche al convivente in caso di pericolo di vita; l’articolo 199 del Codice di procedura penale, poi, prevede la facoltà di non testimoniare per chi «pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso»; infine, la legge sull’adozione prevede l’affidamento del minore, «temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, ad un’altra famiglia sia legittima sia naturale».
Ma c’è ben altro, e i politici lo sanno. Da decenni, una vigente normativa inerente al sistema pensionistico permette, oltre che ai conviventi dei giornalisti, anche a quelli dei parlamentari, benefici assistenziali – tipo una cassa mutua – che derivano dal contratto di lavoro, e ne traggono vantaggio pure quelli che si oppongono alle coppie di fatto. Ne usufruisce un deputato su quattro. Di tali diritti i parlamentari godono senza che siano mai state sollevate obiezioni, a parte Pier Ferdinando Casini, un cattolico che, a suo tempo, annunciò che avrebbe rinunciato.
Quello che è siginificativo è che nessuno mai ha posto il problema di eliminare questi diritti, neppure chi, come Casini, è stato presidente della Camera.
E allora perché questa schizofrenia legislativa? Una legge che disciplini le coppie di fatto non vuole sradicare la famiglia; e non è un capriccio del centrosinistra, tanto è vero che anche il centrodestra presta molta attenzione. Lo stesso Berlusconi ha dichiarato che, nel caso una tale legge venisse proposta in Parlamento, lascerà ai suoi deputati libertà di votare secondo coscienza.
A nostro giudizio, perciò, una normativa che vada su questa direzione è una necessità, perché non si può ignorare che oggi in Italia, nonostante le leggi che difendono la famiglia fondata sul matrimonio, le convivenze libere aumentano. E, se è giusto salvaguardare la famiglia ontologicamente diversa da tali unioni, nemmeno si può discriminare queste ultime.
Il card. Carlo Maria Martini, nel discorso pronunciato alla vigilia di Sant’Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto «l’autorità pubblica può adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidarista». E concludeva: «Al vertice delle nostre preoccupazioni non deve essere il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio».
Ed è seguendo questi dettami del card. Martini, che si muove il testo preparato dal professor Stefano Ceccanti, cattolico ed ex presidente della Fuci, su incarico del ministro delle Pari Opportunità Barbara Pollastrini: esso «non prefigura un simil-matrimonio come i Pacs», ma «pragmaticamente tutela persone legate nelle unioni di fatto». Per cui, se è vero che la Costituzione riconosce un plusvalore alla famiglia fondata sul matrimonio (art. 29), è pur vero che essa «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
Le coppie di cui si parla non hanno quindi nulla a che vedere con la famiglia fondata sui matrimonio, di cui all’articolo 29 della Costituzione: perché, come dichiara il prof. Ceccanti, nel testo proposto «non è prevista una “celebrazione” dell’unione di fatto. Nel matrimonio diritti e doveri nascono nel momento stesso che si celebra quel rito». Nel testo, invece, si propone «un registro comunale nel quale si va a certificare non qualcosa che nasce in quel momento, ma qualcosa che già esiste. I soggetti si registrano con una dichiarazione congiunta che attesta l’esistenza di tale unione. Il diritto nasce dal fatto precedente non dalla celebrazione». Non solo: ma nel testo è previsto «un equilibrio tra diritti e doveri». Su questioni come la reversibilità delle pensioni, per esempio, si apre un diverso capitolo, quello degli obblighi pubblici, che va regolamentato a parte, presto e con precisione, perché altrimenti esisterebbero «situazioni di fatto per cui è più conveniente essere conviventi che essere sposati».
Concludendo, diciamo che, appunto perché si tratta di una questione molto delicata, che appartiene alla coscienza, alla sensibilità delle persone, al costume, essa va affrontata coinvolgendo maggioranza e opposizione per avere, tramite un confronto serrato e leale, una buona legge votata da una larga maggioranza trasversale in parlamento. Che duri nel tempo. Evitando cosi di dividerci in guelfi e ghibellini, con polemiche di carattere ideologico, per “sentito dire” più che in punta di fatto.
don Salvatore Bussu
una sensibilità solidarista
Caro direttore,
sono convinto che, in uno stato laico, dove si incontrano culture diverse, nel rispetto delle identità di ciascuna, credenti e non credenti devono cercare piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile, consapevoli delle necessarie mediazioni da compiere. Pertanto, la collaborazione politica dei cattolici con «partner» di diverso orientamento culturale nella vita politica va impostata laicamente e nel rispetto delle regole democratiche, senza compromettere, certo, la propria identità e in coerenza con i valori ispiratori. Sono perciò convinto che i cattolici non tradiscano tali valori se, servendosi delle situazioni storiche, dei «segni dei tempi» e del dialogo interculturale, affrontano anche questioni molto delicate che vanno regolamentate.
Una di queste, che oggi va affrontata con molta intelligenza e con le necessarie mediazioni, è quella delle coppie di fatto: sono infatti maturi i tempi, anche perché, secondo indagini non sospette, una percentuale abbastanza ampia del mondo cattolico è di quest’avviso. Perciò una legge sui diritti – e anche i doveri – delle persone che formano coppie di fatto è necessaria.
So bene che molti altri cattolici, soprattutto nel clero, quando si fanno questi discorsi, si allarmano perché un tale provvedimento sarebbe un attentato alla famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 della Costituzione). Ma non è così.
Se, infatti, diamo un’occhiata al nostro ordinamento giuridico, troviamo che la convivenza di fatto, qua e là, viene già riconosciuta. L’articolo 572 del Codice penale, per esempio, considera il convivente una persona della famiglia e lo tutela in caso di maltrattamenti fisici o morali; l’articolo 30 dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975) ammette la possibilità per il detenuto di avere permessi che gli consentano di fare visita non solo al familiare, ma anche al convivente in caso di pericolo di vita; l’articolo 199 del Codice di procedura penale, poi, prevede la facoltà di non testimoniare per chi «pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso»; infine, la legge sull’adozione prevede l’affidamento del minore, «temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, ad un’altra famiglia sia legittima sia naturale».
Ma c’è ben altro, e i politici lo sanno. Da decenni, una vigente normativa inerente al sistema pensionistico permette, oltre che ai conviventi dei giornalisti, anche a quelli dei parlamentari, benefici assistenziali – tipo una cassa mutua – che derivano dal contratto di lavoro, e ne traggono vantaggio pure quelli che si oppongono alle coppie di fatto. Ne usufruisce un deputato su quattro. Di tali diritti i parlamentari godono senza che siano mai state sollevate obiezioni, a parte Pier Ferdinando Casini, un cattolico che, a suo tempo, annunciò che avrebbe rinunciato.
Quello che è siginificativo è che nessuno mai ha posto il problema di eliminare questi diritti, neppure chi, come Casini, è stato presidente della Camera.
E allora perché questa schizofrenia legislativa? Una legge che disciplini le coppie di fatto non vuole sradicare la famiglia; e non è un capriccio del centrosinistra, tanto è vero che anche il centrodestra presta molta attenzione. Lo stesso Berlusconi ha dichiarato che, nel caso una tale legge venisse proposta in Parlamento, lascerà ai suoi deputati libertà di votare secondo coscienza.
A nostro giudizio, perciò, una normativa che vada su questa direzione è una necessità, perché non si può ignorare che oggi in Italia, nonostante le leggi che difendono la famiglia fondata sul matrimonio, le convivenze libere aumentano. E, se è giusto salvaguardare la famiglia ontologicamente diversa da tali unioni, nemmeno si può discriminare queste ultime.
Il card. Carlo Maria Martini, nel discorso pronunciato alla vigilia di Sant’Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto «l’autorità pubblica può adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidarista». E concludeva: «Al vertice delle nostre preoccupazioni non deve essere il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio».
Ed è seguendo questi dettami del card. Martini, che si muove il testo preparato dal professor Stefano Ceccanti, cattolico ed ex presidente della Fuci, su incarico del ministro delle Pari Opportunità Barbara Pollastrini: esso «non prefigura un simil-matrimonio come i Pacs», ma «pragmaticamente tutela persone legate nelle unioni di fatto». Per cui, se è vero che la Costituzione riconosce un plusvalore alla famiglia fondata sul matrimonio (art. 29), è pur vero che essa «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
Le coppie di cui si parla non hanno quindi nulla a che vedere con la famiglia fondata sui matrimonio, di cui all’articolo 29 della Costituzione: perché, come dichiara il prof. Ceccanti, nel testo proposto «non è prevista una “celebrazione” dell’unione di fatto. Nel matrimonio diritti e doveri nascono nel momento stesso che si celebra quel rito». Nel testo, invece, si propone «un registro comunale nel quale si va a certificare non qualcosa che nasce in quel momento, ma qualcosa che già esiste. I soggetti si registrano con una dichiarazione congiunta che attesta l’esistenza di tale unione. Il diritto nasce dal fatto precedente non dalla celebrazione». Non solo: ma nel testo è previsto «un equilibrio tra diritti e doveri». Su questioni come la reversibilità delle pensioni, per esempio, si apre un diverso capitolo, quello degli obblighi pubblici, che va regolamentato a parte, presto e con precisione, perché altrimenti esisterebbero «situazioni di fatto per cui è più conveniente essere conviventi che essere sposati».
Concludendo, diciamo che, appunto perché si tratta di una questione molto delicata, che appartiene alla coscienza, alla sensibilità delle persone, al costume, essa va affrontata coinvolgendo maggioranza e opposizione per avere, tramite un confronto serrato e leale, una buona legge votata da una larga maggioranza trasversale in parlamento. Che duri nel tempo. Evitando cosi di dividerci in guelfi e ghibellini, con polemiche di carattere ideologico, per “sentito dire” più che in punta di fatto.
don Salvatore Bussu
ANCORA SUI FUNERALI DI WELBY
Quella non misericordia di fronte alla morte
Cara Settimana,
quest'anno ci siamo preparati al Natale con il sottofondo del “caso Welby” e, visto che niente avviene a caso, è perlomeno singolare tutto il dibattito sulla vita e sul suo valore proprio a ridosso della festa della vita che nasce.
Non sono in grado di dare un lettura teologicamente corretta alla vicenda, né la mia preparazione dottrinale è tale da poter pontificare su vita, eutanasia e accanimento terapeutico. Ho però appreso con disagio la posizione di rifiuto della chiesa. Capisco la strumentalizzazione, capisco che bisogna ribadire con chiarezza la difesa della vita sempre, ma non comprendo la non misericordia davanti alla morte.
Una sorta di condanna ad oltranza, me la sono sentita quasi addosso, quasi mia. Io non sono certa di quale sarebbe la mia scelta nella situazione di quell'uomo martoriato dal dolore. Non ha assunto veleni, ha solo chiesto che smettessero di curarlo. Non sono convinta fino in fondo che questo sia un attentato alla vita. Certo, io non avrei fatto una battaglia mediatica come quella scelta da Welby, forse la scelta sarebbe stata più intima e silenziosa, ma sono combattuta. Non perché non accetti il dolore. Anzi credo di portare i miei mali con sufficiente tranquillità, ma davanti agli estremi macchinari rimango sempre perplessa.
La questione non è semplice, ma quello che proprio non comprendo è l’aver messo insieme peccato e peccatore, come è stato in quei giorni. Il Bambino di Betlemme, così indifeso e così potente, ci aiuti a comprendere e a ben comportarci davanti ad ogni vita. Non solo a quelle messe sotto la luce delle telecamere.
Con affetto,
Aurora Becheri
Cara Settimana,
quest'anno ci siamo preparati al Natale con il sottofondo del “caso Welby” e, visto che niente avviene a caso, è perlomeno singolare tutto il dibattito sulla vita e sul suo valore proprio a ridosso della festa della vita che nasce.
Non sono in grado di dare un lettura teologicamente corretta alla vicenda, né la mia preparazione dottrinale è tale da poter pontificare su vita, eutanasia e accanimento terapeutico. Ho però appreso con disagio la posizione di rifiuto della chiesa. Capisco la strumentalizzazione, capisco che bisogna ribadire con chiarezza la difesa della vita sempre, ma non comprendo la non misericordia davanti alla morte.
Una sorta di condanna ad oltranza, me la sono sentita quasi addosso, quasi mia. Io non sono certa di quale sarebbe la mia scelta nella situazione di quell'uomo martoriato dal dolore. Non ha assunto veleni, ha solo chiesto che smettessero di curarlo. Non sono convinta fino in fondo che questo sia un attentato alla vita. Certo, io non avrei fatto una battaglia mediatica come quella scelta da Welby, forse la scelta sarebbe stata più intima e silenziosa, ma sono combattuta. Non perché non accetti il dolore. Anzi credo di portare i miei mali con sufficiente tranquillità, ma davanti agli estremi macchinari rimango sempre perplessa.
La questione non è semplice, ma quello che proprio non comprendo è l’aver messo insieme peccato e peccatore, come è stato in quei giorni. Il Bambino di Betlemme, così indifeso e così potente, ci aiuti a comprendere e a ben comportarci davanti ad ogni vita. Non solo a quelle messe sotto la luce delle telecamere.
Con affetto,
Aurora Becheri
A PARTIRE DA UN GUSTOSO ARTICOLO CHE COMMENTA LA FEDE DEI CRISTIANI
Gli italiani? Una fede da non credere…
Caro direttore,
nell’ampio e prezioso inserto culturale de Il Sole-24 Ore, che un amico impiegato di banca mi passa ogni settimana, mi imbatto in un gustoso articolo che commenta la fede dei cristiani.
L’autore, riprendendo le tesi di un suo libro in uscita in questi giorni, ha buon gioco nel rilevare che la fede di tanti cristiani è spesso senza contenuto: si crede senza sapere che cosa si crede. Egli immagina un exit poll fuori dalle chiese, che proponga quesiti concernenti materie di fede: se ne sentirebbero di belle, o meglio ci si vedrebbe catapultati «nel folto di una lussureggiante foresta di nestoriani e monofisiti, di ariani e di catari, di seguaci di Melantone, Zwinglio o Carlostadio…» Il nostro arriva ad affermare che i supposti eretici oggi non vengono più perseguitati «perché mancano le figure professionali capaci di scovare le eresie».
Ora, è certamente vero che molte persone non saprebbero definire il Dio uno e trino, e magari inciamperebbero nel dogma della Immacolata concezione. Nel discorso a braccio rivolto ai vescovi svizzeri qualche settimana fa, il Papa rilevava che negli ultimi cinquant’anni la catechèsi «si è persa molto nell’antropologia», «cosicché spesso non si raggiungono neanche più i contenuti della fede». Inoltre, la crassa superficialità della società che ci circonda e la sconcertante banalità propagata da tanti mezzi di comunicazione, non introducono certo un percorso favorevole alla fede.
I cristiani stessi riconoscono la propria ignoranza della fede quando hanno la felice occasione di prendere in mano il Catechismo della chiesa cattolica, o almeno il suo provvidenziale Compendio, oppure quando hanno la ventura di partecipare a una vera lezione di catechismo come sono in questi mesi le udienze del papa al mercoledì: allora confessano candidamente che «non sapevano quelle cose e che c’è veramente ancora tanto da imparare».
Tutte queste sono osservazioni vere. Nello stesso tempo è vero un altro fatto. «Chi crede non è mai solo», secondo l’espressione di Benedetto XVI in Germania. Chi crede, non crede di una fede solitaria. E nemmeno si dovrà obbligare alcuno ad esprimere la sua fede in una serie di formulazioni teoriche. Non si chiederebbe a nessun innamorato di stendere una relazione sulla persona amata, prima di poter convolare a nozze.
La fede esprime una posizione umana profondamente ragionevole, che però non coincide semplicemente con la sua formulazione verbale, ma con il riconoscimento e l’accoglienza dell’oggetto conosciuto e amato, che è lo stesso Signore Gesù. Maria Goretti è diventata santa essendo stata educata alla fede attraverso pochi rudimenti di catechismo e poche essenziali preghiere.
«Noi crediamo insieme con la chiesa», ha ripetuto ancora papa Benedetto XVI ai vescovi svizzeri. «Non tutto ciò che insegna la chiesa possiamo comprendere, non tutto dev’essere presente in ogni vita. È però importante che siamo credenti nel grande “Io” della chiesa, nel suo “Noi” vivente, trovandoci così nella grande comunità della fede».
Anche il piccolo bambino viene portato in braccio dai genitori, anche la donna non istruita impara ad affidarsi a persone di fiducia, anche il camionista che gira il mondo può trovare conforto e luce dai suoi amici cristiani. La fede con la quale ciascuno crede è personalmente la sua propria, ma nello stesso tempo «è la fede della chiesa; e noi, consapevoli della nostra insufficienza e del nostro limite, ci gloriamo di professarla» in comunione con tutti i nostri fratelli cristiani.
don Angelo Busetto
Caro direttore,
nell’ampio e prezioso inserto culturale de Il Sole-24 Ore, che un amico impiegato di banca mi passa ogni settimana, mi imbatto in un gustoso articolo che commenta la fede dei cristiani.
L’autore, riprendendo le tesi di un suo libro in uscita in questi giorni, ha buon gioco nel rilevare che la fede di tanti cristiani è spesso senza contenuto: si crede senza sapere che cosa si crede. Egli immagina un exit poll fuori dalle chiese, che proponga quesiti concernenti materie di fede: se ne sentirebbero di belle, o meglio ci si vedrebbe catapultati «nel folto di una lussureggiante foresta di nestoriani e monofisiti, di ariani e di catari, di seguaci di Melantone, Zwinglio o Carlostadio…» Il nostro arriva ad affermare che i supposti eretici oggi non vengono più perseguitati «perché mancano le figure professionali capaci di scovare le eresie».
Ora, è certamente vero che molte persone non saprebbero definire il Dio uno e trino, e magari inciamperebbero nel dogma della Immacolata concezione. Nel discorso a braccio rivolto ai vescovi svizzeri qualche settimana fa, il Papa rilevava che negli ultimi cinquant’anni la catechèsi «si è persa molto nell’antropologia», «cosicché spesso non si raggiungono neanche più i contenuti della fede». Inoltre, la crassa superficialità della società che ci circonda e la sconcertante banalità propagata da tanti mezzi di comunicazione, non introducono certo un percorso favorevole alla fede.
I cristiani stessi riconoscono la propria ignoranza della fede quando hanno la felice occasione di prendere in mano il Catechismo della chiesa cattolica, o almeno il suo provvidenziale Compendio, oppure quando hanno la ventura di partecipare a una vera lezione di catechismo come sono in questi mesi le udienze del papa al mercoledì: allora confessano candidamente che «non sapevano quelle cose e che c’è veramente ancora tanto da imparare».
Tutte queste sono osservazioni vere. Nello stesso tempo è vero un altro fatto. «Chi crede non è mai solo», secondo l’espressione di Benedetto XVI in Germania. Chi crede, non crede di una fede solitaria. E nemmeno si dovrà obbligare alcuno ad esprimere la sua fede in una serie di formulazioni teoriche. Non si chiederebbe a nessun innamorato di stendere una relazione sulla persona amata, prima di poter convolare a nozze.
La fede esprime una posizione umana profondamente ragionevole, che però non coincide semplicemente con la sua formulazione verbale, ma con il riconoscimento e l’accoglienza dell’oggetto conosciuto e amato, che è lo stesso Signore Gesù. Maria Goretti è diventata santa essendo stata educata alla fede attraverso pochi rudimenti di catechismo e poche essenziali preghiere.
«Noi crediamo insieme con la chiesa», ha ripetuto ancora papa Benedetto XVI ai vescovi svizzeri. «Non tutto ciò che insegna la chiesa possiamo comprendere, non tutto dev’essere presente in ogni vita. È però importante che siamo credenti nel grande “Io” della chiesa, nel suo “Noi” vivente, trovandoci così nella grande comunità della fede».
Anche il piccolo bambino viene portato in braccio dai genitori, anche la donna non istruita impara ad affidarsi a persone di fiducia, anche il camionista che gira il mondo può trovare conforto e luce dai suoi amici cristiani. La fede con la quale ciascuno crede è personalmente la sua propria, ma nello stesso tempo «è la fede della chiesa; e noi, consapevoli della nostra insufficienza e del nostro limite, ci gloriamo di professarla» in comunione con tutti i nostri fratelli cristiani.
don Angelo Busetto
SUI FUNERALI DI WELBY
Funerali Welby: dogma o pastorale?
Da molte parti si chiede – da alcuni col consenso, da molti con dissenso, anche forte – se sia stato giusto negare il funerale religioso a Welby. Non giudico la decisione presa dall’autorità locale. Faccio solo una riflessione per spiegarla. E si rifà alla decisione presa da papa Giovanni XXIII nell’indire il concilio Vaticano II, di volerlo cioè come un concilio non “dogmatico” ma “pastorale”. Il primo parte dai “dogmi” e li definisce, scomunicando (la formula sarebbe “anatematizzando”) quanti non l’accettano; il secondo parte dalle persone per valutare in che modo possono accogliere quelle verità e farle proprie.
Dal punto di vista dogmatico è stato giusto escludere dal rito religioso chi ci si era così formalmente allontanato. Dal punto di vista pastorale, invece, si sarebbe potuto tener conto non solo della persona interessata – che si è sinceramente raccomandato alla misericordia di Dio – ma anche dei familiari e delle moltissime persone che, attraverso i mezzi di comunicazione, hanno partecipato alla vicenda e ne sarebbero stati turbati. Forse si poteva scendere a un compromesso che avesse colto le due istanze (una benedizione senza messa? Una messa di suffragio senza commenti?…), ma forse la fretta ha fatto scegliere la soluzione più facile, o forse si è preferita la soluzione “dogmatica”.
Il Signore dia a tutti comprensione e pace.
Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
Da molte parti si chiede – da alcuni col consenso, da molti con dissenso, anche forte – se sia stato giusto negare il funerale religioso a Welby. Non giudico la decisione presa dall’autorità locale. Faccio solo una riflessione per spiegarla. E si rifà alla decisione presa da papa Giovanni XXIII nell’indire il concilio Vaticano II, di volerlo cioè come un concilio non “dogmatico” ma “pastorale”. Il primo parte dai “dogmi” e li definisce, scomunicando (la formula sarebbe “anatematizzando”) quanti non l’accettano; il secondo parte dalle persone per valutare in che modo possono accogliere quelle verità e farle proprie.
Dal punto di vista dogmatico è stato giusto escludere dal rito religioso chi ci si era così formalmente allontanato. Dal punto di vista pastorale, invece, si sarebbe potuto tener conto non solo della persona interessata – che si è sinceramente raccomandato alla misericordia di Dio – ma anche dei familiari e delle moltissime persone che, attraverso i mezzi di comunicazione, hanno partecipato alla vicenda e ne sarebbero stati turbati. Forse si poteva scendere a un compromesso che avesse colto le due istanze (una benedizione senza messa? Una messa di suffragio senza commenti?…), ma forse la fretta ha fatto scegliere la soluzione più facile, o forse si è preferita la soluzione “dogmatica”.
Il Signore dia a tutti comprensione e pace.
Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
DI FRONTE A TANTI EPISODI DI VIOLENZA RITORNA LA QUESTIONE EDUCATIVA
Cari genitori,
ascoltate i vostri figli
Cara Settimana,
in questi ultimi tempi è frequente il discorso sui ragazzi e bambini vittime delle sopraffazioni degli adulti. Tristissimi casi ci impressionano: uno degli ultimi quello del piccolo Matteo di 9 mesi, strozzato (così pare) dalla madre depressa, che poi ha tentato il suicidio con in grembo un figliolino al sesto mese.
Ma la cronaca delle ultime settimane ci ha fatto soffrire ancor più perché vede protagonisti del male coloro che – per l’età non molto lontana da quella stagione della vita chiamata “innocenza” – siamo abituati a ritenere quasi incapaci di compierlo. Gli episodi si sono tristemente ripetuti quasi in fotocopia e ci presentano ragazzi carnefici di loro coetanei: violentatori, picchiatori, fotografi di oscenità, ladri, assuntori e spacciatori di droga, talvolta addirittura assassini al soldo della camorra.
I mezzi di informazione – forse incapaci di trovare termini nuovi e più adeguati – insistono a classificare il fenomeno come “bullismo”, mentre i fatti appaiono ben più gravi, anche se già il bullismo può arrivare ad alcune atrocità. È strana la nostra società: produce di tutto, pubblica di tutto, trasmette di tutto, offre e propone di tutto, ma non sa difendere i minori che, per la forte precocità nelle conoscenze e nella pratica del male, la spaventano. È lecita una domanda: perché la società nelle sue istituzioni – famiglia scuola magistratura – dà spesso la sensazione di accantonare i problemi educativi (quelli quotidiani, che sono poi quelli che contano) e ha bisogno di fatti eclatanti per tornare a discutere e progettare, per poi tornare alla silenziosa indifferenza?
Si dice che oggi i nostri giovanissimi siano “ragazzi-spugna” che assorbono tutto. Anche qui una domanda: il male è in loro che assorbono o nella società che abbondantemente offre violenza, corruzione e ricerca ossessiva di un benessere soltanto fisico ed economico? Se la società fosse buona e pulita, i “ragazzi-spugna” assorbirebbero il bene, il senso del dovere e il rispetto delle persone.
Che tristezza, nei commenti sugli ultimi episodi, la sottolineatura dell’indifferenza dei compagni che assistono i protagonisti delle terribili bravate! Quanti ragazzi affermano – a giustificazione del loro mancato intervento a difendere i deboli – “io mi faccio gli affari miei”, “io non mi interesso perché non voglio grane”. Ma dov’è la solidarietà verso cui il mondo d’oggi dovrebbe incamminarsi per creare attenzione e aiuto verso gli affamati, gli ammalati, i barboni e gli emarginati?
Le nostre famiglie educano i loro figli al senso del dovere nei confronti degli altri, al rispetto delle persone, alla nonviolenza? Perché tanti ragazzi, dopo aver compiuto gravi gesti di violenza, non si sentono in colpa (e talvolta nemmeno i loro genitori)? Non è forse perché oggi nelle famiglie si è meno preoccupati di educare le coscienze e tanti ragazzi sono lasciati crescere allo sbando? Ci si preoccupa giustamente dell’ecologia, dell’aria pulita. Perché non anche dell’atmosfera di pulizia nel linguaggio, nei giudizi, nei comportamenti?
Si è soliti dire che tanta deformazione – se non patologia e vera devianza – siano causate dalla carenza di autorevolezza degli educatori e dalla scarsità di ascolto di cui soffrono i ragazzi di oggi. Ricordo un ritiro spirituale ai cresimandi sulla famosa parola biblica: “Ascolta, Israele!” . Facevo notare ai ragazzi che essere ascoltati dà gioia e che perfino Dio ambisce alla gioia di essere ascoltato. Poi ho proposto per iscritto un questionario anonimo con la domanda: “Chi ti ascolta?”. Le risposte purtroppo non hanno messo i genitori in primo piano – come mi sarei aspettato – ma nell’ordine: gli amici, i catechisti, il don. Lungi dall’attribuire meriti particolari alle parrocchie – che in età diversa e in analogo questionario potrebbero risultare ultime –, quello che mi colpì fu l’ultimo posto dato ai genitori. Sarà davvero così scarso il numero di papà e di mamme che “ascoltano” i figli? E così numerosi quelli che non parlano con loro, che non percepiscono – anche da tenui segni – l’insorgere di tristezze, di problemi o di atteggiamenti negativi?
Cari genitori, quanto lavoro è davanti a voi! Ma non gravoso, né troppo difficile. Parlate coi figli adolescenti, con la stessa gioia con cui dicevate quelle parole dolcissime quando erano molto piccoli ed eravate pronti a percepire i primi balbettii e gridavate con gioia: il nostro bimbo parla! Parla il bimbo. Parla il ragazzo e l’adolescente. Parlano anche per il bisogno e la gioia di essere ascoltati. “Ascolta, Israele!” dice Dio. Ascoltate, mamme e papà, i vostri figli e sarà un po’ meno difficile percepire i loro cambiamenti e turbamenti, ed essere pronti ad aiutarli. Quanta fatica comporta il crescere! Iniziamo a soccorrerli con l’ascolto.
don Giancarlo Conte (PC)
ascoltate i vostri figli
Cara Settimana,
in questi ultimi tempi è frequente il discorso sui ragazzi e bambini vittime delle sopraffazioni degli adulti. Tristissimi casi ci impressionano: uno degli ultimi quello del piccolo Matteo di 9 mesi, strozzato (così pare) dalla madre depressa, che poi ha tentato il suicidio con in grembo un figliolino al sesto mese.
Ma la cronaca delle ultime settimane ci ha fatto soffrire ancor più perché vede protagonisti del male coloro che – per l’età non molto lontana da quella stagione della vita chiamata “innocenza” – siamo abituati a ritenere quasi incapaci di compierlo. Gli episodi si sono tristemente ripetuti quasi in fotocopia e ci presentano ragazzi carnefici di loro coetanei: violentatori, picchiatori, fotografi di oscenità, ladri, assuntori e spacciatori di droga, talvolta addirittura assassini al soldo della camorra.
I mezzi di informazione – forse incapaci di trovare termini nuovi e più adeguati – insistono a classificare il fenomeno come “bullismo”, mentre i fatti appaiono ben più gravi, anche se già il bullismo può arrivare ad alcune atrocità. È strana la nostra società: produce di tutto, pubblica di tutto, trasmette di tutto, offre e propone di tutto, ma non sa difendere i minori che, per la forte precocità nelle conoscenze e nella pratica del male, la spaventano. È lecita una domanda: perché la società nelle sue istituzioni – famiglia scuola magistratura – dà spesso la sensazione di accantonare i problemi educativi (quelli quotidiani, che sono poi quelli che contano) e ha bisogno di fatti eclatanti per tornare a discutere e progettare, per poi tornare alla silenziosa indifferenza?
Si dice che oggi i nostri giovanissimi siano “ragazzi-spugna” che assorbono tutto. Anche qui una domanda: il male è in loro che assorbono o nella società che abbondantemente offre violenza, corruzione e ricerca ossessiva di un benessere soltanto fisico ed economico? Se la società fosse buona e pulita, i “ragazzi-spugna” assorbirebbero il bene, il senso del dovere e il rispetto delle persone.
Che tristezza, nei commenti sugli ultimi episodi, la sottolineatura dell’indifferenza dei compagni che assistono i protagonisti delle terribili bravate! Quanti ragazzi affermano – a giustificazione del loro mancato intervento a difendere i deboli – “io mi faccio gli affari miei”, “io non mi interesso perché non voglio grane”. Ma dov’è la solidarietà verso cui il mondo d’oggi dovrebbe incamminarsi per creare attenzione e aiuto verso gli affamati, gli ammalati, i barboni e gli emarginati?
Le nostre famiglie educano i loro figli al senso del dovere nei confronti degli altri, al rispetto delle persone, alla nonviolenza? Perché tanti ragazzi, dopo aver compiuto gravi gesti di violenza, non si sentono in colpa (e talvolta nemmeno i loro genitori)? Non è forse perché oggi nelle famiglie si è meno preoccupati di educare le coscienze e tanti ragazzi sono lasciati crescere allo sbando? Ci si preoccupa giustamente dell’ecologia, dell’aria pulita. Perché non anche dell’atmosfera di pulizia nel linguaggio, nei giudizi, nei comportamenti?
Si è soliti dire che tanta deformazione – se non patologia e vera devianza – siano causate dalla carenza di autorevolezza degli educatori e dalla scarsità di ascolto di cui soffrono i ragazzi di oggi. Ricordo un ritiro spirituale ai cresimandi sulla famosa parola biblica: “Ascolta, Israele!” . Facevo notare ai ragazzi che essere ascoltati dà gioia e che perfino Dio ambisce alla gioia di essere ascoltato. Poi ho proposto per iscritto un questionario anonimo con la domanda: “Chi ti ascolta?”. Le risposte purtroppo non hanno messo i genitori in primo piano – come mi sarei aspettato – ma nell’ordine: gli amici, i catechisti, il don. Lungi dall’attribuire meriti particolari alle parrocchie – che in età diversa e in analogo questionario potrebbero risultare ultime –, quello che mi colpì fu l’ultimo posto dato ai genitori. Sarà davvero così scarso il numero di papà e di mamme che “ascoltano” i figli? E così numerosi quelli che non parlano con loro, che non percepiscono – anche da tenui segni – l’insorgere di tristezze, di problemi o di atteggiamenti negativi?
Cari genitori, quanto lavoro è davanti a voi! Ma non gravoso, né troppo difficile. Parlate coi figli adolescenti, con la stessa gioia con cui dicevate quelle parole dolcissime quando erano molto piccoli ed eravate pronti a percepire i primi balbettii e gridavate con gioia: il nostro bimbo parla! Parla il bimbo. Parla il ragazzo e l’adolescente. Parlano anche per il bisogno e la gioia di essere ascoltati. “Ascolta, Israele!” dice Dio. Ascoltate, mamme e papà, i vostri figli e sarà un po’ meno difficile percepire i loro cambiamenti e turbamenti, ed essere pronti ad aiutarli. Quanta fatica comporta il crescere! Iniziamo a soccorrerli con l’ascolto.
don Giancarlo Conte (PC)
martedì 19 dicembre 2006
IN MERITO ALLA RECENSIONE DEL SUO LIBRO PUBBLICATA SU “SETTIMANA”
“Inchiesta su Gesù”
Pesce risponde a don Giavini
Caro direttore,
ringrazio anzitutto don Giovanni Giavini per essersi occupato del libro Inchiesta su Gesù (cf. Sett. n. 39/06, p. 15). Dopo aver scritto per circa quarant’anni di esegesi per un pubblico di specialisti, è la prima volta che tento di fare un'opera di divulgazione seguendo le domande di uno scrittore e gionalista non cristiano e laico. Ho voluto spiegare ad un pubblico vasto quali sono i pareri, spesso diversi, presenti oggi nell'esegesi scientifica.
Io credo che la ricerca esegetica non debba leggere i testi alla luce della fede, ma neppure alla luce della non-fede. È analisi razionale dei testi e ovviamente parziale, modificabile, sottoposta all'errore e alla soggettività ineliminabile.
La ricerca storica, se è onesta e rigorosa, non offre un’immagine parziale di Gesù. L'esegeta cattolico Spicq, in polemica aspra con J. Daniélou e H. de Lubac, diceva che l'esegesi storica ci porta al centro del mistero, ma ovviamente in modo storico. Se l'immagine di Gesù che si ricava dalla mia intervista è troppo "parziale", ciò può dipendere dalla mia mediocrità e aridità, ma non dal metodo.
Ho molta stima di Giavini come esegeta e persona. Mi sembra però che abbiamo non pochi pareri discordi in esegesi. E Giavini fa molto bene ad esprimere pubblicamente il suo dissenso. Con la dovuta serenità, sottolineo alcuni punti su cui non sono d'accordo con la sua recensione.
1. Ho parlato di una distanza del cristianesimo da Gesù, ma ho anche detto che alcuni considerano lo sviluppo come un tradimento e altri come legittima evoluzione.
2. Che ci sia continuità tra i vangeli (e la chiesa primitiva) e vari elementi del Gesù storico è cosa sempre ripetuta dall’esegesi protestante e cattolica almeno dopo Käsemann. Io, però, distinguo il fatto che un autore della metà o della fine del I secolo o del II secolo ritenga di essere in continuità con Gesù, dal fatto che Gesù abbia detto e fatto ciò che pensano di lui coloro che ritengono di essere in continuità con lui.
3. Sul rapporto Paolo-Gesù, ci sono così tante diverse opinioni esegetiche e teologiche che non mi sembra che, se io aderissi anche alla più radicale, questo mi metterebbe fuori dal normale dibattito legittimo nella più seria delle Facoltà teologiche. Lo stesso vale per la questione di Gal 1 e 2. Le mie tesi sono estremamente diffuse nell'esegesi internazionale.
4. Che il “Padre nostro” sia preghiera che un qualunque pio giudeo poteva pregare senza essere cristiano in nulla lo dice anche Gnilka. Ritengo, invece, che la cristologia di Mt sia matteana non gesuana. Qui c'è veramente un dissenso. La concezione gesuana del perdono dei peccati espressa in Mt 6,12 è, a mio parere, diversa da quella espressa dalla cristologia matteana che si fa luce nelle parole matteane dell'ultima cena. Ma anche questa è una tesi esegetica diffusa. Ovviamente, qui si fa luce la mia personale e perciò limitata interpretazione, presenatata in passato in alcuni articoli riservati ad un pubblico di specialisti.
5. Sì, Gesù non è un cristiano. Qui c’è tutto il problema della nascita del cristianesimo. Come, quando, dove? C’è oggi in corso un dibattito estremamente sviluppato e io sono in ricerca. Non ho raggiunto una risposta che mi soddisfi, come anche ho scritto in una discussione con Giorgio Jossa. Credo che di cristianesimo come lo intenderà la chiesa dei secoli IV-VI si possa cominciare a parlare solo nella seconda metà del II secolo.
6. Sulla bibliografia credo abbia ragione Giavini a criticarne la debolezza. Mi avevano chiesto di citare solo le cose di cui si parlava nell'intervista (che in origine è la sbobinatura di un dialogo). Avrei dovuto resistere alle pressioni dell'editore. Mi auguro però che qualcuno legga i libri consigliati, di Theissen, Sanders o anche solo uno dei tre libri scritti da me con Adriana Destro e citati in copertina dove troverà una bibliografia scientifica con centinaia di titoli.
Grazie, comunque, per avermi obbligato a riflettere ancora.
Mauro Pesce
Pesce risponde a don Giavini
Caro direttore,
ringrazio anzitutto don Giovanni Giavini per essersi occupato del libro Inchiesta su Gesù (cf. Sett. n. 39/06, p. 15). Dopo aver scritto per circa quarant’anni di esegesi per un pubblico di specialisti, è la prima volta che tento di fare un'opera di divulgazione seguendo le domande di uno scrittore e gionalista non cristiano e laico. Ho voluto spiegare ad un pubblico vasto quali sono i pareri, spesso diversi, presenti oggi nell'esegesi scientifica.
Io credo che la ricerca esegetica non debba leggere i testi alla luce della fede, ma neppure alla luce della non-fede. È analisi razionale dei testi e ovviamente parziale, modificabile, sottoposta all'errore e alla soggettività ineliminabile.
La ricerca storica, se è onesta e rigorosa, non offre un’immagine parziale di Gesù. L'esegeta cattolico Spicq, in polemica aspra con J. Daniélou e H. de Lubac, diceva che l'esegesi storica ci porta al centro del mistero, ma ovviamente in modo storico. Se l'immagine di Gesù che si ricava dalla mia intervista è troppo "parziale", ciò può dipendere dalla mia mediocrità e aridità, ma non dal metodo.
Ho molta stima di Giavini come esegeta e persona. Mi sembra però che abbiamo non pochi pareri discordi in esegesi. E Giavini fa molto bene ad esprimere pubblicamente il suo dissenso. Con la dovuta serenità, sottolineo alcuni punti su cui non sono d'accordo con la sua recensione.
1. Ho parlato di una distanza del cristianesimo da Gesù, ma ho anche detto che alcuni considerano lo sviluppo come un tradimento e altri come legittima evoluzione.
2. Che ci sia continuità tra i vangeli (e la chiesa primitiva) e vari elementi del Gesù storico è cosa sempre ripetuta dall’esegesi protestante e cattolica almeno dopo Käsemann. Io, però, distinguo il fatto che un autore della metà o della fine del I secolo o del II secolo ritenga di essere in continuità con Gesù, dal fatto che Gesù abbia detto e fatto ciò che pensano di lui coloro che ritengono di essere in continuità con lui.
3. Sul rapporto Paolo-Gesù, ci sono così tante diverse opinioni esegetiche e teologiche che non mi sembra che, se io aderissi anche alla più radicale, questo mi metterebbe fuori dal normale dibattito legittimo nella più seria delle Facoltà teologiche. Lo stesso vale per la questione di Gal 1 e 2. Le mie tesi sono estremamente diffuse nell'esegesi internazionale.
4. Che il “Padre nostro” sia preghiera che un qualunque pio giudeo poteva pregare senza essere cristiano in nulla lo dice anche Gnilka. Ritengo, invece, che la cristologia di Mt sia matteana non gesuana. Qui c'è veramente un dissenso. La concezione gesuana del perdono dei peccati espressa in Mt 6,12 è, a mio parere, diversa da quella espressa dalla cristologia matteana che si fa luce nelle parole matteane dell'ultima cena. Ma anche questa è una tesi esegetica diffusa. Ovviamente, qui si fa luce la mia personale e perciò limitata interpretazione, presenatata in passato in alcuni articoli riservati ad un pubblico di specialisti.
5. Sì, Gesù non è un cristiano. Qui c’è tutto il problema della nascita del cristianesimo. Come, quando, dove? C’è oggi in corso un dibattito estremamente sviluppato e io sono in ricerca. Non ho raggiunto una risposta che mi soddisfi, come anche ho scritto in una discussione con Giorgio Jossa. Credo che di cristianesimo come lo intenderà la chiesa dei secoli IV-VI si possa cominciare a parlare solo nella seconda metà del II secolo.
6. Sulla bibliografia credo abbia ragione Giavini a criticarne la debolezza. Mi avevano chiesto di citare solo le cose di cui si parlava nell'intervista (che in origine è la sbobinatura di un dialogo). Avrei dovuto resistere alle pressioni dell'editore. Mi auguro però che qualcuno legga i libri consigliati, di Theissen, Sanders o anche solo uno dei tre libri scritti da me con Adriana Destro e citati in copertina dove troverà una bibliografia scientifica con centinaia di titoli.
Grazie, comunque, per avermi obbligato a riflettere ancora.
Mauro Pesce
A PARTIRE DAL CONFRONTO TRA DUE CELEBRAZIONI EUCARISTICHE TELETRASMESSE
Una liturgia fedele
al concilio Vaticano II
Caro direttore,
domenica 19 novembre, sono state teletrasmesse, purtroppo quasi in contemporanea, almeno per una parte, due celebrazioni eucaristiche (alle ore 10 su SAT2000 dalla basilica di S. Pietro e alle ore 11 su Rai1 dalla parrocchiale di S. Abbondio in Cremona); ambedue, grazie a Dio, secondo il Messale di Paolo VI, notevolmente diverse, però, sia per il tipo di partecipanti, sia, soprattutto, per l’accompagnamento musicale e i canti.
Nella prima, in S. Pietro, ovviamente la qualità dei fedeli era molto eterogenea, quasi elitaria, con personaggi politici o esponenti sociali ben noti, immancabilmente in prima fila bene inquadrati dalle telecamere; decisamente era predominante l’orchestra di altissimo livello chiamata ad eseguire la famosa Messa di Mozart.
Nella seconda, quella parrocchiale di Cremona, invece, l’assemblea liturgica era composta prettamente dai nostri semplici e umili – verrebbe da dire “ruspanti” – fedeli, tipici della nostre comunità urbane e rurali, costanti nella loro partecipazione domenicale (bellissimi i volti dei ragazzini attenti e compresi, impeccabili nel loro servizio!). Un coro di laici ha animato il canto eseguendo le parti fisse in melodia gregoriana ma non in modo esclusivo bensì coinvolgendo pure gli altri fedeli (esemplarmente il direttore non guidava solo il coro ma pure l’assemblea, come la chiesa insegna). La celebrazione, presieduta dal parroco, semplice, dignitosa, sapeva di autentico, espressione viva di una vera comunità parrocchiale che celebra il Signore risorto nel suo giorno di festa e non altro.
Nel quasi obbligato confronto tra le due messe, motivato dal casuale stretto ravvicinamento, è difficile non cedere alla forte tentazione di porre interrogativi in proposito.
La musica sacra di qualunque autore e tempo, in qualunque sede e celebrazione, deve essere a servizio dell’eucaristia, oppure è possibile e accettabile anche il contrario? Per la messa di Cremona, certamente, non vi sono dubbi; oltre tutto, il contesto e la composizione dell’assemblea, il canto e l’accompagnamento musicale erano chiaramente e direttamente in funzione esclusiva dell’eucaristia. Tra l’altro il canto gregoriano, ovviamente, era in latino a chiara dimostrazione, contro molte falsità sbandierate, che è possibilissimo valorizzarlo, in modo equilibrato, anche usando il Messale di Paolo VI.
Queste celebrazioni, fedeli alle norme e insieme profondamente incarnate nella vera vita del nostro popolo cristiano, non possono non apportare grande conforto a chi ha creduto e crede alla validità della riforma liturgica conciliare, soprattutto in questi tempi in cui pare che si rimettano in moto e in gioco pericolosi riflussi al riguardo, con possibili gravi conseguenze che potrebbero andare ben oltre la liturgia, già importantissima per se stessa, fino a intaccare l’unità e la comunione nelle nostre chiese. Se infatti – stando, per ora, a voci ufficiose –, si giungesse veramente a liberalizzare del tutto l’uso del Messale di san Pio V, lasciando al singolo sacerdote o al gruppetto dei fedeli la scelta di questo in piena parità di quello di Paolo VI, il rischio di una “messa à la carte” non sarebbe per nulla ipotetico. Già i vescovi francesi hanno espresso all’unanimità con grande chiarezza e coraggio le loro serie preoccupazioni in proposito.
Non sarebbe bene e giusto che anche nelle nostre comunità si sentisse il “sensus fidelium” di laici e di pastori fedeli al Vaticano II?
Sebastiano Dho
vescovo di Alba
al concilio Vaticano II
Caro direttore,
domenica 19 novembre, sono state teletrasmesse, purtroppo quasi in contemporanea, almeno per una parte, due celebrazioni eucaristiche (alle ore 10 su SAT2000 dalla basilica di S. Pietro e alle ore 11 su Rai1 dalla parrocchiale di S. Abbondio in Cremona); ambedue, grazie a Dio, secondo il Messale di Paolo VI, notevolmente diverse, però, sia per il tipo di partecipanti, sia, soprattutto, per l’accompagnamento musicale e i canti.
Nella prima, in S. Pietro, ovviamente la qualità dei fedeli era molto eterogenea, quasi elitaria, con personaggi politici o esponenti sociali ben noti, immancabilmente in prima fila bene inquadrati dalle telecamere; decisamente era predominante l’orchestra di altissimo livello chiamata ad eseguire la famosa Messa di Mozart.
Nella seconda, quella parrocchiale di Cremona, invece, l’assemblea liturgica era composta prettamente dai nostri semplici e umili – verrebbe da dire “ruspanti” – fedeli, tipici della nostre comunità urbane e rurali, costanti nella loro partecipazione domenicale (bellissimi i volti dei ragazzini attenti e compresi, impeccabili nel loro servizio!). Un coro di laici ha animato il canto eseguendo le parti fisse in melodia gregoriana ma non in modo esclusivo bensì coinvolgendo pure gli altri fedeli (esemplarmente il direttore non guidava solo il coro ma pure l’assemblea, come la chiesa insegna). La celebrazione, presieduta dal parroco, semplice, dignitosa, sapeva di autentico, espressione viva di una vera comunità parrocchiale che celebra il Signore risorto nel suo giorno di festa e non altro.
Nel quasi obbligato confronto tra le due messe, motivato dal casuale stretto ravvicinamento, è difficile non cedere alla forte tentazione di porre interrogativi in proposito.
La musica sacra di qualunque autore e tempo, in qualunque sede e celebrazione, deve essere a servizio dell’eucaristia, oppure è possibile e accettabile anche il contrario? Per la messa di Cremona, certamente, non vi sono dubbi; oltre tutto, il contesto e la composizione dell’assemblea, il canto e l’accompagnamento musicale erano chiaramente e direttamente in funzione esclusiva dell’eucaristia. Tra l’altro il canto gregoriano, ovviamente, era in latino a chiara dimostrazione, contro molte falsità sbandierate, che è possibilissimo valorizzarlo, in modo equilibrato, anche usando il Messale di Paolo VI.
Queste celebrazioni, fedeli alle norme e insieme profondamente incarnate nella vera vita del nostro popolo cristiano, non possono non apportare grande conforto a chi ha creduto e crede alla validità della riforma liturgica conciliare, soprattutto in questi tempi in cui pare che si rimettano in moto e in gioco pericolosi riflussi al riguardo, con possibili gravi conseguenze che potrebbero andare ben oltre la liturgia, già importantissima per se stessa, fino a intaccare l’unità e la comunione nelle nostre chiese. Se infatti – stando, per ora, a voci ufficiose –, si giungesse veramente a liberalizzare del tutto l’uso del Messale di san Pio V, lasciando al singolo sacerdote o al gruppetto dei fedeli la scelta di questo in piena parità di quello di Paolo VI, il rischio di una “messa à la carte” non sarebbe per nulla ipotetico. Già i vescovi francesi hanno espresso all’unanimità con grande chiarezza e coraggio le loro serie preoccupazioni in proposito.
Non sarebbe bene e giusto che anche nelle nostre comunità si sentisse il “sensus fidelium” di laici e di pastori fedeli al Vaticano II?
Sebastiano Dho
vescovo di Alba
IN ASCOLTO DI QUANTO È STATO DETTO AL CONVEGNO DI VERONA
Un dialogo più stretto fra vescovi e laici
Cara Settimana,
prima, durante e dopo il convegno ecclesiale di Verona è emerso sempre più chiaramente che uno dei problemi fondamentali della chiesa in Italia è una maggiore valorizzazione dei laici nella chiesa; più esattamente, un dialogo più stretto fra vescovi e fedeli laici, per comprendere meglio «quello che lo Spirito dice oggi alla sua chiesa», per leggere «con discernimento evangelico i segni dei tempi» (le sfide epocali!), per scrutare l’aurora e capire quale modello di cristianesimo sognare e progettare per il futuro della chiesa in Italia.
Qualcuno ha osservato che c’è una specie di afasia del laicato nella fase di ricerca e di preparazione di decisioni importanti. Qualcuno si è domandato se è possibile accettare una pura e semplice identificazione fra chiesa italiana e conferenza episcopale.
Addirittura, da più parti si è proposto di dare vita ad un organismo permanente di partecipazione dei laici alla vita della chiesa, una specie di “Consiglio pastorale nazionale”, ovviamente in piena comunione con i propri pastori.
Insomma, è fortemente avvertito il desiderio di un maggior “dialogo domestico” (Paolo VI), l’urgenza di uno “spazio” di ascolto reciproco e di confronto fra tutte le componenti ecclesiali, in modo franco e leale.
Proprio a sostegno di questo desiderio, voglio ricordare un testo bellissimo, audace e molto pertinente al nostro problema, di un grande pontefice: s. Gregorio Magno (papa dal 590 al 604). Il testo appartiene alla sua opera Moralia in Job, XXX, 27, 81: PL 76, 569C. Nell’approfondimento di un passo difficile della Scrittura, presenta due possibili interpretazioni, ma aggiunge: «Lascio al giudizio del lettore scegliere l’interpretazione che preferisce. Se poi nessuna delle due spiegazioni che io propongo soddisfa il mio lettore, ben volentieri io seguirò lui, se riesce a trovarne una più consona al testo e più profonda; lo seguirò come un discepolo segue il maestro («velut magistrum discipulus sequar»!), perché ritengo donato a me personalmente ciò che egli intende meglio di me. Infatti tutti noi che, pieni di fede, osiamo parlare di Dio, siamo strumenti della Verità («omnes organa veritatis sumus»!). E la Verità può far sentire la sua voce tanto per mezzo mio ad un altro, quanto per mezzo di un altro a me. Essa sta in mezzo a noi e ci tratta tutti con equità, anche se noi non sempre ci comportiamo con equità».
Se questa parola, sublime e audace, di s. Gregorio Magno vale per l’interpretazione della Scrittura, a maggior ragione può valere per il discernimento evangelico dei segni dei tempi.
Come sarebbe stato bello se qualche vescovo a Verona avesse avuto il coraggio (la parresia) di ricordare queste parole del grande Gregorio!
Grazie per l’attenzione e auguri per il vostro lavoro.
don Giovanni Marcandalli (MI)
Cara Settimana,
prima, durante e dopo il convegno ecclesiale di Verona è emerso sempre più chiaramente che uno dei problemi fondamentali della chiesa in Italia è una maggiore valorizzazione dei laici nella chiesa; più esattamente, un dialogo più stretto fra vescovi e fedeli laici, per comprendere meglio «quello che lo Spirito dice oggi alla sua chiesa», per leggere «con discernimento evangelico i segni dei tempi» (le sfide epocali!), per scrutare l’aurora e capire quale modello di cristianesimo sognare e progettare per il futuro della chiesa in Italia.
Qualcuno ha osservato che c’è una specie di afasia del laicato nella fase di ricerca e di preparazione di decisioni importanti. Qualcuno si è domandato se è possibile accettare una pura e semplice identificazione fra chiesa italiana e conferenza episcopale.
Addirittura, da più parti si è proposto di dare vita ad un organismo permanente di partecipazione dei laici alla vita della chiesa, una specie di “Consiglio pastorale nazionale”, ovviamente in piena comunione con i propri pastori.
Insomma, è fortemente avvertito il desiderio di un maggior “dialogo domestico” (Paolo VI), l’urgenza di uno “spazio” di ascolto reciproco e di confronto fra tutte le componenti ecclesiali, in modo franco e leale.
Proprio a sostegno di questo desiderio, voglio ricordare un testo bellissimo, audace e molto pertinente al nostro problema, di un grande pontefice: s. Gregorio Magno (papa dal 590 al 604). Il testo appartiene alla sua opera Moralia in Job, XXX, 27, 81: PL 76, 569C. Nell’approfondimento di un passo difficile della Scrittura, presenta due possibili interpretazioni, ma aggiunge: «Lascio al giudizio del lettore scegliere l’interpretazione che preferisce. Se poi nessuna delle due spiegazioni che io propongo soddisfa il mio lettore, ben volentieri io seguirò lui, se riesce a trovarne una più consona al testo e più profonda; lo seguirò come un discepolo segue il maestro («velut magistrum discipulus sequar»!), perché ritengo donato a me personalmente ciò che egli intende meglio di me. Infatti tutti noi che, pieni di fede, osiamo parlare di Dio, siamo strumenti della Verità («omnes organa veritatis sumus»!). E la Verità può far sentire la sua voce tanto per mezzo mio ad un altro, quanto per mezzo di un altro a me. Essa sta in mezzo a noi e ci tratta tutti con equità, anche se noi non sempre ci comportiamo con equità».
Se questa parola, sublime e audace, di s. Gregorio Magno vale per l’interpretazione della Scrittura, a maggior ragione può valere per il discernimento evangelico dei segni dei tempi.
Come sarebbe stato bello se qualche vescovo a Verona avesse avuto il coraggio (la parresia) di ricordare queste parole del grande Gregorio!
Grazie per l’attenzione e auguri per il vostro lavoro.
don Giovanni Marcandalli (MI)
UNA DISCUTIBILE INIZIATIVA PER SVELTIRE I PROCESSI DI NULLITÀ
Tribunali ecclesiastici
siamo al collasso?
Caro direttore,
permettimi di dire la mia opinione su un argomento spinoso per la sua delicatezza e per le professionalità che vi vengono coinvolte.
Dà vistosi segni di cedimento la complessa struttura dei tribunali ecclesiastici matrimoniali, chiamata a risolvere il problema di quei fedeli cristiani che, dopo il fallimento del loro matrimonio, desiderano rifarsi una vita.
All’aumento vertiginoso delle richieste di nullità risponde una carenza di personale in possesso dei requisiti previsti dalle norme canoniche per dare una sollecita risposta alle legittime attese di fedeli.
Chi ha alle spalle un matrimonio fallito, e vuole osservare fino in fondo le direttive del magistero, non può attendere per anni la risposta del tribunale. Perciò si spiegano le lamentele e le proteste dinanzi alle lunghe attese per l’avvio del processo e per la sua conclusione nei termini ragionevoli fissati dalle norme canoniche.
Affidare a laici di buona volontà l’ufficio di giudice istruttore? Di fronte a questa drammatica situazione, i responsabili di qualche tribunale ecclesiastico matrimoniale hanno trovato un facile rimedio: visto che non è possibile improvvisare un giudice ecclesiastico, hanno pensato di chiamare laici, con una certa esperienza di diritto e di tribunali (magistrati civili in pensione, avvocati, cancellieri...), per nominarli uditori a norma del can. 1428 del Codice di diritto canonico e affidare loro l’istruttoria dei processi matrimoniali. In tal modo i giudici che dovranno emettere la sentenza saranno sgravati del lavoro più oneroso di ascoltare le parti e i testimoni e di verbalizzare le loro deposizioni.
L’ipotesi formulata da questi tribunali ha un qualche riferimento alle norme canoniche. Infatti il § 2 del can. 1428 recita: «Il vescovo può approvare all’incarico di uditore chierici e laici, che rifulgano per buoni costumi, prudenza e dottrina».
Si tratta, però, di spiegare che cosa intende il legislatore per “dottrina”. Mi sembra fuori discussione che il termine “dottrina” debba riferirsi alla teologia e al diritto canonico. Inoltre, non può trattarsi di una generica conoscenza di problemi giuridici, perché il processo di nullità matrimoniale suppone anzitutto la conoscenza della natura, delle proprietà e del fine del matrimonio/sacramento e, in secondo luogo, la cognizione delle norme procedurali previste dal legislatore canonico per acquisire le prove necessarie al pronunciamento dei giudici.
Queste conoscenze non possono essere acquisite in una serie di “lezioni” alle quali gli aspiranti uditori potranno essere obbligati a partecipare prima di ricevere la nomina e l’incarico.
Qualsiasi ordinamento giuridico richiede come garanzia minima per esercitare l’ufficio di giudice: un regolare corso di studi, il conseguimento di uno specifico titolo accademico, il possesso di una certa esperienza. Né si può ritenere che un corso di laurea in giurisprudenza conseguita nelle università statali sia sufficiente per ricoprire nei tribunali ecclesiastici l’ufficio di giudice istruttore e l’esperienza accumulata nei tribunali civili e penali dello stato sia equivalente a quella necessaria per istruire un processo di nullità matrimoniale.
Una soluzione contraria all’indirizzo del magistero. Proprio qualche anno fa, una discussa riforma del corso di laurea in diritto canonico nelle università pontificie ha imposto agli studenti, che vogliono iscriversi alla facoltà di diritto canonico, il conseguimento di un titolo di studio in teologia.
Il nuovo indirizzo, fortemente voluto dalla Congregazione per l’educazione cattolica, mira ad assicurare che sia garantita una conoscenza teologica di base soprattutto a quei laici che intendono conseguire la laurea in diritto canonico per svolgere la professione di avvocato nei tribunali ecclesiastici.
Mentre le autorità ecclesiastiche si sono dimostrate decise a intraprendere una riforma impopolare, superando aperte critiche e comprensibili malumori, la scelta che intendono fare i responsabili di questo tribunale ecclesiastico matrimoniale sembra andare in senso opposto. Non si riesce a capire come mai per svolgere l’ufficio di avvocato nei tribunali ecclesiastici si debba pretendere una licenza in teologia e una laurea in diritto canonico, mentre per svolgere l’ufficio molto più impegnativo di giudice istruttore non sia necessario uno specifico titolo di studio.
L’istruttoria è una fase marginale del processo? Alla base di questa discutibile scelta c’è anche un’errata valutazione del ruolo del giudice istruttore. Chi ha esperienza in questo settore sa bene che il vero e proprio processo si svolge in istruttoria. È il giudice istruttore che incontra le parti e i testimoni, che pone loro le domande appropriate, che verbalizza le risposte, che valuta l’opportunità di approfondire o meno un filone di indizi. I giudici che emetteranno la sentenza conoscono il caso solo attraverso gli atti istruttori. Il loro compito, per quanto importante e decisivo, è condizionato da chi ha raccolto le prove. Non per nulla il giudice che emette la sentenza deve raggiungere la certezza morale «dagli atti e da quanto è stato dimostrato» (can. 1608 § 2).
Una diversa prassi per risolvere il problema de matrimoni falliti. Se, per smaltire il gran numero di processi di nullità matrimoniale che attendono di essere portati a termine nei tribunali ecclesiastici la via da seguire è quella ipotizzata, tanto vale dichiararsi incapaci di affrontare e risolvere il grave problema dei matrimoni falliti o decidersi una volta per sempre di affrontarlo in modo diverso. Di tanto in tanto qualche autorevole uomo di chiesa accende le speranze delle persone che attendono di trovare una soluzione ai loro problemi, avanzando ipotesi alternative all’attuale prassi.
Dinanzi alle crescenti difficoltà in cui versano i tribunali ecclesiastici sembra giunto il momento di mettere da parte le discussioni teoriche per passare alle attuazioni pratiche. In caso contrario, si dà adito ad iniziative, come quella illustrata, che svuotano di significato il processo di nullità matrimoniale per ridurlo ad una inutile formalità.
Adolfo Longhitano
siamo al collasso?
Caro direttore,
permettimi di dire la mia opinione su un argomento spinoso per la sua delicatezza e per le professionalità che vi vengono coinvolte.
Dà vistosi segni di cedimento la complessa struttura dei tribunali ecclesiastici matrimoniali, chiamata a risolvere il problema di quei fedeli cristiani che, dopo il fallimento del loro matrimonio, desiderano rifarsi una vita.
All’aumento vertiginoso delle richieste di nullità risponde una carenza di personale in possesso dei requisiti previsti dalle norme canoniche per dare una sollecita risposta alle legittime attese di fedeli.
Chi ha alle spalle un matrimonio fallito, e vuole osservare fino in fondo le direttive del magistero, non può attendere per anni la risposta del tribunale. Perciò si spiegano le lamentele e le proteste dinanzi alle lunghe attese per l’avvio del processo e per la sua conclusione nei termini ragionevoli fissati dalle norme canoniche.
Affidare a laici di buona volontà l’ufficio di giudice istruttore? Di fronte a questa drammatica situazione, i responsabili di qualche tribunale ecclesiastico matrimoniale hanno trovato un facile rimedio: visto che non è possibile improvvisare un giudice ecclesiastico, hanno pensato di chiamare laici, con una certa esperienza di diritto e di tribunali (magistrati civili in pensione, avvocati, cancellieri...), per nominarli uditori a norma del can. 1428 del Codice di diritto canonico e affidare loro l’istruttoria dei processi matrimoniali. In tal modo i giudici che dovranno emettere la sentenza saranno sgravati del lavoro più oneroso di ascoltare le parti e i testimoni e di verbalizzare le loro deposizioni.
L’ipotesi formulata da questi tribunali ha un qualche riferimento alle norme canoniche. Infatti il § 2 del can. 1428 recita: «Il vescovo può approvare all’incarico di uditore chierici e laici, che rifulgano per buoni costumi, prudenza e dottrina».
Si tratta, però, di spiegare che cosa intende il legislatore per “dottrina”. Mi sembra fuori discussione che il termine “dottrina” debba riferirsi alla teologia e al diritto canonico. Inoltre, non può trattarsi di una generica conoscenza di problemi giuridici, perché il processo di nullità matrimoniale suppone anzitutto la conoscenza della natura, delle proprietà e del fine del matrimonio/sacramento e, in secondo luogo, la cognizione delle norme procedurali previste dal legislatore canonico per acquisire le prove necessarie al pronunciamento dei giudici.
Queste conoscenze non possono essere acquisite in una serie di “lezioni” alle quali gli aspiranti uditori potranno essere obbligati a partecipare prima di ricevere la nomina e l’incarico.
Qualsiasi ordinamento giuridico richiede come garanzia minima per esercitare l’ufficio di giudice: un regolare corso di studi, il conseguimento di uno specifico titolo accademico, il possesso di una certa esperienza. Né si può ritenere che un corso di laurea in giurisprudenza conseguita nelle università statali sia sufficiente per ricoprire nei tribunali ecclesiastici l’ufficio di giudice istruttore e l’esperienza accumulata nei tribunali civili e penali dello stato sia equivalente a quella necessaria per istruire un processo di nullità matrimoniale.
Una soluzione contraria all’indirizzo del magistero. Proprio qualche anno fa, una discussa riforma del corso di laurea in diritto canonico nelle università pontificie ha imposto agli studenti, che vogliono iscriversi alla facoltà di diritto canonico, il conseguimento di un titolo di studio in teologia.
Il nuovo indirizzo, fortemente voluto dalla Congregazione per l’educazione cattolica, mira ad assicurare che sia garantita una conoscenza teologica di base soprattutto a quei laici che intendono conseguire la laurea in diritto canonico per svolgere la professione di avvocato nei tribunali ecclesiastici.
Mentre le autorità ecclesiastiche si sono dimostrate decise a intraprendere una riforma impopolare, superando aperte critiche e comprensibili malumori, la scelta che intendono fare i responsabili di questo tribunale ecclesiastico matrimoniale sembra andare in senso opposto. Non si riesce a capire come mai per svolgere l’ufficio di avvocato nei tribunali ecclesiastici si debba pretendere una licenza in teologia e una laurea in diritto canonico, mentre per svolgere l’ufficio molto più impegnativo di giudice istruttore non sia necessario uno specifico titolo di studio.
L’istruttoria è una fase marginale del processo? Alla base di questa discutibile scelta c’è anche un’errata valutazione del ruolo del giudice istruttore. Chi ha esperienza in questo settore sa bene che il vero e proprio processo si svolge in istruttoria. È il giudice istruttore che incontra le parti e i testimoni, che pone loro le domande appropriate, che verbalizza le risposte, che valuta l’opportunità di approfondire o meno un filone di indizi. I giudici che emetteranno la sentenza conoscono il caso solo attraverso gli atti istruttori. Il loro compito, per quanto importante e decisivo, è condizionato da chi ha raccolto le prove. Non per nulla il giudice che emette la sentenza deve raggiungere la certezza morale «dagli atti e da quanto è stato dimostrato» (can. 1608 § 2).
Una diversa prassi per risolvere il problema de matrimoni falliti. Se, per smaltire il gran numero di processi di nullità matrimoniale che attendono di essere portati a termine nei tribunali ecclesiastici la via da seguire è quella ipotizzata, tanto vale dichiararsi incapaci di affrontare e risolvere il grave problema dei matrimoni falliti o decidersi una volta per sempre di affrontarlo in modo diverso. Di tanto in tanto qualche autorevole uomo di chiesa accende le speranze delle persone che attendono di trovare una soluzione ai loro problemi, avanzando ipotesi alternative all’attuale prassi.
Dinanzi alle crescenti difficoltà in cui versano i tribunali ecclesiastici sembra giunto il momento di mettere da parte le discussioni teoriche per passare alle attuazioni pratiche. In caso contrario, si dà adito ad iniziative, come quella illustrata, che svuotano di significato il processo di nullità matrimoniale per ridurlo ad una inutile formalità.
Adolfo Longhitano
IN FIDUCIOSA ATTESA DELLA NOTA PASTORALE DEI NOSTRI VESCOVI
Cinque nodi
del dopo-Verona
Cara Settimana,
a suo tempo, i nostri vescovi ci scriveranno del dopo Verona. Nel frattempo è iniziata un’opera importante di auscultazione di ciò che lo Spirito ha detto alle chiese. Queste note senza pretesa si inseriscono in questo tempo di sedimentazione e di contemplazione.
C’è qualcosa nell’aria che non riusciamo adeguatamente a captare. E sarebbe così salutare ammettere che di questo si tratta. Da anni si dice che l’idea centrale della visione di chiesa è la comunione. Ma poi, se osserviamo con umile realismo prima di tutto la nostra esperienza personale, dobbiamo ammettere varie forme e livelli di distanza tra la parola e il vissuto. Tanto più se interroghiamo la prassi pastorale. Ci accorgiamo che nessuna parola è più contesa di questa.
Non possiamo attenderci una ripresa della speranza nella nostra missione di chiesa, se non passiamo attraverso “la via angusta e stretta” del vivere la comunione che diciamo e del dire la comunione che viviamo. Mistica e pastorale si coesigono: «L’atto di fede non termina sull’enunciato, ma sulla cosa», insegna san Tommaso.
C’è una serie di nodi critici da sciogliere per dare visibilità storica a un modello o immagine di chiesa-comunione testimone di speranza. Ed è solo “sciogliendo” questi nodi che potremo edificare delle chiese che siano “segno e fermento” di speranza nella complessa e affaticata storia di oggi.
Un primo nodo ecclesiale: una visione condivisa di chiesa riconducibile alla comunione: corale, organica e dinamica. Che renda plausibile e possibile non separare, ma unire – esaltandoli e integrandoli – i gruppi più vivi e i fedeli che danno il famoso volto popolare (ma lo riteniamo un talento o un peso…?). Da qui dovrebbe derivare una legge non discutibile: “ogni battezzato una voce”! Senza stile sinodale, dialogale, colloquiale, senza spazio e strumenti per la pluralità delle opinioni, senza la nostalgia del… “dis-senso” come via per il discernimento, non si rende possibile una chiesa comunione, testimone di speranza.
Un secondo nodo culturale: una valutazione condivisa del mondo e della nostra situazione culturale, che sia espressione di una coscienza profetica. Se il nostro ragionamento sul mondo – offeso dalla forbice crescente della disparità tra pochissimi e i più, dal dramma degli impoveriti – non si fa interpretazione cristiana della realtà, se lo stesso non avviene nella nostra visione dell’Europa e della sua razionalità post-illuministica, se la stessa lettura non si fa – nel quadro del dialogo interreligioso in un mondo carico di tensioni – delle cause del neo-terrorismo tecnologico e internazionale, come potremmo dar ragione ai nostri contemporanei e alle folle degli impoveriti della nostra speranza?
Un terzo nodo ministeriale: una visione condivisa del nuovo posto che spetta al ministero del vescovo e del suo presbiterio come soggetto collegiale del discernimento e della conferma nella fede. In una visione di chiesa comunione si tratta di un atto finale: per essere tale, deve decidere il percorso che lo precede. Deve esaltare – vincendo immagini e precomprensioni ataviche – l’“organizzazione dell’ascolto”, con il sussidio delle competenze interdisciplinari, umane e teologiche: ascolto della fede narrata dalla chiesa e nella chiesa (si inserisce qui la titolarità secolare dei laici!).
Sulla scia dei cinque ministeri fondanti di Ef 4,16 ss. e alla luce della magistrale lezione del dialogo vissuto in concilio tra teologi e vescovi, occorre un’alleanza tra il dono globale del teologo e il dono globale dell’apostolo, in ordine alla conduzione episcopale/presbiterale. Solo nel silenzio – esercitato come corpo collegiale – emerge la voce della Tradizione. Solo nel silenzio, il vescovo con i suoi presbiteri può discernere le forme per una “leadership” sacramentale. Superata la psicologia dell’assedio dei problemi, essa potrà esprimere la guida di Cristo buon pastore che abilita la chiesa a “governare il futuro”.
Un quarto nodo pastorale: una visione condivisa della missione evangelizzatrice. Per fare della pastorale un’epifania progettuale della speranza, una pastorale escatologica, ci sono almeno due basi!
Il primo pilastro è antropologico: ogni essere umano è/ha un germe divino! Lo enuncia con una luminosità abbagliante la Gaudium et spes al n. 3: «Il concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione». Questa è la scelta di campo del concilio. È anche la nostra scelta?
Il secondo pilastro è teologico: ogni battezzato è integrato per via sacramentale nel corpo di Cristo! Su questa roccia si fonda la vera profezia della chiesa nel suo farsi dialogo, azione, organizzazione. La profezia fiorisce nel passaggio (pasquale) dall’avere “tutti come destinatari” all’avere “tutti come soggetto e soggetti”. È qui la conversione che rende profetica la chiesa ed esperimentabile la sua speranza.
Un quinto nodo spirituale: una visione condivisa della spiritualità. Per sciogliere quei quattro nodi occorre un “potere” che Dio ha in serbo per noi: il suo Spirito. Ci occorre una nuova esperienza del Dio-Trinità. Personale e comunitaria. Siamo pure noi un microcosmo ecclesiale che rimanda alla condizione comune e globale della chiesa, nel suo faticoso lasciarsi tras-formare. È la “passio ecclesiae”. Ne portiamo le stimmate nel nostro corpo. Sappiamo che ci è stata indicata dallo Spirito una strada nel deserto, ma le nostre mappe non sono state ancora disegnate adeguatamente. Sarebbe decisivo riconoscerlo: la comunione non è ancora diventata operativamente, in maniera diffusa e convinta, la misura – scossa, pigiata, traboccante – della nostra spiritualità.
Così non è agile il nostro «correre con perseveranza nella corsa che ci sta dinanzi» (Eb 12,1). È affaticato il nostro esodo corale dalla non-fede alla fede, dalla pratica devozionale alla fede pensosa, dal non-popolo al popolo-di-Dio. Se questo approccio fosse vero, non disporremmo di un criterio chiave per capire il nostro momento di chiesa? E, conseguentemente, per delineare il suo futuro? Il documento che i nostri vescovi ci doneranno, entrerà nel vivo di tali questioni?
Prima che diventare e per diventare “casa”, la chiesa deve decidersi di diventare “scuola” di comunione. Passa di qui non solo la speranza del futuro, ma soprattutto il futuro della speranza.
don Gino Moro
del dopo-Verona
Cara Settimana,
a suo tempo, i nostri vescovi ci scriveranno del dopo Verona. Nel frattempo è iniziata un’opera importante di auscultazione di ciò che lo Spirito ha detto alle chiese. Queste note senza pretesa si inseriscono in questo tempo di sedimentazione e di contemplazione.
C’è qualcosa nell’aria che non riusciamo adeguatamente a captare. E sarebbe così salutare ammettere che di questo si tratta. Da anni si dice che l’idea centrale della visione di chiesa è la comunione. Ma poi, se osserviamo con umile realismo prima di tutto la nostra esperienza personale, dobbiamo ammettere varie forme e livelli di distanza tra la parola e il vissuto. Tanto più se interroghiamo la prassi pastorale. Ci accorgiamo che nessuna parola è più contesa di questa.
Non possiamo attenderci una ripresa della speranza nella nostra missione di chiesa, se non passiamo attraverso “la via angusta e stretta” del vivere la comunione che diciamo e del dire la comunione che viviamo. Mistica e pastorale si coesigono: «L’atto di fede non termina sull’enunciato, ma sulla cosa», insegna san Tommaso.
C’è una serie di nodi critici da sciogliere per dare visibilità storica a un modello o immagine di chiesa-comunione testimone di speranza. Ed è solo “sciogliendo” questi nodi che potremo edificare delle chiese che siano “segno e fermento” di speranza nella complessa e affaticata storia di oggi.
Un primo nodo ecclesiale: una visione condivisa di chiesa riconducibile alla comunione: corale, organica e dinamica. Che renda plausibile e possibile non separare, ma unire – esaltandoli e integrandoli – i gruppi più vivi e i fedeli che danno il famoso volto popolare (ma lo riteniamo un talento o un peso…?). Da qui dovrebbe derivare una legge non discutibile: “ogni battezzato una voce”! Senza stile sinodale, dialogale, colloquiale, senza spazio e strumenti per la pluralità delle opinioni, senza la nostalgia del… “dis-senso” come via per il discernimento, non si rende possibile una chiesa comunione, testimone di speranza.
Un secondo nodo culturale: una valutazione condivisa del mondo e della nostra situazione culturale, che sia espressione di una coscienza profetica. Se il nostro ragionamento sul mondo – offeso dalla forbice crescente della disparità tra pochissimi e i più, dal dramma degli impoveriti – non si fa interpretazione cristiana della realtà, se lo stesso non avviene nella nostra visione dell’Europa e della sua razionalità post-illuministica, se la stessa lettura non si fa – nel quadro del dialogo interreligioso in un mondo carico di tensioni – delle cause del neo-terrorismo tecnologico e internazionale, come potremmo dar ragione ai nostri contemporanei e alle folle degli impoveriti della nostra speranza?
Un terzo nodo ministeriale: una visione condivisa del nuovo posto che spetta al ministero del vescovo e del suo presbiterio come soggetto collegiale del discernimento e della conferma nella fede. In una visione di chiesa comunione si tratta di un atto finale: per essere tale, deve decidere il percorso che lo precede. Deve esaltare – vincendo immagini e precomprensioni ataviche – l’“organizzazione dell’ascolto”, con il sussidio delle competenze interdisciplinari, umane e teologiche: ascolto della fede narrata dalla chiesa e nella chiesa (si inserisce qui la titolarità secolare dei laici!).
Sulla scia dei cinque ministeri fondanti di Ef 4,16 ss. e alla luce della magistrale lezione del dialogo vissuto in concilio tra teologi e vescovi, occorre un’alleanza tra il dono globale del teologo e il dono globale dell’apostolo, in ordine alla conduzione episcopale/presbiterale. Solo nel silenzio – esercitato come corpo collegiale – emerge la voce della Tradizione. Solo nel silenzio, il vescovo con i suoi presbiteri può discernere le forme per una “leadership” sacramentale. Superata la psicologia dell’assedio dei problemi, essa potrà esprimere la guida di Cristo buon pastore che abilita la chiesa a “governare il futuro”.
Un quarto nodo pastorale: una visione condivisa della missione evangelizzatrice. Per fare della pastorale un’epifania progettuale della speranza, una pastorale escatologica, ci sono almeno due basi!
Il primo pilastro è antropologico: ogni essere umano è/ha un germe divino! Lo enuncia con una luminosità abbagliante la Gaudium et spes al n. 3: «Il concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione». Questa è la scelta di campo del concilio. È anche la nostra scelta?
Il secondo pilastro è teologico: ogni battezzato è integrato per via sacramentale nel corpo di Cristo! Su questa roccia si fonda la vera profezia della chiesa nel suo farsi dialogo, azione, organizzazione. La profezia fiorisce nel passaggio (pasquale) dall’avere “tutti come destinatari” all’avere “tutti come soggetto e soggetti”. È qui la conversione che rende profetica la chiesa ed esperimentabile la sua speranza.
Un quinto nodo spirituale: una visione condivisa della spiritualità. Per sciogliere quei quattro nodi occorre un “potere” che Dio ha in serbo per noi: il suo Spirito. Ci occorre una nuova esperienza del Dio-Trinità. Personale e comunitaria. Siamo pure noi un microcosmo ecclesiale che rimanda alla condizione comune e globale della chiesa, nel suo faticoso lasciarsi tras-formare. È la “passio ecclesiae”. Ne portiamo le stimmate nel nostro corpo. Sappiamo che ci è stata indicata dallo Spirito una strada nel deserto, ma le nostre mappe non sono state ancora disegnate adeguatamente. Sarebbe decisivo riconoscerlo: la comunione non è ancora diventata operativamente, in maniera diffusa e convinta, la misura – scossa, pigiata, traboccante – della nostra spiritualità.
Così non è agile il nostro «correre con perseveranza nella corsa che ci sta dinanzi» (Eb 12,1). È affaticato il nostro esodo corale dalla non-fede alla fede, dalla pratica devozionale alla fede pensosa, dal non-popolo al popolo-di-Dio. Se questo approccio fosse vero, non disporremmo di un criterio chiave per capire il nostro momento di chiesa? E, conseguentemente, per delineare il suo futuro? Il documento che i nostri vescovi ci doneranno, entrerà nel vivo di tali questioni?
Prima che diventare e per diventare “casa”, la chiesa deve decidersi di diventare “scuola” di comunione. Passa di qui non solo la speranza del futuro, ma soprattutto il futuro della speranza.
don Gino Moro
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